Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

lunedì 5 ottobre 2009

giacomo marramao

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G I A C O M O M A R R A M A O

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BUY THE BOOK Secondo Giacomo Marramao, che affronta in questo libro lo straordinario "mutamento di scala" che accompagna i fenomeni politici della nostra epoca, il ricorso alle categorie di "mondializzazione" o "globalizzazione" non ha solo un significato tecno-economico. Siamo di fronte a un passaggio destinato a trasformare tutte le culture, che chiama in causa una riconversione di concetti fondamentali come identità e differenza, contingenza e necessità, nonché, per cominciare, locale e globale. Rispetto a diagnosi apparentemente antitetiche come quelle di Fukuyama (omologazione universale) e Huntington (conflitto delle civiltà), per Marramao è necessario demistificare due false opposizioni: Stato-mercato e Oriente-Occidente. A tale scopo, il libro, tenendo costantemente sullo sfondala grande discussione sull' "èra globale" avviata fra le due guerre da autori come Spengler, Junger, Schmitt e Heidegger, sviluppa la sua proposta muovendo dal disincanto della categoria di mercato operato da Karl Polanyi e da una profonda revisione dell'approccio comparativo delle culture operato da Max Weber. L'esigenza - avanzata in conclusione attraverso un serrato confronto con le posizioni di Jurgen Habermas e di Jacques Derida - di una "politica universalista della differenza" viene formulata in base a un radicale riesame critico delle pretese di universalità delle stesse categorie, tipicamente occidentali, di democrazia e filosofia.



«Una storicità profonda penetra il cuore delle cose, le isola e le definisce nella loro coerenza, impone ad esse ordini formali implicati dalla continuità del tempo». Nella prospettiva teorica delineata da Giacomo Marramao la «continuità del tempo», che Michel Foucault indica qui come contrassegno del moderno, non è semplice vettore, bensì forma transpolitica per eccellenza, che involve la fitta trama delle categorie filosofiche fondamentali della costellazione moderna. Senza il tempo-storia cumulativo e irreversibile – senza la temporalizzazione della storia – non si darebbe il processo di secolarizzazione nel significato più esteso che è venuto assumendo: ossia di passaggio della società occidentale dalla spazialità rituale degli ordini gerarchici alla fase dinamica della piena autodeterminazione del soggetto. Con questo libro fondativo, da cui ha preso avvio la sua riflessione ventennale intorno all’«impensato» dell’idea di secolarizzazione, Marramao ha anche aperto la saggistica filosofica italiana agli esiti della Begriffsgeschichte tedesca: la storia concettuale che indaga sia la genesi e le trasformazioni del grande lemmario teoretico-politico, sia gli elementi figurali e i complessi metaforici che intervengono nella costituzione dell’«immagine del mondo» lungo la linea di confine tra metafisica e politica, scienza e multiverso delle pratiche.




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Da quando Thomas Hobbes fece del mostro biblico l'emblema dello Stato - il "Dio mortale", la massima potenza terrena - la filosofia politica non ha smesso di fronteggiare il Leviatano. Oggi tuttavia la suggestione simbolica della megamacchina statuale, che ha segnato il destino stesso della modernità, sembra ormai irreversibilmente esaurita. Con l'avanzare del dominio della tecnica il Leviatano appare sempre più, secondo l'intuizione di Nietzsche, un "gelido mostro", menzognero e insensibile alla varietà del divenire e della vita. "Morte di Dio" e "morte dello Stato" non sono che due aspetti di quel medesimo processo di pluralizzazione della politica cui già alludeva Weber con la nozione di "politeismo dei valori". Ripercorrendo la fitta trama della riflessione sul politico, da Schmitt a Habermas, dal "pluralismo corporativo" all'attuale polemica tra "comunitaristi" e "liberali", Marramao delinea la prospettiva di un mutamento di paradigma, al di là degli orizzonti concettuali dello Stato-Leviatano.


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La tragedia di Manhattan ha aperto una nuova epoca, allo stesso modo in cui l'attentato di Sarajevo aveva inaugurato la lunga "guerra civile mondiale" del Novecento. Il crollo delle Twin Towers segna il passaggio dal sistema-mondo al conflitto-mondo, e rappresenta perciò un evento non solo storico e politico, ma anche eminentemente filosofico. Sul limite della nuova epoca globale, caratterizzata dal dominio tecnologico e dall'eclissi delle certezze dell'etica e della politica tradizionali, due filosofi, legati da una comune appartenenza generazionale, tentano di rispondere alla sfida, mettendo a confronto la condivisa tensione verso un nuovo inizio. Il dialogo pone al centro la natura paradossale del nostro presente come "tempo sospeso" tra il non-più del vecchio ordine e il non-ancora di un nuovo ordine che non si riesce a intravedere. In che termini si ripropone oggi il tema classico del rapporto tra attualità e pensiero, in un mondo che sembra relativizzare irrevocabilmente le categorie e i valori con i quali l'Occidente ha costruito la propria identità? Attraverso un confronto serrato, che non rinuncia a spezzare il corso della discussione filosofica con puntuali riferimenti all'attualità politica e alla storia italiana degli ultimi trent'anni, gli autori assumono la questione del presente nel duplice significato di nodo teorico e di costellazione simbolica.




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Da Platone allo spazio-tempo della relatività einsteiniana e all' "indeterminato" della meccanica quantistica. Una mossa originale che spiazza un'intera tradizione della filosofia. Un ripensamento radicale dei paradossi del tempo contro il "gergo filosofico" che oppone autentico a inautentico, l'incommensurabilità della durata interiore alle "misure" del tempo spazializzato. Al centro del libro, una critica serrata di Heidegger e dell'heideggerismo. Al termine del percorso emerge l'immagine del kairos, del "tempo debito": contingenza propizia che dà luogo ad ogni identità, compreso il fenomeno della Mente o Coscienza. E, dallo sfondo del lessico greco, affiora - con un colpo di scena - un ultimo nodo cruciale: l'enigmatica origine del latino tempus.


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Cielo e Terra. Eternità e secolo. Un tipico dualismo occidentale è alla base della varietà di panorami indicati dalla categoria di "secolarizzazione". Passando per una lunga serie di spostamenti sematici ed estensioni metaforiche, quest'espressione si è trasformata - da "terminus technicus" sorto originariamente in ambito giuridico - in concetto teologico e di filosofia della storia: fino a denotare da ultimo la definitiva crisi di ogni modello di storia orientata, in una condizione ipermoderna delimitata dal disincanto operato dalla scienza da un lato e dal prepotente ritorno del mito dall'altro. Il volume di Giacomo Marramao trae spunto dalla voce "Secolarizzazione", redatta dall'autore per il prestigioso "Historisches worterbuch der Philosophie", e da una serie di seminari sul tema tenuti tra il 1992 e il 1993 presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco.



