Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

sabato 25 dicembre 2010

lelio Basso, resistente, socialista, rivoluzionario, giurista, padre della costituzione, difensore dei popoli

SCHEDA BIOGRAFIA PERSONE

Istituto: FONDAZIONE LELIO E LISLI BASSO - ISSOCO

Basso Lelio (Varazze (SV), 25/12/1903 - Roma, 16/12/1978)
ANAGRAFE
Altre denominazioni Filodemo Prometeo
Spartaco
Lebas

BIOGRAFIA
Cariche Deputato all'Assemblea costituente (1946); vicesegretario del Psiup <1942-1947>; Deputato (1946-1968); Senatore (1972-1978); Segretario del Psi (gen. 1947-llug. 1948); Presidente del Psiup (1965-1968).
Biografia Lelio Basso nacque a Varazze (SV), il 25 dicembre 1903 da una famiglia della borghesia liberale. Frequentò il liceo Berchet a Milano, dove la famiglia si era trasferita nel 1916. Nel 1921 si iscrisse alla facoltà di legge dell'Università di Pavia e al Partito socialista italiano. Studioso di dottrina marxista, fu vicino a Piero Gobetti durante l'esperienza di «Rivoluzione Liberale»; oltre a questa rivista collaborò, negli anni giovanili, con «Critica sociale», «Il Caffè», «Avanti!», «Coscientia», «Quarto Stato» e «Pietre», rivista da lui diretta nel 1928, prima a Genova, poi a Milano. Nel 1925 si laureò in giurisprudenza con una tesi sulla concezione della libertà in Marx. Il 13 aprile 1928 venne arrestato a Milano e inviato al confino a Ponza, dove studiò per la futura laurea in filosofia. Tornato a Milano nel 1931, mentre esercitava la professione forense, si laureò con una tesi su Rudolf Otto. Nel 1934 riprese l'attività illegale, dirigendo il Centro interno socialista, con Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Eugenio Colorni; attività interrotta per l'internamento nel campo di concentramento di Colfiorito (PG) dal 1939 al 1940 e poi ripresa. Dopo una lunga preparazione clandestina, il 10 gennaio 1943 partecipò alla costituzione del Movimento di unità proletaria (Mup), il cui gruppo dirigente era formato da Basso, Lucio Luzzatto, Roberto Verrati, Umberto Recalcati; movimento che dopo il 25 luglio si fonderà con il Psi nel Psiup, della cui direzione Basso entrò a far parte. Nel 1945 fondò il giornale clandestino «Bandiera rossa» e fino alla Liberazione partecipò attivamente alla Resistenza, fondando con Sandro Pertini e Rodolfo Morandi l'esecutivo clandestino Alta Italia del Psiup, di cui assunse la responsabilità organizzativa. Dopo la liberazione fu eletto vicesegretario del Psiup e nel 1946 deputato all'Assemblea costituente; fece parte della Commissione dei 75 per la redazione della Costituzione, contribuendo in particolare alla formulazione degli artt. 3 e 49. Deputato in tutte le legislature dal 1946 fino al 1968; fu poi eletto senatore nel 1972 e nel 1976. Nello stesso 1946 fondò la rivista «Quarto Stato», che verrà pubblicata fino al 1950. All'atto della scissione saragattiana (1947), Basso assunse la segreteria del Psi, carica che conservò fino al congresso di Genova del giugno 1949. Nel 1951, in opposizione con la linea staliniana del partito, non venne rieletto nella Direzione; nel Congresso di Milano del 1953 non entrò nel Comitato centrale, dove fu riammesso nel 1955, mentre nel 1957, al Congresso di Venezia, rientrò nella Direzione e nella Segreteria. L'anno successivo diede vita a «Problemi del socialismo». Esponente della corrente di sinistra del Psi dal 1959, nel dicembre 1963 pronunciò alla Camera dei Deputati la dichiarazione di rifiuto, da parte dei 25 deputati dalla minoranza del gruppo parlamentare socialista, di votare a favore del governo di centro-sinistra, annunciando la scissione da cui sarebbe sorto il Psiup, nel gennaio 1964. Membro della direzione del nuovo partito, ne fu presidente dal 1965 al 1968, fino all'entrata delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Fondatore e collaboratore di riviste internazionali (fu direttore di «Revue international du socialisme»/«International socialist journal» - la documentazione della rivista è conservata nel fondo omonimo in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco - ), penalista di fama europea, fu membro del Tribunale internazionale presieduto da Bertrand Russell, creato per giudicare i crimini americani nel Vietnam. Nel 1973 promosse la costituzione di un secondo Tribunale Russell (documentazione relativa all'attività di Lelio Basso come membro del Tribunale Russell I e II nel Fondo Tribunale Russell in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco), sulle repressioni in America latina e lavorò per la preparazione del Tribunale permanente dei popoli (costituito nel 1979, dopo la sua morte). Nello stesso 1973 diede vita a Roma alla Fondazione Lelio e Lisli Basso; nel 1976 alla Fondazione internazionale e alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli. Morì a Roma il 16 dicembre 1978.

DOCUMENTAZIONE
Bibliografia OPERE: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/testi.aspx

BIBLIOGRAFIA: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/biblio.htm

CONTROLLO D'AUTORITA'
Altre forme del nome Filodemo Prometeo; Spartaco; Lebas








http://www.leliobasso.it/vita.htm
http://www.internazionaleleliobasso.it/

venerdì 29 ottobre 2010

Lo sciopero generale diventa patto sociale

Lo sciopero generale diventa patto sociale

Ad un mese dall'intesa di massima fatta a Genova tra una Marcegaglia raggiante ed un Epifani su di giri, ieri è stata comunicata la conclusione di una prima fase di accordi per il Patto Sociale. Si tratta di un miglioramento degli ammortizzatori sociali, di interventi per il sud e l'innovazione (soldi alle imprese) della semplificazione della pa. Una intesa è stata raggiunta anche per una riforma dell'apprendistato che, non dubito, considererà "minorenni" ed in formazione persone fino a ventinove anni di età. Un escamotage giuridico per giustificare decurtazioni di salario e di diritti.

