Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

mercoledì 24 febbraio 2010

Sandro Pertini ricorda alla Camera Fernando Santi

Istituto Fernando Santi






Il ricordo di Sandro Pertini
Discorso pronunciato alla camera dei deputati, nella seduta del 23 ottobre 1969



"Onorevoli colleghi, raccogliamoci nel ricordo di Fernando Santi.
Non debbo lasciarmi andare sull'onda della commozione, altrimenti la parola si spegnerebbe sulle labbra. Ma quanti ricordi sorgono dal fondo dell'animo mio e incontro mi vengono come antichi amici. Sono tappe di un vasto arco di tempo che va dagli anni venti ad oggi. Allora eravamo giovani entrambi e contestavamo, ma contestavamo in nome di un’alta idea.
Egli, adolescente, aveva già preso il suo posto nel partito, nella sua Parma, sorretto da una fede vigorosa, da una viva intelligenza e dalla tenace devozione alla classe operaia, di cui sin

da ragazzo aveva conosciuto per esperienza personale la grama esistenza fatta di stenti, di rinunzie. Scriverà più tardi, costretto ancora ad una vita difficile: "Quella nuda povertà era cosa per me naturale. Mio padre l’aveva ereditata da suo padre e suo padre dal padre di suo padre. Di mia madre non dico. I suoi erano braccianti della bassa verso il Po, gialli di secolare polenta Sotto la scorza nera dell'aria e del sole. Fin da bambina aveva preso ad andare per i campi, quando l'estate chiama tutte le braccia o a spigolare grano o in cerca di radicchio selvatico per la cena. Le lunghe serate le passava al telaio, un telaio di legno sul quale tesseva una ruvida tela. Fu quella I 'unica cosa che portò mia madre in dote. L'inverno andava a servire in città e fu li che conobbe mio padre ferroviere. Si vollero presto bene".
Fernando Santi non dimenticherà mai quell'amara esperienza. Più di tutti noi, sapeva comprendere che cosa voglia dire la miseria, un salario insufficiente alle necessità di una famiglia, l'ansia di uscire da condizioni così avvilenti e di tendere ad un riscatto che consenta ad ogni creatura umana di vivere dignitosamente.
Con quel ricordo della sua infanzia, che mai l'abbandonerà, partecipa alle lotte della rovente Parma d'oltre torrente. Ed è a fianco dei braccianti della bassa padana, a contatto con la miseria, ch'è stata la miseria sua, di suo padre e di sua madre, ch'egli si forma. Si getta nella lotta con assoluta dedizione e quale segretario della Camera del Lavoro diventa una guida sicura per la sua gente.
Ma prove più dure attendono il movimento operaio parmense. Ed ecco Fernando Santi battersi sulle barricate erette dal popolo di Parma contro le orde fasciste e dalle colonne del quotidiano Il Piccolo con la sua penna di vero scrittore.
Ormai restare a Parma per lui vorrebbe dire la morte. Va a Torino a reggere quella Camera del Lavoro e poi a Milano. La sua attività non ha tregua. Resta al suo posto liberamente scelto e affronta con sereno coraggio la violenza fascista.
Esule in patria, si fa rappresentante di commercio per portare a casa un po’ di pane e ai compagni la sua parola di propagandista clandestino.
Conosce il carcere, l'ultima volta a San Vittore nel 1943. Coopera alla ricostruzione del partito socialista, ma per sfuggire ad un nuovo arresto si rifugia nella libera Svizzera. Nel 1944 partecipa all'insurrezione ossolana e alla costituzione di quella piccola repubblica sorta per volontà e virtù di popolo, primo faro di libertà acceso nell'Italia oppressa. Rientrato a Milano nell'aprile 1945 si getta nell’insurrezione.
Il resto della sua vita di sindacalista, di parlamentare, di uomo di partito è a voi tutti noto perché io lo ricordi.