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Il filo conduttore di questo viaggio attraverso i labirinti della prospettiva moderna è costituito da un tratto paradossale: l'inconcepibilità del tempo fuori del riferimento a rappresentazioni spaziali. Lo "spiazzamento" filosofico che ne consegue investe in pieno le pretese della filosofia del Novecento di estrapolare una dimensione "autentica" della temporalità in antitesi alla "spazializzazione" - a cominciare dallo stesso Heidegger, di cui il libro propone una critica teoretica radicale. L'alternativa filosofica avanzata viene così a configurare, nella sua novità, un'aperta rottura con tutte le attuali declinazioni della tematica del "nichilismo". Essa non è più giocata sui consueti "superamenti" e "rovesciamenti", ma su uno spostamento laterale dell'ottica con cui l'intera tradizione filosofica occidentale ha finora visualizzato la "questione del tempo".


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Dalla "Critica Sociale" all' "Ordine nuovo", da Turati a Gramsci, dalla critica al filantropismo umanitario delle origini alla crisi del positivismo, si svolge nel movimento operaio italiano una complessa e animata vicenda teorica - specchio, funzione e motore di quella politica - che conduce i socialisti italiani dal Congresso di Genova del 1892 alla scissione di Livorno, dalla separazione dagli anarchici alla 'svolta' del leninismo, ma certamente non si esaurisce, arrivando a fornire materia e schemi al dibattito teorico e politico di questo dopoguerra. Nel valutare meriti, ruoli e rapporti dei protagonisti - uomini e correnti - di questa vicenda, da Turati a Labriola, da Croce a Gentile a Mondolfo, dai 'critici di Marx' ai restauratori di una 'filosofia' del socialismo, il dibattito storiografico degli ultimi decenni, pur nella diversità talora radicale dei giudizi, ha prodotto i suoi canoni, delineato un quadro sistematico. Passando attraverso un'analisi attenta dei testi del 'revisionismo' - da quelli del dibattito collettivo sulle colonne della "Critica Sociale" a quelli decisivi di Labriola, Croce, Gentile, Mondolfo - il volume di Marramao approda da un lato a una valutazione indubbiamente originale del merito teorico e dei significati politici delle correnti e degli episodi più significativi di quel dibattito; dall'altro, a un profondo rimescolamento delle gerarchie, dei rapporti reciproci, delle influenze fra gli interlocutori fondamentali.





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READ MORE... Le complesse vicende politiche e teoriche del marxismo europeo fra gli anni Venti e Trenta trovano nelle elaborazioni, nelle discussioni, nelle polemiche sui processi di metamorfosi del capitalismo un punto di eccezionale chiarificazione: esse rispecchiano, infatti, quella che Max Horkheimer, il massimo esponente della "Teoria critica", aveva definito "crisi della scienza", indicando con questa formula le difficoltà di adeguazione della teoria marxiana della società alle immani trasformazioni del capitalismo fra le due guerre. Organizzato attorno ad una rivisitazione dei vari protagonisti di quei dibattiti - da Karl Korsch a Henrych Grossmann, da Rudolf Hilferding a otto Bauer, da Anton Pannekoek a Paul Mattich, Friedrich Pollock, Alfred Sohn-Rethel, ecc. - ricco del confronto con la vastissima saggistica su questo eccezionale periodo storico, questo volume trova la sua ragione nell'assunto generale che il passaggio dagli anni Venti agli anni Trenta individui un punto nevralgico, un laboratorio incandescente dal quale si sprigionano conflitti e linee di tendenza le cui conseguenze e propaggini appaiono, nella crisi odierna, quanto mai condizionanti: per la teoria non meno che per la prassi, per le idee di 'progetto', 'sviluppo', 'trasformazione' non meno che per le esperienze effettivamente compiute dagli attori sociali.






































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venerdì 10 luglio 2009

lettera a Romano sul G8 e Israele

Caro Romano,

ho notato l'assenza di Israele dal G8 ed a pensarci bene credo che non abbia mai partecipato a questo importante evento internazionale.Al summit dell'Aquila c'era financo Gheddafi e moltissimi altri capi di Stato ma Netanjahu non si è fatto vedere
Come mai? .
Come spiega che la Nazione cruciale per la pace mondiale diserta sistematicamente tutte le occasioni che la metterebbero a confronto con le altre nazioni?
Temeva forse domande imbarazzanti sui bombardamenti di Gaza e sulla prigionia dei suoi abitanti?
Pietro Ancona




domenica 7 giugno 2009

parlamentare ebreo inglese su Israele

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VIDEO: PARLAMENTARE EBREO BRITANNICO ACCUSA ISRAELE DI COMPORTARSI COME I NAZISTI

17 gennaio 2009


"Israele è nato dal terrorismo ebraico, il padre di Tzipi Livni era un terrorista". Incredibili affermazioni alla House of Parliament. Sir Gerald Kaufman, un veterano dei parlamentari laburisti, ieri ha paragonato le azioni delle truppe israeliane a Gaza ai nazisti che costrinsero la sua famiglia a scappare dalla Polonia.

Durante un dibattito alla Camera dei Comuni sui combattimenti a Gaza, egli ha esortato il governo a imporre un embargo delle armi a Israele.

Sir Gerald, che è stato cresciuto come ebreo ortodosso e sionista, ha detto: "Mia nonna era malata nel suo letto quando i nazisti entrarono nella sua casa e un soldato tedesco le sparò uccidendola mentre era a letto."

"Mia nonna non è morta per fornire una copertura ai soldati israeliani che uccidono le nonne palestinesi a Gaza. L'attuale governo israeliano sfrutta cinicamente e spietatamente la perpetua colpa dei gentili per il massacro degli ebrei nell'Olocausto come giustificazione per la sua uccisione dei palestinesi".

Egli ha detto che l'affermazione che gran parte delle vittime palestinesi fossero militanti "era la replica dei nazisti" e ha aggiunto: "Suppongo che gli ebrei che combattevano per la loro vita nel ghetto di Varsavia sarebbero potuti essere qualificati come militanti".

Egli ha accusato il governo israeliano di cercare la conquista e ha aggiunto: "non sono semplicemente dei criminali di guerra, sono dei pazzi".

YouTube - UK Jewish MP: Israel acting like Nazis in Gaza




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Messaggi: 59

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di ebrei cm lui in giro
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Ricordo che un paio d'anni fa il nostro presidente della repubblica () se ne usci con questa incredibile frase:


Citazione:
Bisogna combattere l'antisemitismo anche quando questo si traveste da antisionismo, perchè il sionismo è il fondamento dello stato di Israele.

A parte la colossale idiozia di fondo che valida affermazioni come "bisogna rispettare il nazismo perchè è il fondamento della germania nazista" o per par condicio "bisogna rispettare il comunismo perchè è il fondamento della cambogia di pol pot".
Probabilmente un personaggio come Napolitano se dovesse trovare a tu per tu con un Gerald Kaufman rimarrebbe a bocca aperta biascicando cose tipo "no... tu... ebreo! antisionista... ma... è impossibile!"