Questa intesa comunicata con toni trionfalistici e con accenti di grande positività alla stampa interviene all'indomani dell'annunzio del Ministro Brunetta della soppressione di trecento mila posti nella pubblica amministrazione e del varo della legge sul collegato lavoro , durante le agitazioni dei lavoratori della scuola minacciati di licenziamento, subito dopo le pesanti ed urtanti dichiarazioni di Marchionne sulla Fiat e sulla Fabbrica Italia, nello scenario desolato della crisi che ha falcidiato l'occupazione in diverse regioni d'Italia con punte di estrema pesantezza in Sardegna ed in genere nel Sud.
L'influenza dei lavoratori italiani nel Patto già siglato dalle Confederazioni è eguale a zero. Nessun miglioramento della condizione dei precari magari con una limitazione del ventaglio delle possibilità di elusione offerte dalla legge Biagi al padronato, nessuno accenno al miglioramento necessario dei salari e delle pensioni richiesto financo dal governatore della Banca d'Italia che vengono congelati a tempo indefinito, nessun alt al processo di cancellazione rapida dei diritti specialmente per i nuovi assunti. Per i lavoratori stranieri presenti in Italia e trattati come bestiame umano nessuna misura di salvaguardia, nessun intervento per assicurare a loro ed ai loro disgraziati fratelli italiani del precariato, il rispetto dei ccnl. Nessun accenno e nessuna voglia di istituire il Salario Minimo Garantito e di rivedere il sistema pensionistico dimagrito dalle leggi da Dini a Berlusconi fino a diventare quasi inconsistente e specchio di una popolazione impoverita e ridotta in miseria che è stata condannata a vivere una vecchiaia di stenti ed in certi casi anche di fame.
Il Patto Sociale si realizza tra soggetti ed organizzazioni (banche, associazioni imprenditoriali e di lavoratori, governo) che si rifiutano di registrare esprimere e rappresentare il conflitto sociale e le profonde insoddisfazioni che percorrono il Paese.
All'indomani della vibrante manifestazione dei meccanici del 16 ottobre che proponeva lo stato di insoddisfazione di collera e di disperazione dei lavoratori italiani, la risposta sta in un insieme di atti condivisi o tacitamente accettati dalla Cgil e dal PD che accelerano la disintegrazione del mondo del lavoro attaccato nei suoi diritti e nella sua stessa consistenza fisica. I trecento mila posti di lavoro che vengono soppressi nella pubblica amministrazione chiudono la speranza ad altrettanti giovani ed alle loro famiglie senza alcun beneficio per lo Stato. Non ci sarà una diminuzione proporzionale dei costi dal momento che molti dei servizi verranno privatizzati ad amici della cricca che sta al governo e si introdurranno altre figure di managers e di dirigenti con un costo per ognuna pari a quello di molti posti soppressi.
Mi domando come la CGIL non provi vergogna, in questo contesto sociale, di stipulare un patto che accredita questo Governo in Europa e nel mondo proprio nel momento in cui infligge durissimi colpi ai lavoratori che non esita a diffamare assieme a Marchionne ed alla Marcegaglia ed a privare di diritti e di decenti condizioni di vita.
Questo Patto sociale serve subito ad una cosa sola: a dare una base per i soldi che la Confindustria spillerà al governo. Servirà anche a chiudere per sempre la stagione delle lotte e degli scioperi. Come potrà la CGIL fare uno sciopero contro un Governo ed un Padronato con i quali ha stipulato il patto sociale che i sindacati europei non concessero mai neppure ai governi socialdemocratici?
Bisogna dire che Berlusconi è fortunato. Sarkozy masticherà amaro dopo le dure proteste che ha dovuto subire. Non credo che ci sia qualcuno in Europa che come Berlusconi possa vantare un successo così grande. Ad ogni colpo di staffile che il suo governo infligge ai lavoratori i sindacati rispondono con grandi salamelecchi. Più picchia e più consenso e sottomissione ottiene!! Mussolini si liberò delle Camere del Lavoro che fece incendiare dalle sue squadracce prima di costruire il suo modello di Stato Corporativo. Berlusconi non ha bisogno di ridurre alla ragione nessuno. Bonanni, Angelletti ed ora Epifani sono pronti a seguirlo dappertutto, anche in capo al mondo....I sindacati servono, come in USA, da campieri del padrone e del governo.
La manifestazione che la CGIL ha indetto a Roma per il 27 novembre sarà una rassegna
di forze per mostrare il peso e l'influenza della CGIL. Lo sciopero che Landini continua a chiedere appare, come dice Sacconi, una richiesta "anacronistica, uscita dagli anni settanta". Gli anni dei diritti e della ascesa sociale della classe operaia.
Ed è vero. Non siamo più in una democrazia nella quale i sindacati rappresentano i lavoratori, ma in un regime in cui i sindacati rappresentano propri interessi che non coincidono più con quelli dei loro iscritti. Come in USA.
Pietro Ancona

http://www.rassegna.it/articoli/2010/10/28/68082/patto-sociale-prima-intesa-su-4-punti

martedì 17 agosto 2010

Gli stranieri nelle carceri europee di Jura Gentium

Jura Gentium
Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale Jura Gentium / Pagina iniziale / Rubriche / Migranti /
IV (2008), 1

La detenzione degli stranieri nelle carceri europee (*)
Lucia Re

1. La sovrarappresentazione dei migranti nelle carceri europee
Con il mio intervento intendo portare l'attenzione su un fenomeno solo in parte noto e spesso male interpretato dall'opinione pubblica a causa delle ricorrenti campagne allarmistiche sulla criminalità degli stranieri. Si tratta della forte presenza di detenuti stranieri nelle carceri dei principali paesi dell'Unione europea, in particolare di quelli occidentali e meridionali. Salvo qualche accenno, lascerò da parte la situazione dei paesi dell'Europa dell'Est da poco entrati nell'Unione europea che presentano caratteristiche piuttosto singolari per quanto attiene i fenomeni migratori, le legislazioni penali e penitenziarie e le condizioni di reclusione. Basti pensare che la Polonia ha un tasso di detenzione di 235 detenuti ogni 100.000 abitanti, che è più del doppio del tasso medio europeo, e una presenza di stranieri in carcere, minima, pari allo 0,7% della popolazione detenuta (1).

L'alta percentuale di detenuti stranieri è invece una delle principali caratteristiche dei sistemi penitenziari dell'Europa occidentale e mediterranea. Gli stranieri sono sovrarappresentati (cioè presenti in modo sproporzionato rispetto al numero di stranieri residenti) negli istituti penitenziari dei principali paesi europei. La percentuale media degli stranieri reclusi nelle carceri di questi paesi supera infatti il 30% della popolazione detenuta, mentre la presenza straniera sul territorio si aggira intorno al 7% della popolazione (è questo anche il dato italiano secondo l'ultimo rapporto sulle migrazioni dell'Ismu, appena pubblicato).

La percentuale della popolazione detenuta di nazionalità straniera è inferiore alla media europea in alcuni dei paesi europei di più antica immigrazione, ad esempio nel Regno Unito, ma nei penitenziari di questi stessi paesi vi è una percentuale elevata di cittadini, figli di genitori immigrati. Le amministrazioni penitenziarie europee - ad eccezione di quella britannica - non distinguono questa categoria di detenuti da quella dei cittadini di origine 'autoctona', per la comprensibile preoccupazione che tale distinzione possa avere effetti discriminatori. Tuttavia, così facendo, se da un lato si è formalmente corretti nei confronti dei cittadini di origine straniera, dall'altro si occulta un dato preoccupante: in molti paesi europei una percentuale elevata di detenuti è di origine o di nazionalità straniera. Non solo, ma, soprattutto nei paesi dell'Europa nord-occidentale, è di religione islamica e non è bianca (il profilo 'razziale' appare più importante di quanto comunemente si pensi).

I detenuti di nazionalità straniera sono particolarmente numerosi nei paesi in cui l'immigrazione è recente e nei paesi che confinano con le aree di emigrazione, ad esempio con l'Europa dell'Est. Si pensi alla Germania e, soprattutto, all'Austria, dove la presenza straniera in carcere è un record europeo ed è pari al 45% (2), o all'Estonia - nuovo membro dell'Unione che confina con la Federazione russa - dove la percentuale di detenuti stranieri è pari al 36,4% (3).