Desidero solo mettere in luce il suo modo d'intendere la politica, la sua coscienza di uomo libero, la forza della sua intelligenza. Egli si diceva "riformista"; ma soggiungeva. "Perché appunto voglio le riforme". Un giorno, in uno dei suoi discorsi, chiari e limpidi come il suo spirito, parlò dei riformisti, alla cui scuola era cresciuto: "Nobile stirpe - disse - che si è estinta senza lasciare eredi". Non è vero. Lui era l'erede di quella "nobile stirpe".
Riformista era perché voleva - ripeto - le riforme; e socialista era, ma per un socialismo dal volto umano. Per un socialismo che mai astraesse dall'uomo, dalla sua dignità e dall'esigenza insopprimibile della libertà. Ascoltiamo ancora lui; ci sembrerà di sentirlo vicino a noi come un tempo: "Solo chi ha fame - disse un giorno - apprezza il sapore del pane, solo chi ha sete di giustizia sa dare alla giustizia il suo vero volto: giusto e umano. "Il benessere che vogliamo conquistare per i lavoratori non è fine a se stesso. E' una condizione per una dignità più umana e sociale senza la quale l'uomo - che per noi è il fine di tutte le cose - si sente lo stesso umiliato e offeso, estraneo al consorzio civile, nemico agli altri e a se stesso".
Bramava dire che così si era fatto alla scuola dei maestri di vita come Filippo Turati, Claudio Treves, Camillo Prampolini. Ed aveva ragione di affermare questo non solo per rivendicare un privilegio, ma anche per rispondere a chi con sufficienza definiva "romantici" questi socialisti che come lui erano persuasi non potersi avere socialismo senza libertà.
"Romantici", uomini come Fernando Santi che con fermezza seppero battersi; che hanno sempre pagato di persona; che il partito hanno servito senza mai servirsene e che non consideravano la politica quale occasione propizia per ottenere poltrone e prebende, ma quale missione d'assolvere solo nell'interesse della classe lavoratrice e del paese. Così, proprio un "romantico" come Fernando Santi rifiuta il Ministero del lavoro pur di non scendere a compromessi con la propria coscienza.
Questa sua concezione umana del socialismo lo portò ad essere comprensivo verso chi la sua fede non condivideva. Non era un fazioso e non considerò né il suo partito né se stesso depositari della verità assoluta. Non apparteneva alla categoria di chi vuole che la lotta politica sia non un fecondo e aperto confronto di idee bensì un contrasto di rancori personali. Riprendendo un brano d'un suo nobilissimo discorso, oggi quando si parla di Fernando Santi giustamente si dice: "Di lui ci potevamo fidare".
Ma di lui si potevano fidare non solo i compagni, i lavoratori, cui dedicò tutto se stesso, ma anche gli avversari. Perché' Fernando Santi ha sempre combattuto a visiera alzata, lealmente. Ricordo quando qui, a Montecitorio, andò ad inchinarsi dinanzi alla salma di un avversario di sempre, spentosi improvvisamente mentre parlava in quest'aula. Un collega gli rimproverò quel gesto di cavalleresca pietà. Egli bruscamente - come era uso fare quando udiva affermazioni assurde -gli rispose: "Solo uomini di sincera fede possono fare quello che ho fatto io. E poi l'avversario io lo combatto quando è in piedi non quando è caduto".
Questo suo umano modo di sentire lo portava ad ascoltare quanti si battevano in nome dei principi per lui essenziali. Egli era persuaso che uomini provenienti da sponde differenti potessero incontrarsi su un comune terreno, il terreno della libertà, della giustizia sociale, della pace. Era, quindi, contrario a steccati fra i partiti, che pur essendo animati da ideologie diverse, potevano, tuttavia, riconoscersi in codesti principi, i quali, in buona sostanza, costituiscono il porto di salvezza di questa nostra inquieta umanità.