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giovedì 4 giugno 2009

DICHIARAZIONE DI VOTO

DICHIARAZIONE DI VOTO
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Sono un vecchio socialista di un partito socialista che non c'è più: il partito di Nenni, Lombardi, Morandi,
Brodolini, Loris Fortuna e ,prima di questi, di Lina Merlin che fece diventare civile l'Italia con la chiusura dei bordelli e l'abolizione della scritta "figlio di N.N" dalla tessera di identità. Il Partito Socialista che non c'è più fu capace di dare vita ad una stagione eccezionale di riforme cominciate con la nazionalizzazione della industria elettrica e culminate con lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori dopo avere riformato la scuola ed avere introdotto il divorzio voluto con tantissima forza da Loris Fortuna.
Alle Europee voterò comunista ,il raggruppamento che fa capo a Paolo Ferrero, Di Liberto e Salvi anche se non ho condiviso la loro prova di governo conclusasi disastrosamente per le attese dell'elettorato "operaio"deluso dalla protervia ricattatoria di Prodi e dell'ala maggioritaria iperliberista del suo Governo.

E' importante votare comunista per andare contro corrente rispetto lo smottamento a destra abbastanza rovinoso di gran parte di quella che fu la sinistra italiana ed assicurare un valido punto di riferimento a quanti paventano l'abolizione dell'art.18, vorrebbero liberarsi e liberare l'Italia dal precariato, bloccare lo smantellamento del welfare, assicurare pensioni decorose ai lavoratori, avere una politica estera di pace ed un esercito di pace, una scuola pubblica rinnovata e forte.

Un successo dei comunisti potrebbe rallentare lo smottamento a destra del PD. L'Italia ha bisogno di recuperare una grande forza di sinistra che non abbia tra i suoi deputati gli esponenti più ringhiosi della Confindustria come Calearo, Colaninno, Merloni e giuslavoristi come Ichino dediti allo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Il PD deve tornare ad essere un partito progressista. Oggi è il Partito della Confindustria che tuttavia si serve anche di altri forni per impastare il suo pane.

Il successo dei comunisti potrebbe far riflettere il PD sul suo mostruoso accordo con Berlusconi per la soglia del quattro per cento che impedisce a tutti gli orientamenti politici presenti nel Paese di avere una voce in Parlamento.
La semplificazione a due è una perdita secca per la democrazia che invece deve recuperare valori delle tante correnti culturali che hanno reso civile la politica italiana oggi ridotta a livelli di barbarie specie per il nefasto concorso dell'apparato massmediatico.
Non andrò a votare per il referendum che ribadisce ancora più negativamente il porcellum che ci obbliga ad avere un Parlamento scelto dei capi dell'oligarchia e sottratto in ogni suo membro al giudizio dell'elettorato.

Pietro Ancona
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mercoledì 3 giugno 2009