Nei paesi dell'Europa mediterranea, che riuniscono le due condizioni sopraccitate - immigrazione recente e contiguità geografica con paesi di emigrazione - la detenzione dei migranti appare persino essere un tratto caratterizzante dei sistemi penitenziari nazionali. In Grecia, in Italia, e in Spagna e a Malta i detenuti stranieri sono in media il 35% del totale (4) e provengono in maggioranza dai paesi della sponda sud e della sponda est del Mediterraneo. In Italia quasi la metà dei detenuti stranieri è originaria del continente africano (5). Mentre circa il 32% dei detenuti stranieri proviene da Balcani ed est europeo (Romania, Albania ed ex-jugoslavia) (6). Complessivamente, più del 70% dei detenuti stranieri nelle carceri italiane proviene da paesi che sono alla periferia dell'Unione europea e che sono i paesi di diretta emigrazione verso l'Italia.

La sovrarappresentazione degli stranieri è ancora maggiore con riguardo alle donne e ai minori. In Italia le donne straniere sono il 42% (7) della popolazione detenuta femminile (sul dato incide molto la presenza di donne rom) e i minori stranieri reclusi negli istituti penali per i minorenni sono il 54,5% del totale (8). Inoltre, le presenze in carcere di minori stranieri sono in continuo aumento, in particolare nei penitenziari del centro-nord. La percentuale di minori stranieri presenti nei principali istituti penali per i minorenni del centro-nord Italia (Milano, Bologna, Torino, Roma e Firenze) è pari quasi all'80% e ormai anche nei penitenziari del sud (esclusi Napoli e la Sicilia) la presenza straniera è superiore o pari alla metà dei detenuti (9). Il tutto a fronte di una progressiva diminuzione degli ingressi in carcere dei minori italiani, per i quali il ricorso alla pena detentiva è divenuto una extrema ratio. Per i minori, come per gli adulti, i principali paesi di provenienza sono quelli 'prossimi' all'Italia (10).

La percentuale di stranieri detenuti è in aumento in tutti i paesi dell'Unione europea e non è proporzionata al corrispondente aumento, pur verificatosi, della popolazione straniera presente sul territorio. In Italia in un solo anno, il 2002, si è registrato un vero e proprio boom dell'incarcerazione degli stranieri: la percentuale di detenuti stranieri è passata da 29,5% al 31-5-01 a quasi il 32% al 30-6-02. Da allora è rimasta sostanzialmente stabile. Le date non sono forse insignificanti, poiché coincidono con il periodo di vigenza della legge attuale sull'immigrazione, la cosiddetta Bossi- Fini, che ha riformato il T.U. sull'immigrazione.

Ecco alcuni dati in altri paesi europei:

Tabella 1. Detenuti stranieri in alcuni paesi UE (percentuale su tot. pop. det.) (11) Austria 45,1% al 1-11-2005 - molto aumentata negli ultimi 3 anni (Ministero della giustizia austriaco)
Grecia 41,7% al 16-12-2004 (Ministero della giustizia greco)
Italia 32% al 30-09-2006 - in lieve aumento dall'inizio degli anni duemila. -1% con l'approvazione dell'indulto (Ministero della giustizia)
Paesi Bassi 31,7% al 1-7-2006 - in lieve diminuzione (National Agency of Correctional Institutions)
Spagna 29,7% al 21-4-2006 - +4,3% dal 2002 (Direzione generale dell'amministrazione penit. spagnola)
Germania 28,2% al 31-3-2004 - stabile (Ministero della giustizia tedesco)
Svezia 26,2% al 1-10-2005 - aumentata di più dell'1% in un anno (Ministero della giustizia svedese) - solo definitivi.
Francia 21,1% al 1-4-2005 - in lieve diminuzione (Ministero della giustizia francese)
Portogallo 18,5% al 31-12-2005 - aumentata del 6% dal 2002 (Ministero della giustizia portoghese)
Uk-Inghilterra e Galles 13,6% al 31-10-2005 - +1,4% dal 2004 (Home Office Prison Service)
Finlandia 8,0% al 1-4-2006 - stabile negli ultimi anni (Ministero della giustizia finlandese)

2. Discriminazione e criminalizzazione degli stranieri
Alla base di queste percentuali vi sono diversi fattori fra loro connessi.

Negli ultimi anni una parte della sociologia, dei media e dell'opinione pubblica europea ha messo l'accento sulla devianza degli stranieri. I dati sulla presenza dei migranti nelle carceri europee sono stati interpretati da alcuni come un indice fedele del loro livello di devianza (Marzio Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Il mulino, Bologna1998). Altri autori li hanno invece considerati come il sintomo di una diffusa discriminazione, legata sia alle precarie condizioni di vita dei migranti, sia alle difficoltà che essi incontrano quando entrano in relazione con i sistemi giudiziari europei. Per questi autori la forte presenza di migranti in carcere è in primo luogo il frutto di un processo di criminalizzazione (fra gli studi italiani si vedano: S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Fondazione Cariplo- ISMU, Milano1994; A. Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 1999; F. Quassoli,Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori di diritto, in "Rassegna italiana di sociologia", 1, 1999, pp. 43-76).

I dati sulla criminalità, pur evidenziando alcune aree in cui gli stranieri sono particolarmente attivi (ad esempio la spaccio di sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione), non giustificano questa sovrarappresentazione degli stranieri in carcere. Dal Rapporto pubblicato dall'Istat nel 2004 su Gli stranieri e il carcere: aspetti della detenzione (Roma 2004) emerge ad esempio che fra il 1991 e il 1998 (anno di promulgazione del T.U. sull'immigrazione) gli stranieri in carcere sono aumentati molto più velocemente del numero di stranieri denunciati. Il ché per gli estensori del Rapporto è un chiaro segnale degli svantaggi che affliggono gli stranieri nell'iter processuale e nell'accesso alle misure alternative alla detenzione.

Difficile è poi negare che esiste un forte legame fra l'aumento degli stranieri detenuti e l'adozione di politiche restrittive in materia di immigrazione. Analogamente è evidente il collegamento fra carcerazione degli stranieri e difficoltà di inserimento e di vita nelle società di arrivo.

I paesi impegnati in un controllo quasi militare delle proprie coste, come la Grecia, l'Italia o la Spagna, sono anche quelli in cui il numero degli stranieri in carcere è più elevato, mentre la presenza di stranieri sul territorio dello Stato resta inferiore alla media dei paesi dell'Europa del nord. La detenzione in carcere è divenuta in questi paesi uno dei principali strumenti di controllo e di repressione della immigrazione 'clandestina'. In particolare, il sistema penitenziario nell'Europa mediterranea ha assunto un ruolo importante come strumento di limitazione della libertà di movimento dei migranti all'interno dell'Unione europea. In Italia, gli ingressi in carcere per violazione di disposizioni relative al Testo Unico sull'immigrazione sono in costante crescita: dal 2004 al 2006 si è passati da 2.469 ingressi così motivati a 11.116 (12), un vero e proprio boom. Si deve considerare che questo genere di reati riguarda esclusivamente stranieri ed è dunque uno dei fattori che contribuiscono alla sovrarappresentazione degli stranieri in carcere.

I reati cosiddetti di immigrazione sono solo uno dei fattori attraverso i quali si realizza la criminalizzazione degli stranieri, lo strumento detentivo appare agire in vari modi per realizzare il controllo della immigrazione. Si noti, che i dati sopraccitati si riferiscono solo alla detenzione penale - alle carceri - e non comprendono gli stranieri reclusi nei centri di permanenza temporanea, che sono strutture detentive a tutti gli effetti. CPT e carceri configurano un sistema integrato di istituti di reclusione preposti alla segregazione degli stranieri.