Da qui la sua costante aspirazione del sindacato unico. Egli, che nell'azione sindacale aveva dato il meglio di sé stesso, legandosi sempre più al movimento operaio, sentiva che la forza della classe lavoratrice risiede soprattutto nella sua unità. Peraltro dinanzi ai lavoratori, al di sopra dei confini ideologici, stanno gli stessi problemi e quindi le soluzioni non possono non essere comuni.
Ascoltiamo ancora una volta la sua parola, che vivrà nel cuore dei lavoratori e di quanti si battono per il riscatto della classe lavoratrice: "Il sindacato nel suo significato storico è anzitutto un fatto di democrazia e di libertà, un fatto di civiltà, una immensa forza liberatrice".
Fernando Santi sarebbe stato il più degno a tenere a battesimo l'unità sindacale. E forse quando l'amarezza per l'irriconoscenza altrui si faceva in lui più pungente, lo confortava il pensiero di poter essere egli il segretario generale del sindacato unico. Tutti l'avrebbero accettato, perché tutti in lui si sarebbero riconosciuti. Ecco perché a Parma uomini di partiti diversi e di diversa estrazione ideologica si trovarono così strettamente uniti intorno al suo feretro.
Onorevoli colleghi, sentiamo e sentiremo per lungo tempo la sua mancanza. Quando uomini come Fernando Santi se ne vanno per sempre, portano via con se qualche cosa di noi stessi e noi ci sentiamo più soli. Lo faremo rivivere nel nostro ricordo: faremo rivivere l'uomo di fede dalla coscienza retta, dal forte ingegno. Scrittore nato, oratore efficacissimo, che ripugnava all'oratoria paludata, perché considerava una offesa verso i semplici non parlare in modo semplice. Ricorderemo anche la sua ironia che non risparmiava alcuno. Eppure nessuno di noi gliene voleva per questo, perché sapevamo che la sua ironia non era mossa da malanimo.
Ricorderemo la sua amarezza - che per pudore celava nell'animo suo - quando non fu più rieletto. Crudeltà spietata di uomini e di partiti che spesso si ripete. Ricorderò, io, le visite che quasi quotidianamente gli facevo quando fu ricoverato al policlinico di Roma, colpito da male inesorabile. In quelle visite era tra noi risorta la nostra antica fraterna amicizia, libera delle scorie della politica. E dopo aver sentito dai sanitari la verità del suo male, dovevo usare violenza all'animo mio, colmo di tristezza, per entrare nella sua camera sorridendo. Parlavamo di tutto e di tutti. Un mattino non lo trovai più nella solita stanza. Era stato trasportato a Parma
Ai primi di settembre ricevetti una sua lettera: "Sono venuto a Parma per vedere di passare il punto dalla malattia alla convalescenza. Ma niente si vede ancora in questa direzione". Il suo destino l'ha portato a morire nella sua terra, fra la sua gente.
Sino all'ultimo fu assistito dai suoi figlioli Piero e Paolo e dalla compagna di sua vita Maria. Compagna della sua vita e della sua lotta, coraggiosa, fiera del suo Nando; sempre al suo fianco a condividere sacrifici, delusioni, persecuzioni. E senza mai lagnarsi.
Fernando Santi lasciò scritto di sua moglie Maria, da poco a lui sposata: "Quella della casa restava la pena maggiore di mia moglie. Non ci arriverò mai ad avere un abbaino tutto per noi. Per i poveri non c’è proprio fortuna. Lo diceva rassegnata senz’ombra di rimprovero". Dolce e forte compagna di Fernando Santi, oggi, in quest’aula, ove tante volte si è levata serena e pacata la sua nobile parola, noi tutti - amici compagni avversari - lo ricordiamo con affetto e con riconoscenza.
Con riconoscenza, onorevoli colleghi, perché Fernando Santi, nato povero e morto povero, ha lasciato a noi tutti una ricchezza: il suo esempio.

http://www.ossimoro.it/santi.htm

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