il ridicolo nella storia

IL RIDICOLO NELLA STORIA
Alberto Asor Rosa
Penso che sarebbe opportuna una riflessione sul ruolo del ridicolo nella storia. Ridicolo: «Che suscita il riso, che induce a considerazioni derisorie e spregiative perché manca di ragionevolezza, di buon senso o di giudizio...; che espone al dileggio chi lo compie, lo mantiene o lo prova in quanto provocato da assurde convinzioni o privo di ragionevoli motivazioni...; sciocco, irragionevole, insensato, stolto» (Grande Dizionario della lingua italiana, detto il Battaglia, XVI).
Mi venivano in mente tutte queste considerazioni, e altre ancora, visionando mesi fa uno di quei bei documentari, ricchi di filmati d'epoca, che Nicola Caracciolo ha dedicato al Novecento italiano: e precisamente quel mazzetto di fotogrammi, destinato a durare una manciata di secondi, ma di straordinarie eloquenza (è il caso di dirlo), in cui Benito Mussolini, in fez, divisa e decorazioni, annunzia dal balcone di Palazzo Venezia a Roma la conquista dell'Impero: gli occhi spiritati, i pugni piantati sui fianchi, la mascella immarcescibile che, levata al cielo, ondeggia, tre o quattro volte avanti e indietro per asseverare alla folla, intensamente e persuasivamente, il pensiero appena espresso. Dio mio, ho pensato, come ha potuto questo osceno buffone, questo artistucolo da avanspettacolo, bandato con quelle volgari camuffature carnevalesche, sedurre per anni la grande maggioranza di una popolazione dal passato non del tutto inesperto e primitivo? Come, di fronte ad un tale spettacolo, la folla che gremiva la storica piazza, invece di acclamarlo forsennatamente, non lo ha liquidato all'istante con una colossale risata?
Altrettanto si potrebbe dire del suo più caro collega e amico, il forsennato tedesco Adolf Hitler: la cui oratoria alla nazione tedesca, dall'alto della tribuna notturna dello stadio di Norimberga, di fronte a migliaia di uomini schierati disciplinatamente nel quadrato «ordo» nazista (la «differenza tedesca»!), non può non imporci oggi la stessa domanda: come hanno potuto quell'isterico condizionamento, quella sorta di parossistica verve istrionica, quell'esibizione facciale-gestuale da saltimbanco, non suscitare la reazione che il ridicolo, - nelle sue molteplici forme di buffoneria, inverosimiglianza, dissennatezza - dovrebbe sempre suscitare? Ma su questo punto specifico - il ridicolo e la storia tedesca - tornerò più avanti.
Ora è inevitabile - me ne rendo conto - che il pensiero del lettore corra ai tempi nostri: i capelli finti, la bandana stretta, i tacchetti veri, le barzellette spinte, le corna dietro la testa di uno dei Primi Ministri più autorevoli d'Europa, le ossessioni sessuali, le storielle pruriginose, l'eloquio approssimativo e scarsamente italiano, l'interazione ossessiva della menzogna, il disprezzo urlato delle regole, le manie persecutorie, le battute alla vecchietta abruzzese terremotata: «vada, vada a nostre spese in uno degli alberghi della costa e si porti la crema solare!», l'esagerazione e l'irrealismo favolistico delle promesse, l'incultura esibita perfino nel modo di gestire e di vestirsi, il sorriso stereotipato e buffonesco, - insomma, tutto ciò che ci sta tutti i giorni sotto gli occhi dalla mattina alla sera, - compongono i tratti della figura più ridicola che la nostra contemporaneità abbia prodotto, il «ridicolo italiano» nella sua versione più alta e smaccata. Eppure non se ne ride: anzi, nel bene come nel male, la si prende fin troppo sul serio.
Se il quadro è questo, si pongono alcune domande e/o questioni. Innanzi tutto: esistono evidentemente tipi diversi di ridicolo nella storia: da quello grottesco, imperial-reboante, di tipo fascistico, a quello funereo, anzi tendente al macabro, del nazismo, a quello commercial-mediatico dei nostri tempi italiani, variante piccolo-borghese emergente e arrampicatrice della categoria esaminata. Ma tutti hanno, come vedremo, qualcosa in comune. Naturalmente, il ridicolo non si limita alla figura del Capo, da cui tuttavia promana. Si pensi al carnevalesco corteggio dei gerarchi nazisti: a Göring! a Hesse! Si pensi al suo (innegabilmente più guittesco) corrispettivo italiano; Starace Segretario del Pnf! Si pensi all'oggi: Gelmini Ministro della Pubblica Istruzione! La Russa Ministro della Difesa! Carfagna Ministro delle Pari Opportunità! Brunetta Ministro!
Il ridicolo del Capo, usato notte e giorno come fondamentale strumento di captazione del consenso, s'allarga a macchia d'olio, si collega con il ridicolo embrionalmente già presente nelle profondità della società circostante, contamina in qualche caso anche l'opposizione (vi risparmio gli esempi possibili, per non allungare troppo il discorso, ma vi assicuro che ne ho). Poniamo un limite storico-politico alla nostra esposizione: mi pare assolutamente innegabile che il tipo, intellettuale o politico, che potremmo definire democratico o liberal democratico, generalmente si sottrae alla categoria e alla pratica del ridicolo. Non è ridicolo Giovanni Giolitti. Non sono ridicoli Aldo Moro ed Enrico Berlinguer: ovvero lo sono lo stretto necessario che serve loro ed assicurarsi il favore della gente (dunque il ridicolo è connaturato all'esercizio stesso della politica, di qualsiasi politica? Bella domanda: bisognerà tornarci su). Se mai, per una prevalente da parte loro ricusazione dell'esibizionismo attoriale e delle pratiche camuffative, essi sono o appaiono grigi. E infatti di questo loro grigiore li si accusa come di una colpa ed un limite da parte di coloro che scelgono, come pratica politica e culturale, l'esibizionismo e la scena: basti pensare alle offese invereconde lanciate contro uomini come Giolitti e Nitti da un altro grande, grandissimo «ridicoloso» («degno di derisione», ibid) del Novecento italiano, Gabriele d'Annunzio.
La domanda principale di questo ragionamento dovrebbe dunque, se non erro, essere questa: come mai quello che ragionevolmente, e in condizioni normali, avrebbe suscitato soltanto il riso, in certi momenti della storia europea del Novecento (ma fondamentalmente, ahimè, tedesca e italiana), è divenuto una componente essenziale del successo politico di un individuo e della catastrofe culturale che ne è seguita? (e viceversa, beninteso: più esattamente, il processo si muove contemporaneamente in ambedue le direzioni). C'è chi ha già provato a definire le dinamiche di questa che, al limite, va considerata una vera e propria perversione storico-sociale, un morbo dei popoli: e, si parva licet, ci azzardiamo a chiamarlo direttamente in causa. Thomas Mann ha avuto presente ab origine il carattere ridicolo e grottesco dell'esperimento nazista: per lui Hitler, il Grande Dittatore, è in realtà «un oscuro cialtrone», «un infame ossesso», «un brigante», l'«astuto sfruttatore di una crisi mondiale», un «cane rabbioso alla catena», un «artiglio da isterico stretto a pugno», un «infernale vagabondo» (noto di sfuggita: nulla di simile è mai uscito dalla penna d'un grande intellettuale italiano del tempo, ciò non basta a marcare indelebilmente caratteri e vocazioni delle due culture).
Ci sarebbe da aggiungere qualcosa, - per restare al passato -, a proposito di quello che i grandi comici, da Petrolini a Chaplin, hanno detto sull'impura, degradata comicità dei miserabili buffoni che tentarono di fare loro concorrenza, ma lo rimanderemo alla prossima puntata.
Per spiegare come questo spropositato e sovreccitato «ridicoloso» abbia potuto sedurre un popolo dalla grande cultura come quello tedesco, Mann ricorre a due ordini di motivazioni, che possono tornare utili anche a noi. Da una parte, c'è la crisi della democrazia: la sua incapacità a risolvere i problemi di quella società in quella determinata fase storica.
È questa incapacità che apre la strada, a livello di massa, alla perdita di ogni senso del ridicolo (cioè, in altri termini: ad ogni ragionevole percezione dei valori). Dall'altra, c'è quella che io definirei la degenerazione di massa della stessa opzione e logica democratica, il rovesciamento delle normali pratiche di consenso, regolate della legge, in una sorta d'esplosione d'istinti neobarbarici, che non è più in grado di distinguere la luce della ragione (anche in questo caso, come si vede, il processo si muove contemporaneamente nelle due direzioni, dall'alto al basso e dal basso all'alto). Ascoltiamo le parole lucidissime di Mann: «L'immensa ondata di barbarie eccentrica e di volgarità primitiva, plebeamente democratica, prodotto d'impressioni violente, sconcertanti e insieme stimolanti dei nervi, inebrianti, da cui è sopraffatta l'umanità» (da Appel and die Vernunft: ossia «Appello alla ragione», un titolo che è già un programma, tenendo conto che lo scritto apparve nell'ottobre 1930, quando i tedeschi avrebbero ancora potuto tenerne conto, e non lo fecero). Dunque, parafrasando, se ci riesce, si potrebbe dire: il ridicolo come strumento di seduzione politica è il segno infallibile dell'abbandono della tradizione e del campo democratici e dell'apertura di una nuova e inquietante fascia di esperienze che, dittatura o democrazia autoritaria che sia, tendono in un modo o nell'altro a travalicarli; la perdita del senso del ridicolo a livello di massa è la prova più certa della degenerazione di un popolo in un coacervo d'individui staccati, inebriati dal fascino di un qualsiasi, - sostanzialmente replicante anche se formalmente mutante, - «infame ossesso». Intendiamoci: il ridicolo è un po' come la puzza: non tutti l'avvertono nel medesimo istante, qualcuno mai. Cioè: per definizione (definizione culturale e politica) essere in grado di avvertirlo, - vale a dire quel che solitamente definiamo senso del ridicolo, - è un fatto di per sé elitario: è difficile che le masse lo trovino per conto proprio. Però quando le masse lo hanno perso totalmente questo vuole dire che le élites sono state totalmente sconfitte, e questo apre la strada all'egemonia del «buffone»: insomma, è sempre lo stesso discorso, anzi, lo stesso processo, che però risulta declinabile in vari modi.
Per ridere dei loro impareggiabili «ridicolosi» d'un tempo, tedeschi e italiani hanno avuto bisogno d'una terribile guerra, nel corso della quale gli orpelli sono caduti uno ad uno, le divise carnevalesche si sono lacerate e il ghigno nascosto dietro la maschera si è rivelato in tutta la sua terribilità: non si poteva ancora tornare a riderne, - come è accaduto solo più tardi, del tutto a posteriori, quando, a dire la verità, non ce n'era neanche più bisogno, - per il buon motivo che non c'era più niente da ridere. Quale catastrofe dobbiamo aspettarci (e augurarci) perché gli italiani riescano a ridere del «ridicoloso» che oggi li governa?