Vorrei soffermarmi brevemente su questo punto.

Le carceri dell'Europa del sud assomigliano sempre di più a centri di permanenza temporanea nei quali sono detenuti i migranti destinati ad essere espulsi. Questo perché la maggioranza degli stranieri reclusi in carcere sono irregolari, o perché lo erano al momento della reclusione o perché lo diventano una volta usciti di prigione, non potendo organizzarsi nuovamente una vita da 'regolari'. L'espulsione segue dunque sovente la detenzione in carcere, quando non è direttamente usata, come avviene nella legge italiana, come strumento alternativo o aggiuntivo alla carcerazione (13). Secondo sporadiche ricerche condotte dal Dap nei maggiori penitenziari italiani, nel 2004, l'80% dei detenuti stranieri non aveva permesso di soggiorno al momento dell'ingresso in carcere (Istat, op. cit., p. 8).

Il caso italiano non è in controtendenza rispetto all'orientamento diffuso nel resto d'Europa. La configurazione dell'espulsione come alternativa alla pena per i clandestini è presente nelle legislazioni di molti paesi europei, tanto da far pensare che nell'Unione europea si stia creando un "sistema penale dei migranti" che si differenzia dal "sistema penale dei cittadini" e si integra invece nel più generale sistema di controllo e di repressione dell'immigrazione.

In Francia il dibattito sulla "doppia pena" - pena detentiva ed espulsione - che colpisce gli stranieri è stato molto acceso dalla seconda metà degli anni Novanta. L'espressione "doppia pena" fa riferimento sia all'espulsione amministrativa degli stranieri che finiscono di scontare una condanna penale, sia all'espulsione decisa in sede giudiziaria - "interdiction du territoire français" - contestualmente a una condanna penale.

In tutta Europa va affermandosi una nuova concezione della detenzione come strumento di incapacitazione per cui l'obiettivo non è reinserire i condannati, ma espellerli dalla società. Nel caso dei migranti l'espulsione è uno strumento più efficace e meno costoso della reclusione in carcere. Allo stesso tempo, la detenzione in carcere e la detenzione amministrativa nei Centri di permanenza temporanea tendono ad assomigliarsi: la prima perde il carattere trattamentale, mentre la seconda acquista i tratti propri di una pena inflitta al di fuori di sufficienti garanzie procedurali e scontata in condizioni spesso disumane (14).

Le legislazioni restrittive in materia di immigrazione giocano dunque un ruolo molto rilevante nella criminalizzazione dei migranti. In alcuni casi esse ne favoriscono direttamente l'ingresso in carcere; in altri esse sono determinanti nel rendere precarie le condizioni di vita degli stranieri inducendoli a impiegarsi nei mercati informali e in quelli illegali. Generalmente le politiche migratorie restrittive combinano entrambi questi aspetti. Accanto ad esse, altre caratteristiche delle società di arrivo favoriscono il coinvolgimento dei migranti nelle attività criminali. Una ricerca condotta da Luigi Maria Solivetti nel 2004 (15), confrontando i dati sulla carcerazione dei migranti e alcuni dati sulle società di arrivo in 18 paesi dell'Europa occidentale, ha ad esempio mostrato una correlazione positiva fra indice di carcerazione degli stranieri e incidenza dell'economia sommersa. Vi è invece una correlazione negativa con alcune variabili come: la spesa complessiva pro capite per la protezione sociale, la percentuale di popolazione diplomata, la certezza del diritto (misurata dalla BM). Infine, l'indice di carcerazione è tanto più elevato quanto più è alto l'indice di clandestinità.

I paesi dell'Europa mediterranea, che hanno le più alte percentuali di detenuti stranieri, sono caratterizzati da un benessere economico relativamente minore rispetto ai paesi dell'Europa nord-occidentale, da una certa instabilità economica, da una più iniqua distribuzione del reddito, da un modesto livello culturale e da una rapida crescita della popolazione straniera di origine extraeuropea. Più alta è la diffusione dell'economia sommersa, di comportamenti illegali, della corruzione, ecc. nelle società di arrivo, più alto è il numero degli stranieri in carcere.

Quest'ultimo rispecchia dunque in parte la devianza dei non-cittadini, tuttavia essa non sembra definibile come "criminalità degli immigrati". Come ha sostenuto Dario Melossi: le radici della devianza sono sempre interne alla società in cui la devianza si manifesta (D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano 2002, p. 283). Nel caso italiano, ad esempio: "le due attività centrali alle forme di devianza anche molto gravi di cui sono protagonisti gli immigrati - il mercato degli stupefacenti e quello della prostituzione di strada - (…) sono attività dirette a soddisfare bisogni che preesistevano all'immigrazione e che ancora oggi sono ampiamente definibili come italiani (…) Da questo punto di vista i criminali 'tunisini', 'marocchini', 'albanesi' e quanti altri non sono affatto tali, ma sono criminali a tutti gli effetti 'italiani'(…)" (D. Melossi, 2002, 283). I mercati illegali che soddisfano i bisogni di trasgressione e di svago dei cittadini europei necessitano di manodopera al pari degli altri mercati: essi creano quindi occasioni di emigrazione, che sono spesso più facili da cogliere e più fruttuose delle occasioni legali.

A questi fattori si devono aggiungere i diversi meccanismi di discriminazione razziale e/o etnica che sono presenti a tutti i livelli del sistema penale: dalle pratiche di polizia alla fase d'esecuzione della pena, passando per il processo. Queste discriminazioni sono solo in parte consapevoli: spesso derivano da scelte tecniche finalizzate a rendere efficiente in termini di risultati quantitativi l'operato delle forze di polizia o dipendono dalle caratteristiche proprie di un sistema penale e penitenziario pensato per i cittadini, che non si adatta allo status giuridico e sociale dei migranti,

I migranti sono spesso oggetto di attività di controllo discriminatorie: le polizie europee ricorrono a pratiche di controllo e di repressione che li penalizzano (16). Le strategie di contrasto al terrorismo tendono poi a favorire la pratica dell'arresto e della perquisizione selettiva dei cittadini di origine musulmana e dei migranti (17). All'indomani dell'attentato terroristico di Londra, così come del fallito attentato dell'estate scorsa, nei principali paesi dell'Unione europea si è discusso dell'opportunità di incentivare i controlli sugli immigrati e si è dato avvio a una serie di operazioni di polizia espressamente indirizzate verso le comunità musulmane, al di là delle esigenze di controllo imposte dalle indagini in corso.

Le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato l'uso dell'"Ethnic profiling" - di criteri etnici per l'orientamento delle azioni di polizia e per la schedatura dei dati - da parte delle forze di polizia europee, soprattutto dopo l'11 settembre 2001 (18). A queste politiche di polizia si sommano le discriminazioni arbitrarie che si verificano nei casi in cui le forze di polizia si sentono legittimate a tenere comportamenti razzisti perché l'opinione pubblica richiede una risposta dura alla criminalità. Studi sociologici (19) e indagini giornalistiche hanno messo in luce i comportamenti razzisti tenuti dalle forze di polizia e dai tribunali penali, comportamenti che emergono ad esempio anche dalla lettura dei rapporti sulla detenzione dei migranti nell'Europa del sud stilati dal Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura.