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venerdì 29 maggio 2009

rosa luxemburg

trovati i resti di Rosa
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Se la notizia fosse confermata sarebbe necessario assicurare a Rosa degna sepoltura e farne un luogo di identità dei socialisti europei.
Il socialismo ha bisogno di ritrovare le sue origini classiste, rivoluzionarie e riformiste.

http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/esteri/luxemburg-corpo/luxemburg-corpo/luxemburg-corpo.html

Pietro Ancona

martedì 7 aprile 2009

terremoto, terremoti

terremoto, terremoti.....

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il terremoto verrà sfruttato cinicamente da tutti: dal governo per bloccare le giuste richieste che salgono da ogni angolo del Paese, dall'opposizione che finalmente potrà esternare la sua insana voglia collaborazionista, dal Sindacato che metterà la sordina alle rivendicazioni della gente confluita al Circo Massimo, sarà l'argomento con il quale sarà schiacciata ogni richiesta anche la più legittima come "egoista" ed incurante dei gravi problemi del Paese.


Sono contrario a fare sottoscrizioni. Non giunge niente ai destinatari di tutte le sottoscrizioni che si fanno in Italia. Questo Paese è esperto in tre cose: finanziarie usuraie che si offrono con volantinaggio a darti soldi, gratta e vinci che è praticato in massa da tutti a cominciare dai poverissimi, sottoscrizioni per tutte le malattie e per tutte le cause.......


Credo che se si vuole fare qualcosa si può comprare un computer per regalarlo senza intermediari ad un istituto scolastico di l'Aquila

Pietro Ancona
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lunedì 2 febbraio 2009

Nicola Capria è morto

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----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
Sent: Monday, February 02, 2009 10:01 PM
Subject: la morte di nicola capria










In morte di Nicola
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Partecipo con viva commozione al dolore della famiglia e dei socialisti siciliani per la morte di Nicola Capria, eminente dirigente
politico più volte membro del governo siciliano di cui fu vice presidente e membro del governo nazionale.
L'ho conosciuto negli anni sessanta. Era un giovane intellettuale, una persona colta, a quel tempo di sinistra e che comunque cercava le ragioni della legittimità culturale storica e politica dei socialisti oscurata dall'egemonia culturale del PCI e dall'ombra lunga del ponte che comunisti e democristiani avevano creato bypassando le forze meno rilevanti (secondo il loro punto di vista).
Nicola combatteva la battaglia dell'identità socialista non in termini anticomunisti ma di scoperta e valorizzazione della grande corrente di pensiero socialista italiano da Anna Kuliscioff a Rodolfo Morandi, Riccardo Lombardi.
Era autonomista ed ebbe un momento di grande visibilità quando assieme a Rosario Nicoletti e Achille Occhetto segretari rispettivamente della DC e del PCI siciliano concepirono il disegno di un accordo per lo sviluppo dell'Isola, disegno generoso ma debole
per il suo carattere eminentemente leaderistico e per l'incapacità di capire i rapporti con le grandi masse popolari che rivendicavano un ingresso pieno nella gestione politica della Autonomia Siciliana.
Fu artefice con Gaspare Saladino ed i dirigenti dell'EMS dello storico e straordinario progetto di trasporto in Sicilia ed in Italia con un metanodotto sottomarino del gas algerino che tuttora, da allora, dà energia e lavoro all'Italia.
Fu certamente persona onesta e tutt'altro che mafioso. L'accusa lo colpi dolorosamente ma nessuno dei socialisti e di quanti lo conoscvevamo bene ha mai pensato che potesse davvero avere qualcosa a che fare con la criminalità mafiosa siciliana o calabrese.
Era un politico particolare che passava gra parte del suo tempo a leggere a studiare ad interrogarsi sui grandi temi del socialismo e del capitalismo.
Ero segretario generale della CGIL durante la sua prestigiosa presenza nel governo regionale e fu sempre in rapporti di grande amicizia e rispetto del'autonomia dei sindacalisti socialisti e del sindacato in genere. E' stato molto, molto male prima di morire e forse la morte lo ha liberato da uno stato di prostrazione fisica che gli avrà reso amari gli ultimi anni di vita.
Ricordiamolo con affetto, come un caro compagno che ci ha lasciato e che in grande parte è rimasto interno al dramma che ha distrutto
la vita ai socialisti ed al Partito che è stato il più bello del mondo, il partito della nazionalizzazione dell'industria elettrica, della scuola media unificata, del divorzio, dello statuto dei diritti dei lavoratori. Un partito del quale possiamo dire che quanto di buono si è fatto in Italia gli si deve!!
Pietro Ancona
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SCOMPARSA DI NICOLA CAPRIA.
E' morto sabato scorso a Roma,dopo una lunga malattia, Nicola Capria.Aveva 76 anni.Originario della provincia di Reggio Calabria, Capria svolse la sua attività politica prima in Sicilia e poi, a livello nazionale, a Roma. Deputato all'ARS dal '68 al '76, poi vice presidente della Regione Siciliana e infine, fino al '94, parlamentare nazionale, Capria ricoprì gli incarichi di ministro del Turismo, del Mezzogiorno, del Commercio con l'estero e della Protezione civile Fu anche Capogruppo a Montecitorio del Psi. Accusato nel '93 per concorso esterno in associazione mafiosa, Nicola Capria fu successivamente assolto con formula piena ma si ritirò dalla politica. Appresa la notizia il Segretario del Partito Riccardo Nencini ha espresso "la commozione e la tristezza dei socialisti Italiani. Con Nicola Capria - ha osservato Nencini- scompare un galantuomo,dotato di una raffinata e profonda c ultura politica e giuridica,un dirigente socialista espressione e continuatore della grande tradizione del socialismo meridionale e siciliano che lo ha visto protagonista con Giacomo Mancini e Salvatore Lauricella della feconda stagione delle riforme volte al rilancio economico e sociale del Mezzogiorno d'Italia".Anche Bobo Craxi ha espresso il suo cordoglio: 'E' scomparsa una figura nobile del socialismo italiano e siciliano' ha detto Craxi sottolineando che Capria 'ha attraversato tutte le fasi decisive della storia del Psi, a cui ha contribuito con significativo impegno nell'azione di Governo e di partito'.

giovedì 22 gennaio 2009

comunismo oppure?