L'impressione è, tuttavia, che a esporre i migranti alla repressione penale, più che i consapevoli atteggiamenti discriminatori e razzisti di alcuni attori del sistema penale, siano, da una parte, la "discriminazione strutturale" (20) dovuta alla condizione sociale degli stranieri, dall'altra, la scelta di una politica di controllo selettiva che sceglie di concentrarsi sui migranti. Sotto quest'ultimo aspetto è evidente come le politiche adottate a partire dagli anni Novanta nella maggior parte dei paesi europei in materia di immigrazione abbiano condotto a un'intensificazione dei controlli nei confronti degli stranieri: le polizie nazionali hanno reso abituali operazioni finalizzate a mostrare l'impegno delle forze dell'ordine nel contrasto all'immigrazione clandestina. Gli stranieri, essendo oggetto di continui controlli, tendono ad accumulare denunce, imputazioni e condanne divenendo così dei plurirecidivi.

Fra le forme di discriminazione strutturale appare particolarmente grave quella che deriva dall'inadeguatezza di molti sistemi giudiziari europei a trattare i migranti come gli altri cittadini. L'esempio più illuminante è quello relativo all'uso di non concedere agli stranieri misure cautelari alternative alla custodia in carcere. Tale prassi, insieme all'analoga prassi di non concedere ai detenuti stranieri la sospensione condizionale della pena o altre pene alternative alla detenzione, è una delle cause principali dell'elevato numero di stranieri detenuti nei penitenziari europei. Vi è dunque l'esigenza di realizzare delle riforme strutturali e di fornire ai sistemi giudiziari europei le risorse umane ed economiche necessarie per assicurarne il corretto funzionamento anche nei confronti dei migranti, la cui comparizione di fronte ai tribunali e la cui presenza in carcere non può certo più considerarsi come un fatto eccezionale (21).


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Note
*. Relazione presentata alle Giornate di studio sui diritti dei migranti, IV anno, Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara, 14/03/2007.

1. Ministero della giustizia polacco, dati aggiornati al 30.11.2006. Vedi International Centre for Prison Studies, World Prison Brief.

2. Dati del Ministero della Giustizia austriaco, al 1.11.2005. Vedi International Centre for Prison Studies, World Prison Brief.

3. Dati del Ministero della Giustizia estone, al 31.10.2005. Cfr. Ivi.

4. I dati sono i seguenti: 29,7% in Spagna, 32% in Italia, 35% a Malta e 41,7% in Grecia.

5. Al 30.06.2006 i marocchini erano il 20% dei detenuti stranieri, i tunisini il 9,7%, gli algerini il 6,3% e il 10,4% proveniva da altri paesi africani. L'indulto non ha significativamente mutato queste percentuali, nonostante una lieve flessione dei detenuti africani che sono passati dal 48,3% al 43,8% dei detenuti stranieri. Ministero della giustizia, dati riferiti al 31.12.2006

6. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, popolazione detenuta e risorse dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della giustizia, Roma 2006.

7. Mia elaborazione sui dati forniti dal Ministero della Giustizia che registrano la situazione al 30-6-02.

8. V. Belotti, "Doppia pena", reati e criminalizzazione, in V. Belotti, R. Maurizio, A. C. Moro, a cura di, Minori stranieri in carcere, Guerini e associati, Milano 2006, p. 101. Rielaborazione dati Istat e Ministero della giustizia riferiti al 2004.

9. Ivi, p. 102.

10. La Romania (31%), il Marocco (24%), la Serbia (16%) e l'Albania (9%).Ibid.

11. La maggioranza dei dati qui riportati è tratta da INTERNATIONAL CENTRE FOR PRISON STUDIES, World Prison Brief, cit.

12. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, popolazione detenuta e risorse dell'amministrazione penitenziaria, cit.

13. La legge italiana sull'immigrazione prevede che ogni straniero entrato in carcere per uno dei reati previsti all'art. 380, commi primo e secondo, del codice di procedura penale e per qualsiasi reato attinente alla droga o alla libertà sessuale debba essere espulso una volta scontata la pena. L'art. 16 del Testo Unico sull'immigrazione, così come è stato modificato dal provvedimento del 2002, prevede inoltre l'utilizzo dell'espulsione come misura alternativa alla detenzione. Il magistrato di sorveglianza deve infatti procedere all'espulsione di tutti i detenuti stranieri irregolari che siano identificabili e abbiano meno di due anni di pena detentiva da scontare. La legge Bossi-Fini ha poi stabilito che gli immigrati che hanno commesso un reato per cui è previsto l'arresto in flagranza non possano ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno e vadano dunque incontro all'espulsione. L'espulsione diviene così esplicitamente una pena, configurando un regime penale ad hoc per i migranti. La legge aveva infine previsto l'arresto obbligatorio dello straniero irregolare che non aveva ottemperato all'ordine di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale o che aveva violato l'obbligo di reingresso. L'arresto era finalizzato a renderne possibile l'immediata espulsione. La Corte costituzionale ha sancito l'incostituzionalità di questa norma. Il meccanismo sanzionatorio speciale è stato, tuttavia, ripristinato dalla legge n. 271 del 2004, che ha trasformato la violazione dell'ordine di lasciare il paese da contravvenzione in delitto, rendendo legittimo l'arresto obbligatorio in flagranza e permettendo che lo straniero sia prima arrestato e poi espulso. Espulsione e pena detentiva sono dunque state equiparate. In questo modo la funzione rieducativa della pena è definitivamente cancellata ed è esplicitamente istituito un sistema penale differenziato per gli stranieri.

14. Vedi la denuncia del giornalista Federico Gatti che, fingendosi migrante, è riuscito a entrare nel Centro di detenzione temporanea di Lampedusa (F. GATTI, Io clandestino a Lampedusa, "L'espresso", 40 (2005)). Gatti ha sostenuto che la sua presenza a Lampedusa, come quella di molti migranti entrati con lui nel Centro nella settimana fra il 24 e il 30 settembre 2005, non è mai stata convalidata dal giudice. Le condizioni igieniche del Centro sono secondo il giornalista gravissime. Inoltre, durante la sua reclusione, egli ha potuto assistere ai comportamenti razzisti di molti carabinieri in servizio nel Centro, a percosse e a forme di violenza psicologica nei confronti dei detenuti. Il tema dei Centri di permanenza temporanea meriterebbe di essere trattato approfonditamente. Qui si può solo accennare ad alcuni degli aspetti più gravi che riguardano la detenzione in questi centri. Per un esame della questione in chiave sia sociologica, sia filosofico-politica, vedi F. RAHOLA, Zone definitivamente provvisorie. Campi di internamento e diritti umani, Ombre Corte, Verona 2003.

15. L. M. Solivetti, Immigrazione, integrazione e crimine in Europa, Il mulino, Bologna 2004.

16. I dati relativi alle persone fermate e perquisite dalla polizia (secondo la tecnica di "stop and search") nel Regno Unito nell'anno 2003-2004, riportati dallo Home Office, mostrano che i neri sono stati fermati sei volte più dei bianchi e gli asiatici il doppio dei bianchi.