e se leggessimo i contemporanei a cominciare da Vandana Shiva?
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Ieri ricorreva l'anniversario della scissione di Livorno che dava vita, dal troncone del socialismo italiano spesso rinsecchito o in grande disordine, il Partito Comunista che veniva subito calamitato dalla immensa attrazione della rivoluzione d'ottobre e della costruzione del primo stato comunista del mondo.Ho visto assieme ad altri compagni un vecchio film sulla vita in carcere di Antonio Gramsci che era contrario alla frattura del gruppo dirigente bolscevico ed alla svolta negativa verso i socialisti. Gramsci non si rendeva conto del fatto che il comunismo era diventato Stato e che le sue critiche esponevano a gravi pericoli i compagni italiani che venivano in contatto con l'URSS ed il Comintern essendo il PCUS in grado di sopprimere o carcerare i dissidenti e gli oppositori. Togliatti aveva capito perfettamente come stavano le cose e si accingeva a trascorrere la lunga notte dello stalinismo, i processi del 36, lo scioglimento e la soppressione dei Comitati Centrali di tanti partiti comunisti del mondo. L'involuzione autoritaria del comunismo in stalinismo ha anche una responsabilità esterna nell'accerchiamento e nell'embargo di tutto il mondo capitalistico. Può, per fare un esempio, Cuba essere democratica senza correre il pericolo mortale di essere distrutta nel giro di pochi mesi dagli Usa? In fondo l'intolleranza ideologica spinta fino alla guerra ha dato alle oligarchie dei partiti comunisti al potere l'alibi per giustificare la mancanza di libertà e democrazia. Altro esempio: Gli Usa non hanno forse soppresso diritti fondamentali dei cittadini con la Patriot Act? Il sospetto che ha dato luogo a tanti drammi dello stalinismo non è lo stesso di quello che tiene chiusi a Guantanamo e in tante altre carceri segrete i "terroristi". Perchè dopo anni di detenzione molte persone non sanno ancora la ragione della loro prigionia? Domanda: un Paese comunista non accerchiato e non embargato potrebbe essere luogo di libertà dei suoi cittadini? Non lo sappiamo!!
Possiamo certamente affermare che, in tutti i paesi in cui il comunismo ha conquistato il potere, c'è stata una degenerazione verso l'oligarchismo e verso dittature personali alcune delle quali addirittura grottesche e quasi al limite della caricatura. Una società comunista non si può costruire con un partito unico senza degenerare subito in regime. I poteri del partito unico finiscono sempre con il sovrastare i poteri dello stato ed i diritti dei cittadini i cui meriti non possono essere misurati dal grado di loro fedeltà al Partito. Un'altra degenerazione è partita dal controllo statale di tutte le risorse economiche che ha portato a situazioni quasi comiche per non dire tragiche per l'impossibilità di reperimento dei prodotti dovuta a difetti della pianificazione. Dobbiamo trarre insegnamento dalla gravissima condizione dei lavoratori e dei contadini cinesi costretti a costruire una società capitalistica tra le più orrende da un Partito Comunista che ha nel suo programma la ricchezza nazionale detenuta da pochi miliardari a prezzo della schiavitù di milioni di persone e dello sconvolgimento della stessa identità della Cina diventata un mostruosa
iperindustrializzata ed inquinata terra di infelici. La costruzione del capitalismo dal Partito Comunista cinese è una delle più inaccettabili realtà della globalizzazione.
Insomma, credo che si dovrebbe aprire una discussione su alcuni punti essenziali partendo dal rifiuto delle omologazione liberista fatta dal PD ed in parte accettata da Sinistra Democratica e dagli scissionisti di Vendola. L'alternativa al comunismo parola indicibile di Bertinotti non può essere il liberismo edulcorato ma rigido ideologicamente di Obama. Dobbiamo parlare di alcune cose: la prima: dobbiamo avere un partito unico in uno Stato "comunista"?, La seconda: la proprietà dei mezzi di produzione deve essere tutta dello Stato oppure è possibile una economia basata sul pubblico e sul privato?
La qualità dei consumi di una società comunista deve essere o no completamente diversa da quelli attuali? Fino a che punto si può consentire la proprietà privata? Fino a che punto si può essere poveri in una società comunista?
Insomma se non ri risolvono i problemi del ruolo del Partito, dello Stato e dell'economia,
non potremo avviarci verso qualcosa dentro la quale come diceva Gramsci c'è un seme che può essere un fiore ma anche una erbaccia velenosa.
Pietro Ancona
socialista.

mercoledì 14 gennaio 2009

fini con i massacratori israeliani

----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
Sent: Thursday, January 15, 2009 1:29 AM
Subject: Manifestazione per la guerra con Fini a Montecitorio






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Il presidente della Camera dei deputati è sceso per stare un pò insieme e farsi fotografare con i caporioni
della manifestazione pro-Israele, fitta di bandiere israeliane, organizzata a Roma, in luogo generalmente vietato a tutti ,davanti Montecitorio, da una associazione parlamentare di ammiratori di Israele composta da deputati e senatori di vari gruppi di maggioranza e di opposizione.
Debbo dire che la cosa mi ha impressionato ed impaurito. Impressionato perchè mentre la folla si raccoglieva attorno ai rappresentanti della Comunità Ebraica italiana e dell'Ambasciata di Israele si potevano quasi avvertire nell'aria, con un minimo di sensibilità umana di di immaginazione, le deflagrazioni paurose, il crollo dei palazzi, il lamento dei feriti, lo spavento di oltre un milione di persone aggredite da carri armati mostruosi, da aerei supersonici che effettuano centinaia di missioni di bombardamento, da cannonate sparate da navi piazzate nel mare antistante gaza. Una mattanza di esseri umani difesi da un pugno di guerriglieri privi di armamento pesante che, quasi con le nude mani, affrontano il nemico che oramai si è infiltrato per le vie devastate della città. Non c'era un solo cartelllo che chiedesse pietà per questa popolazione. a Piazza Montecitorio era un unico urlo di feroce incitamento a vincere al più presto lo scontro chiamato "guerra" di odio verso i "terroristi" di Hamas, di volontà di sopraffazione per la "sicurezza" di Israele che, se necessario, vale la vita della umanità intera e per subito quella di oltre trecento bambini e quasi cinquemila tra morti e feriti che morranno presto a causa delle armi DIMA usate da un esercito post nazista privo di scrupolo ed incurante delle regole e del diritto internazionale. Impaurito, si, la manifestazione mi ha impaurito. E' la prima volta che una alta autorità dello Stato, il Presidente della Camera, interviene coinvolgendo il Parlamento a sostenere le ragioni di uno Stato che in atto risulta al mondo come aggressore e genocida. E' vero che ieri Fini ha rivendicato al Parlamento di non essere un organismo al servizio del governo Berlusconi privo di diritto di parola. Ma la sua protesta non ha avuto seguito. Si è adeguato alle direttive della maggioranza di cui fa parte e addirittura ha permesso che uno dei portavoce della maggioranza definisse di valorizzazione la richiesta di fiducia chiesta alla Camera. Insomma, la Camera si doveva e si deve sentire onorata di votare senza battere ciglio e senza discutere gli ordini che vengono dal Cav.Berlusconi. Non credo che ci sia stato qualcosa di simile in tutta Europa. Non credo che si siano fatte manifestazioni probombardamenti della Palestina con la presenza di un cosi autorevole esponente dello Stato. Colpisce il silenzio del Presidente della repubblica che non ha mosso finora un dito e non farà nulla per criticare la scelta guerrafondaia e genocida fatta dal Parlamento e per difendere le istituzioni parlamentari dalla prepotenza del governo-regime.
In Italia c'è l'anomalia di una Comunità Ebraica che non è più quella civile democratica e amante della libertà di Tullia Zevi e di Elio Toaff. E' una Comunità che difende senza se e senza ma il diritto di israele di eliminare i suoi "nemici" ed attacca violentemente coloro che si permettono qualche dubbio, che invitano a ragionare a non buttare benzina sul fuoco come fa scontandone tutti gli ostracismi Massimo D'Alema.
Quanto è accaduto stasera davanti a Montecitorio è destinato ad incidere profondamente sulla qualità della nostra cittadinanza, sulla coerenza tra questa e la carta Costituzionale, sul futuro di un Paese che si colloca
nella frontiera più avanzata del razzismo
la frontiera militare. Il massacro di Gaza ha infatti un carattere razzistico e di intolleranza fisica a sopportare che non fa parte della gens occidentale, della sua cultura, dei suoi valori. Come lo sterminio di milioni di irakeni e di afghani, le stragi di Gaza esprimono una volontà di dominio coloniale e di sterminio per chi vi si oppone.

Pietro Ancona presidente umanitaria palermo
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
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domenica 11 gennaio 2009

VANDANA SHIVA

InDalla connessione tra sostenibilità ecologica e giustizia sociale, al nesso tra riduzionismo scientifico e rimozione di tutti i limiti etici allo sfruttamento della natura, fino al concetto di «malsviluppo»
I «poveri» sostiene Vandana Shiva, non sono coloro che sono «rimasti indietro» perché incapaci di giocare le regole del capitalismo, ma quelli che sono stati esclusi da ogni gioco e a cui è stato impedito l'accesso alle proprie risorse da un sistema economico che erode il controllo pubblico sul patrimonio biologico e culturale. Stare «dalla parte degli ultimi» (come recita il titolo di un suo recente libro pubblicato dalle Edizioni Slow Food) non significa dunque dare di più a chi ha meno, ma restituire ciò che è stato sottratto con la forza di leggi ingiuste, difendere i beni comuni dall'assalto avanzato dalla globalizzazione neo-liberista, impedire la brevettabilità delle forme di vita e di conoscenza e costruire una nuova democrazia ecologica. Una democrazia che difenda la biodiversità e riconosca il reciproco condizionamento tra sostenibilità ecologica e giustizia sociale.
Abbiamo chiesto a Vandana Shiva, che da decenni continua a rivendicare il diritto di ogni essere umano a opporsi e resistere - in senso gandhiano - alle leggi che lo esautorano dei suoi diritti, di rispondere ad alcune domande sulla sua pratica di scienziata e attivista.

Una delle questioni che lei tende a sottolineare con più insistenza è l'intima connessione tra sostenibilità ecologica e giustizia sociale. Come spiegherebbe questa connessione a quanti continuano a ritenere che si tratta di ambiti del tutto separati e tra loro impermeabili?
Per la maggior parte dei poveri la connessione è evidente, perché le risorse naturali ed ecologiche costituiscono la fonte principale del loro sostentamento, e quando qualcuno se ne appropria indebitamente questo porta da un lato all'insostenibilità ecologica e dall'altro all'ingiustizia sociale ed economica. Mi lasci fare due esempi: se la Coca Cola estrae giornalmente con i suoi impianti milioni di litri d'acqua di cui beneficia di solito una certa comunità, così facendo distrugge il sistema idrico di quella comunità e allo stesso tempo causa una nuova forma di ingiustizia sociale ed economica. Oppure prendiamo la questione della terra: in Bengala, di recente il gruppo Tata ha cercato di appropriarsi della terra dei contadini, ma la sottomissione agli obiettivi dell'industria automobilistica di una terra che offre sostentamento a migliaia di persone non solo toglie fertilità a quella terra e crea una produttività insostenibile dal punto di vista ecologico, ma determina anche una grave ingiustizia sociale. Ed è proprio contro questa ingiustizia che hanno combattuto, organizzandosi, i contadini del Bengala, impedendo alla Tata di costruire sulle loro terre. Sono soltanto due tra i numerosi esempi che dimostrano, tra l'altro, come sostenibilità ecologica e giustizia sociale siano connesse alla pace, perché è proprio dall'ingiustizia sociale e dalla crescita della disuguaglianza che trae origine il fondamentalismo.

Secondo l'analisi che svolge nel «Bene comune della terra», «la globalizzazione economica si configura come una nuova forma di "enclosure of the commons", la recinzione delle terre comuni britanniche», ed è volta a privatizzare ogni aspetto della nostra vita, dall'acqua che beviamo alla biodiversità, dal sistema educativo al patrimonio culturale. Ci può spiegare in che modo la globalizzazione è legata alla recinzione dei beni comuni dell'Inghilterra del XVI secolo e quali sono le sue attuali manifestazioni?
In Inghilterra, con le recinzioni dei beni comuni ci si è appropriati delle terre dei contadini trasformandole in terreni per la produzione di materie prime destinate all'arricchimento della borghesia emergente e al funzionamento dell'industria tessile. Negli ultimi decenni, attraverso le leggi sulla proprietà intellettuale promosse dal Wto e grazie alle condizioni finanziarie imposte dalla Banca Mondiale con i piani di aggiustamento strutturale e i processi di privatizzazione sono stati inclusi nelle recinzioni proprietarie dei beni di nuovo tipo. Quelli ai quali ho rivolto in particolare la mia attenzione sono le risorse viventi: i sistemi viventi grazie ai quali il pianeta si mantiene vivo e che sono indispensabili per soddisfare i nostri bisogni fondamentali sono stati dichiarati proprietà intellettuale, come fossero una creazione delle corporation: oggi è la vita stessa come bene a venire privatizzata; inoltre, dal momento che i sistemi viventi si accompagnano a particolari tipi di sapere e conoscenza, e che dunque specifici sistemi di conoscenza sono associati a specifiche forme di vita, si cominciano a recintare anche il sapere e i beni intellettuali. È ormai evidente che siamo di fronte a un assalto sferrato verso l'atmosfera così come verso l'aria che respiriamo: le grandi industrie prima recintano l'aria inquinandola e trattandola come un oggetto già morto e di loro proprietà, e poi, una volta che l'inquinamento raggiunge un livello da caos climatico, pensano di farne materia di scambio commerciale. La possibilità di comprare e vendere quote di emissioni inquinanti dimostra che tutti gli attori coinvolti nelle discussioni relative ai protocolli sui cambiamenti climatici credono davvero che sull'atmosfera si possano esercitare diritti di proprietà. Quella compiuta da un manipolo di industrie inquinanti è solo l'ultima, clamorosa forma di recinzione dei beni comuni.