17. Nel marzo del 2005 il Ministro dell'interno britannico ha esplicitamente ammesso che le misure antiterrorismo sono destinate a colpire in prevalenza i musulmani, poiché la minaccia proviene dal mondo islamico.

18. Il tema è trattato esaustivamente nel dossier redatto dall'Open Society Justice Initiative (AA.VV., Ethnic Profiling by Police in Europe, Open Society Justice Initiative, London 2005). Secondo alcuni analisti la forza di polizia comunitaria, Europol, incaricata principalmente della prevenzione e della repressione del crimine organizzato, opera assumendo che la criminalità si organizza su basi etniche. L'opinione pubblica europea sostiene queste pratiche discriminatorie nella convinzione che siano efficaci a contrastare il terrorismo e la criminalità internazionale.

19. Vedi ad esempio F. QUASSOLI, Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori del diritto, "Rassegna italiana di sociologia", 1 (1999).

20. Il termine richiama la sociologia di Pierre Bourdieu e fa riferimento alla discriminazione che deriva dalla povertà di capitale economico, sociale e culturale che caratterizza i migranti sospingendoli nella marginalità. Con questo termine mi riferisco tuttavia anche alla 'non-idoneità' degli stranieri a relazionarsi con un apparato penale che prevede garanzie pensate per i cittadini, ossia per soggetti ben inseriti nel tessuto sociale e dotati di strumenti economici, sociali e culturali di cui i migranti non dispongono.

21. Per chiudere con una nota minimamente ottimistica (o idealistica, dipende dai punti di vista) vorrei citare la proposta di riforma dell'ordinamento penitenziario attualmente giacente in parlamento. Si tratta di una riforma elaborata sotto il coordinamento di Alessandro Margara, già direttore del DAP, amico e collaboratore di Mario Gozzini, che provvede a rimuovere il più possibile le norme che discriminano gli stranieri nella fase esecutiva: dalla concessione dei permessi alle misure alternative, fino ai colloqui e alle telefonate. Se una simile riforma fosse approvata, l'Italia farebbe un grosso passo avanti nella eliminazione della "discriminazione strutturale" che contribuisce alla forte presenza di stranieri in carcere.
Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, ISSN 1826-8269 Chi siamoQuaderni JG-FeltrinelliRubricheDiscussioni onlineRecensioniJournalsLinks-A A A+





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sabato 14 agosto 2010

andrea costa, fondatore del partito socialista italiano

Salvatore Lo Leggio
Saggi e commenti di politica, letteratura e varia umanità. Ogni domenica un articolo sui fatti della settimana. Ogni lunedì una poesia d'autore. Quasi tutti i giorni pezzi nuovi e pezzi vecchi. Appuntamenti e libri. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!

14.8.10
Per il centenario di Andrea Costa (Imola 1851 - 1910). Intervista a Carlo De Maria.
Il centenario della morte di Andrea Costa, l’anarchico che fondò il socialismo italiano, è passato praticamente sotto silenzio: pochi articoli sui quotidiani, un convegno e una mostra nella sua Imola, nessuna riflessione approfondita. In questo piccolo blog sono già presenti un paio di post che utilizzano l’occasione del centenario per rievocare alcuni tra i passaggi più significativi di una grande esperienza etica e politica (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/01/per-il-centenario-di-andrea-costa-imola.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/02/per-il-centenario-di-andrea-costa-imola.html). Oggi vi aggiungo una bella intervista allo storico Carlo De Maria, che ho trovato nell’archivio della benemerita rivista “Una città”, tratta dal numero 175 dello scorso giugno 2010 e realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti. (S.L.L.)
Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa), Diabasis, 2010.


Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano...

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo.

Puoi parlarci della sua biografia?

Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’"eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista.

Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto), al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris).

A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta "economia sociale” o "economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico). Ci viene restituita una immagine della società civile come luogo della solidarietà: era centrale il rapporto tra autonomia e solidarietà.

Come ha scritto Nadia Urbinati (proprio su "Una città”), associarsi per uno scopo condiviso e scelto autonomamente è l’essenza della democrazia. Il problema è che, nel corso del ’900, in società sempre più rigidamente strutturate, si è spesso smarrito il nesso tra il momento dell’associazione e quello dell’organizzazione: il secondo ha finito per prevalere, soffocando irrimediabilmente il primo. Dal partito-associazione si è passati al partito-organizzazione. Attingere alle origini del socialismo (e mi riferisco, in particolare, al socialismo anarchico) significa anche ridimensionare la polarizzazione tra collettivismo e individualismo. Una antinomia tra due astrazioni - come mi spiegava Pino Ferraris - che è stata fortemente alimentata nel XX secolo dalla sfida tra comunismo e capitalismo e che ha finito, però, per far dimenticare come nell’esperienza vitale non possa esistere società senza individui, così come non esistono individui senza società.

Non vorrei far passare l’idea troppo semplificata di un XX secolo come periodo di chiusura, rispetto a idee fertili elaborate nel secolo precedente. Non corrisponderebbe al vero; ma certo se ci interroghiamo sul modello decentrato del socialismo di fine ’800 e di inizio ’900, su un riformismo municipale dai tanti centri diffusi nella società, non possiamo non ricordare che, storicamente, la sua crisi è segnata, a livello europeo, dall’avvento dei fascismi, dalla crescita degli apparati statali, dall’affermarsi anche a sinistra di una idea tecnocratica e centralistica (spesso autoritaria) nella gestione della politica e dell’economia. Naturalmente, in tutto questo, giocò un ruolo fondamentale anche la crisi economica del 1929-31, per fronteggiare la quale si pensò necessario aumentare l’intervento dello Stato nella società. È il processo che ha portato, per rifarsi alle categorie filosofiche di Aldo Capitini, "all’assoluto dello Stato” (che si afferma proprio negli anni ’20 e ’30 del ’900), al quale si è poi aggiunto, nel secondo dopoguerra, "l’assoluto del benessere”: il consumismo e la frenesia dei consumi (come ricorda spesso Goffredo Fofi). Sono questi assoluti che hanno cancellato l’esperienza del primo socialismo italiano ed europeo, del socialismo decentrato e libertario che attraversa praticamente tutta la vita e l’azione di Costa.

Tuttavia, dicevi che Costa ha ancora un interesse per l’oggi...

Bisogna ricominciare a pensare in termini di un nuovo inizio, credo proprio di sì, ma senza radici e senza tradizioni politiche che costituiscano una ispirazione e un punto di riferimento ideale ho l’impressione che non si vada da nessuna parte. Con riferimento all’attualità: è cosa vana ripetere di essere «riformisti», se poi il termine si rivela svuotato, incapace di agganciarsi a una tradizione di cultura politica, a una storia, o forse sarebbe meglio dire a più storie. Per parlare di Andrea Costa, comunque, conviene partire da alcuni riferimenti cronologici. Dunque, andiamo con ordine.

Nel 1864, a Londra, nasce l’Associazione internazionale dei lavoratori, la Prima Internazionale, e fra i fondatori, accanto a Marx ed Engels, ci sono i mazziniani, ci sono gli anarchici mutualisti di Proudhon e altre correnti della sinistra europea.

In virtù di questa pluralità lo statuto dell’Internazionale ha un carattere abbastanza vago e l’unico punto chiaramente fissato riguarda il mutuo appoggio e la comunicazione tra le società operaie europee, il tutto in vista dell’emancipazione dei lavoratori e della riforma generale della società, a sua volta posta nella generica prospettiva di una "nuova umanità”.