Lei è sempre stata molto critica nei confronti del riduzionismo della scienza meccanicistica figlia della rivoluzione scientifica. Ci spiega perché ritiene che il riduzionismo non sia «semplicemente un incidente epistemologico, ma la risposta ai bisogni di uno specifico tipo di organizzazione economica e politica», e perché crede che la scienza moderna costituisca «una giustificazione etica e gnoseologica allo sfruttamento delle risorse» comuni?
Sono molti i modi attraverso i quali l'emergere della scienza meccanicistica - e della filosofia riduzionista che ne è alla base - finisce per integrarsi alla crescita dell'organizzazione economica che definiamo capitalismo, promuovendone le regole di funzionamento e favorendone gli interessi. Innanzitutto, l'orientamento riduzionista consente che vengano rimossi tutti i limiti etici allo sfruttamento della natura. Nel periodo in cui questa ideologia andava formandosi, gli scienziati sostenevano che le culture fondate su una visione olistica della natura e del rapporto tra la natura e l'uomo ne ostacolavano lo sfruttamento; per questo è stato necessario un assalto all'idea degli esseri umani come parte della natura e a quella della natura come organismo vivente: la natura è stata uccisa e la terra mater convertita in terra nullius, una terra vuota, priva di capacità produttiva e creativa, un mero amalgama di materie prime. Inoltre, il riduzionismo e la filosofia meccanicistica permettono di esternalizzare i danni dello sfruttamento: il riduzionismo prima fa in modo che la vita possa essere sfruttata e distrutta, e poi, tagliando e sezionando la realtà, fa sì che si possano chiudere gli occhi sulle conseguenze delle nostre azioni. Questo meccanismo viene adottato anche in altri campi: i sistemi viventi sono sistemi complessi, altamente differenziati, che si auto-organizzano, ma l'ingegneria genetica considera le piante come un mero insieme di atomi chiamati geni, che possono essere sezionati, tagliati e spostati, come pezzi di un «Lego», senza conseguenze. Ora, se i contadini indiani muoiono a causa dei prodotti dell'ingegneria genetica, il riduzionismo permetterà di negare che le cause siano da attribuirsi alla tecnologia in sé, attribuendole ad altri fattori. Il riduzionismo, poi, opera come una vera e propria ideologia perché si presenta come l'unica scienza degna di questo nome, assoggettando a sé tutti gli altri sistemi di conoscenza (che sono altrettanto, se non più complessi), oppure negando che si tratti di vera scienza.

La degradazione della natura, il passaggio forzato da terra mater a terra nullius è stato condotto anche attraverso quel processo che in «Sopravvivere allo sviluppo» lei ha illustrato introducendo il termine di «malsviluppo», con il quale indica «un modo di conoscenza mascolino», «un modello di sviluppo patriarcale». Ci spiega in che modo «il "malsviluppo" confina le donne alla passività»?
Ho adottato il termine «malsviluppo» per indicare uno sviluppo deforme, un malfunzionamento del sistema, e per tracciarne il legame con un approccio patriarcale, che combina la dominazione sulle donne a quella del capitale sulla natura e sugli individui. Il «malsviluppo» confina le donne nella passività innanzitutto trattando la loro conoscenza come se non esistesse. Negli ultimi trentacinque anni ho lavorato con tantissime donne e mi sono sempre più convinta che siano loro i «veri esperti», le uniche in grado di conoscere il funzionamento di un sistema e i modi per proteggerlo, e che il mondo sia in gran parte «prodotto» dalle donne. Ciò nonostante, il sistema di pensiero riduzionista e l'organizzazione economica capitalista hanno escluso o sottostimato i contributi delle donne inducendoci a credere che il lavoro, fondamentale, di «mantenere la vita» non sia un vero e proprio lavoro, perché non produttivo. Secondo quel sistema di pensiero infatti una donna che mantiene la propria famiglia non produce nulla, e una comunità che soddisfa tutti i propri bisogni alimentari ma non vende o compra alimenti non produce cibo e non contribuisce alla «crescita» e allo «sviluppo». L'adozione di questo criterio di misura ha portato al «malsviluppo» e con esso alla distruzione della natura, allo sfruttamento del «capitale naturale», e, insieme alla negazione dei bisogni fondamentali, la crescita della povertà.

Secondo la sua analisi, dovremmo abbandonare l'attuale economia suicida e promuovere un atteggiamento culturale che esprima «un radicamento profondo alla terra e alle specificità del luogo in cui si origina, ma anche un sentimento di solidarietà per tutto il genere umano, una coscienza universale». Qualcuno potrebbe osservare che, nella pratica, si tratta di obiettivi opposti, perché l'ancoraggio alla specificità contraddice il richiamo alla solidarietà universale. Come risponderebbe a questa obiezione?
Risponderei che è molto semplice, direi inevitabile, conciliare le due dimensioni: abitiamo tutti su un unico pianeta, e questo significa che la «terra» è la stessa, ma allo stesso tempo ognuno proviene da un luogo particolare, da un «terreno» specifico. È un'eredità della filosofia riduzionista l'idea che si diano opposizioni del tipo «questo oppure quello». Per quanto mi riguarda, la mia formazione nella teoria dei quanti, che esclude l'idea che ci siano elementi incompatibili e reciprocamente alternativi in favore di una concezione basato sulla congiunzione «e», mi porta a credere di poter disporre di un'identità profondamente locale, radicata nella valle dell'Himalaya dove sono nata e cresciuta, e insieme completamente planetaria, e che queste due forme di identità si tengano insieme senza contraddizioni. Anche i recenti attentati terroristici di Mumbai sono frutto dell'erosione delle forme di identità multiple a cui mi riferisco. Coloro che sono vulnerabili e «disponibili» a essere arruolati, pagati o sfruttati dagli estremisti di turno per compiere azioni di terrorismo sono quelli che sono stati allontanati a forza dalla loro terra, che sono stati resi superflui ed «eccedenti» rispetto alle proprie società; oppure quelli che vengono mobilitati e reclutati attraverso la costruzione fittizia di identità che si escludono a vicenda sulla base dell'opposizione «o questo o quello». In realtà, non si dà mai solo «o questo o quello», ma sempre un «questo e quello»: riusciremo a svincolarci dall'eredità delle identità incompatibili solo coltivando la nostra responsabilità verso il luogo particolare da cui proveniamo e insieme la consapevolezza che siamo parte di un'umanità comune, che condivide lo stesso pianeta.