Nello stesso 1864, Michail Bakunin - nobile russo passato all’attività antizarista e democratica - arriva in Italia seguendo l’eco delle imprese garibaldine, una eco arrivata perfino in Siberia, da dove Bakunin era fuggito dopo alcuni anni di prigionia. Dapprima Bakunin si stabilisce a Firenze, poi va a Napoli ed è lì che cominciano a nascere le "Fratellanze”, cioè le sezioni della "Alleanza internazionale della democrazia socialista”, l’organizzazione che Bakunin sta costituendo e che presto confluirà nella Prima Internazionale. Il rivoluzionario russo trova seguito soprattutto fra gli elementi della sinistra repubblicana, da cui infatti vengono Alberto Mario, a Firenze, e Saverio Friscia, Carlo Gambuzzi, Giuseppe Fanelli (che sarà poi l’iniziatore del movimento anarchico in Spagna) a Napoli.

Le "Fratellanze” bakuniniste sono, di fatto, le prime cellule del socialismo in Italia, ma solo all’inizio degli anni ’70 si afferma la prima, vera e propria, generazione di anarchici italiani. Una generazione memorabile, nata intorno al 1850: tra di loro, Carlo Cafiero, nato nel 1846 in Puglia ma da una famiglia originaria di Meta di Sorrento, il campano Errico Malatesta (1853) e il romagnolo Andrea Costa (1851). Nel giugno 1872, a Rimini, si tiene il congresso della Federazione italiana dell’Internazionale, ed è proprio qui che viene fissato l’indirizzo libertario del primo socialismo italiano, influenzato da Bakunin e dai suoi seguaci: Costa, Cafiero e Malatesta. Nello stesso 1872, però, si arriva anche a una serie di scontri interni all’Associazione internazionale dei lavoratori che porterà alla sua spaccatura. Dapprima, il Consiglio generale dell’Internazionale, guidato da Marx, espelle Bakunin con l’accusa di manovre scissionistiche, per tutta risposta a Saint-Imier, in Svizzera, nasce il movimento anarchico internazionale, al quale aderiscono le federazioni italiana, francese, belga, spagnola, russa.

Il movimento socialista italiano, alla sua nascita, ha quindi un indirizzo libertario, anarchico, e fortemente insurrezionalista ed è anche in virtù di questa impostazione che, già nel 1874, comincia la stagione dei tentativi insurrezionali, cioè della "propaganda col fatto”. Il primo di questi tentativi è a Bologna - Costa è tra gli organizzatori e anche Bakunin partecipa, nonostante sia ormai anziano - ma abortisce perché le forze dell’ordine smantellano l’organizzazione prima dell’inizio dei moti. Bakunin riesce a fuggire, mentre Costa viene incarcerato e si farà due anni di prigione, prima di essere assolto nel processo del ’76. Viene assolto anche perché quell’anno cambia decisamente il quadro politico italiano che, col primo governo Depretis, vede la sinistra liberale subentrare alla destra storica, che aveva governato fino ad allora. È da ricordare che a quel processo testimoniò, in difesa di Costa, anche Carducci, di cui Costa seguiva le lezioni e del quale si era guadagnato la stima. Costa frequentò l’Università a Bologna, dove conobbe bene anche Giovanni Pascoli, ma, non avendo i soldi per un’iscrizione effettiva, seguì l’Università da uditore, per cui non prese mai la laurea. Aveva comunque un’ottima cultura, era un poliglotta e un oratore di talento straordinario. Era di corporatura esile (invecchiando poi ingrassò), non era molto alto e portava degli occhiali tondi, da miope. Sembrava un chierichetto, però aveva un’eloquenza straordinaria e sono molte le testimonianze che sottolineano come i suoi discorsi fossero in grado, oltreché di svolgere concetti importanti, di emozionare moltissimo chi lo ascoltava.

Tornando ai tentativi insurrezionali degli anarchici…

Il secondo tentativo insurrezionale è nel 1877, quando un gruppo guidato da Cafiero, Malatesta e Pietro Ceccarelli, un romagnolo, prova a far insorgere i paesi dei monti del Matese, vicino a Benevento. Dopo pochi giorni, però, questo piccolo gruppo viene accerchiato dalle truppe regie, costretto alla resa e incarcerato (ed è proprio durante la detenzione che Cafiero scriverà il famoso Compendio del Capitale di Marx). Il nuovo fallimento segna la crisi definitiva del metodo insurrezionale, già palesatasi nel ’74.

Nel frattempo, a Milano, aveva cominciato a uscire la seconda serie de "La plebe”, una rivista importantissima diretta da Osvaldo Gnocchi Viani e Enrico Bignami. "La plebe” è un crocevia di tutte le scuole socialistiche italiane ed europee ed è il luogo da cui arrivano in Italia tanti influssi dall’Europa, dai movimenti francese, belga, tedesco. Non è quindi un caso che Costa, nel luglio del 1879, mentre è in carcere in Francia, pubblichi proprio in essa la famosa Lettera ai miei amici di Romagna, che preannuncia la svolta, politica e teorica, che lo porta, dal socialismo anarchico e insurrezionalista, a un socialismo riformatore e gradualista. Questa svolta di Costa è stata a lungo vista solo nei termini relativi alla diatriba ideologica, ma io credo che, per capirla veramente, occorra allargare lo sguardo ai mutamenti politici e istituzionali che avvengono in quel periodo in Italia e in Europa.

La strategia insurrezionale dell’anarchismo, infatti, poteva essere comprensibile e collocarsi con coerenza in una situazione in cui, ad esempio, votava l’1% della popolazione e l’élite di governo era completamente chiusa a prospettive di un allargamento democratico. La situazione, però, comincia a cambiare nel 1876, quando appunto la sinistra storica va al potere e si comincia a parlare di educazione elementare obbligatoria, di allargamento del suffragio, di riduzione delle misure di polizia contro i sovversivi.

Anche in Europa le cose si muovono. Il movimento socialista belga, che era una delle componenti più forti dell’Internazionale anarchica, sul finire degli anni ’70, pur rimanendo di impostazione libertaria, passa nel campo del socialismo gradualista, mentre il Partito operaio francese, all’inizio degli anni ’80, si dichiara favorevole alla partecipazione alle elezioni e si dà un programma amministrativo. In quegli anni Costa gira l’Europa e comprende l’importanza della conquista di alcune libertà fondamentali. La svolta di Costa, però, non è propriamente una svolta dall’anarchismo alla socialdemocrazia, ma è un passaggio dalla prospettiva dell’anarchismo insurrezionalista a un socialismo ancora molto vicino all’idea della rivoluzione libertaria, ma che si apre via via alle esigenze del gradualismo e della lotta parlamentare.

Nel 1880, Costa è di nuovo in Italia (sono gli anni del sodalizio politico e sentimentale con Anna Kuliscioff) e fonda a Rimini -guarda caso- il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che secondo me è il partito più straordinario che sia mai esistito in Italia. Questo non solo perché rappresenta un tornante nella storia del primo movimento socialista italiano, ma soprattutto perché era un partito aperto, libertario, semi-anarchico, con una grande vocazione all’internazionalismo e, nello stesso tempo, con un forte insediamento regionale in Romagna, in Emilia, nel nord delle Marche.

Le caratteristiche programmatiche del partito hanno il loro fulcro nell’idea di associazione, cioè nell’idea di applicare il personalismo associativo a tutte le esigenze della vita. Da questa idea deriva un’impostazione politica federalista incentrata sui comuni, che ci si propone di conquistare anche grazie al terzo elemento di rilievo del suo programma, cioè l’alleanza con i democratici e con i radicali. Da tutto questo deriva la visione federale ed eclettica che Costa ha del partito politico, una visione che verrà confermata anche dalle perplessità con le quali egli accolse la nascita del Partito socialista italiano, nel 1892. Sotto l’impulso di Filippo Turati, il PSI nasceva, infatti, con una sua dottrina, che era il marxismo, e con una sua apparente omogeneità, rompendo da una parte con gli anarchici e dall’altra con la democrazia radicale.

Al contrario, Costa avrebbe voluto evitare lacerazioni che potessero indebolire il movimento di emancipazione popolare. La famiglia socialista, pur rissosa, doveva rimanere unita, perché l’unità -secondo le parole del leader socialista imolese- «non sta solo nell’uniformità». Costa pensava a una visione federale della sinistra, a un grande partito capace di tener conto delle diversità regionali e di ogni gradazione del socialismo. La componente parlamentare avrebbe potuto operare all’interno delle istituzioni, mentre quella libertaria e di base avrebbe garantito un contatto costante con la «questione sociale». In definitiva, era proprio nella diversità e nel pluralismo che Costa vedeva una garanzia di coerenza ed efficacia per il socialismo italiano.

Senza voler azzardare paragoni impropri con l’attualità, mi sembra comunque da rilevare come sia all’ordine del giorno il tema della forma partito-federale. I temi all’attenzione del dibattito pubblico sono il radicamento sul territorio, la volontà di combattere la verticalizzazione e la concentrazione del potere politico, le tendenze populiste, anche se non vanno sottovalutati i rischi legati al potere personale dei leader locali (capi e capetti). Ma quello che mi sta più a cuore sottolineare, di fronte alle miserie culturali che vive oggi l’Italia, è la lezione di laicità che Costa riesce ancora a impartire. L’essere laico significa coltivare l’apertura al dialogo. La strada difficile del dialogo rappresenta, insomma, la cifra del vero laico.

La pluralità delle impostazioni socialiste per lui aveva una funzione critica, che avrebbe permesso al movimento di correggersi dall’interno...

Costa era presente a Genova, nel 1892, quando venne fondato il Partito socialista, ma la situazione del congresso, molto caotica, lo lasciò male, soprattutto a causa degli scontri tra socialisti e anarchici: un dialogo troncato. Per questo non aderì al nuovo partito e tornò a Imola profondamente deluso, anche se poi, nel ’93, i socialisti romagnoli aderiranno al Partito socialista italiano proprio su invito di Costa.

Nel partito che aveva in mente la forma federale avrebbe permesso che, all’interno di esso, trovassero cittadinanza tutte le correnti del socialismo e tutte le declinazioni regionali del movimento di emancipazione. Era ben consapevole dell’infinita varietà territoriale e culturale della penisola.

Era la fiducia in un’organizzazione politico-sociale imperniata sulle autonomie locali?

Sì. Al di là del fatto che all’inizio degli anni ’90 si potesse effettivamente fare un partito federale e ragionare con gli anarchici, quel che risulta interessante è la complessità di Costa, i problemi che voleva far emergere, anche perché, tante volte, le visioni problematiche e contraddittorie sono più interessanti di quelle monolitiche. Carlo Rosselli, nel 1932, in esilio a Parigi, dedica un saggio bellissimo a Filippo Turati, morto quell’anno. Rosselli conosceva benissimo Turati, gli era molto affezionato, ma in questo saggio gli muove una critica proprio relativa alla svolta del 1892.

Rosselli non cita Costa - può darsi che non fosse neanche a conoscenza delle perplessità di Costa sull’operato di Turati - e scrive che Turati aveva ragioni da vendere quando dichiarava incompatibile il socialismo con la concezione dell’anarchismo individualista, o dell’anarchismo inteso in senso volgare, ma, dall’altra parte, sempre secondo Rosselli, Turati aveva sottovalutato l’apporto di una corrente dell’anarchismo, la comunista-anarchica (quella di Malatesta), che col socialismo non era in antitesi necessaria e anzi, almeno in pratica, poteva servire a correggerne l’eccessiva e pericolosa fiducia accordata all’azione dello Stato.

"La migliore riprova di quanto diciamo - continuava Rosselli - si trova nel fatto che oggi i socialisti sono assai più vicini ad anarchici come il Malatesta o il Fabbri, che non ai vecchi compagni rivoluzionari passati al comunismo dittatoriale”. Come si vede, a trent’anni di distanza ritornavano le stesse questioni, e ritornavano in un’Europa che era completamente cambiata...

La visione di partito osteggiata da Costa, quella che si specchia nello Stato, che è uno Stato nello Stato, è la visione della socialdemocrazia tedesca, ma in Belgio, ad esempio, il partito socialista era ben diverso...

Come accennavo prima, il movimento socialista belga e il suo leader, César De Paepe, furono fondamentali per la riflessione di Costa. Nel 1877, a Gand, si tenne un Congresso universale socialista, promosso dai socialisti fiamminghi di De Paepe e fu lì che le potenti organizzazioni socialiste belghe, che fino ad allora erano state nell’Internazionale libertaria, passarono in un’ottica di socialismo gradualista. A quel congresso era presente anche Costa, allora ancora su posizioni anarchiche insurrezionaliste, ma quel congresso, e le posizioni di De Paepe, lo colpirono tanto che, nella lettera Agli amici di Romagna, cita proprio il congresso di Gand come esempio. In quel congresso, De Paepe sviluppò l’idea di una sinistra federale, cioè di una sinistra aperta alle riforme e alla lotta gradualista all’interno delle istituzioni, ma che non rinunciava a una prospettiva di trasformazione in senso libertario.

Facciamo un passo indietro: la lettera agli amici di Romagna provocò un feroce dibattito, in particolare con gli anarchici, ma mise anche in luce che non erano pochi quelli che, come il gruppo che faceva capo al giornale "La rivendicazione” di Forlì, erano disponibili a sperimentazioni politiche pur restando chiaramente anarchici…

Di questo dibattito è indicativo l’atteggiamento di Cafiero, che nel ’79, al momento della svolta, attacca durissimamente Costa, ma poi, in una famosa lettera del 1882, gli darà ragione. Questo vuol dire che, dei tre principali esponenti del primo anarchismo italiano, Costa, Cafiero e Malatesta, all’inizio degli anni ’80 due sono d’accordo nell’accettare una forma di lotta all’interno delle istituzioni ed è solo Malatesta a rimanere contrario. Questa divergenza è indice del fatto che l’ambiente politico, che negli anni ’70 aveva portato a scegliere l’insurrezionalismo, negli anni ’80 stava profondamente mutando, a cominciare da fatto che, nel 1882 c’è la riforma del suffragio politico, che non solo porta l’elettorato al 6,9%, ma soprattutto cambia il metodo con cui si seleziona l’elettorato stesso. La riforma dell’82, infatti, sancisce che, nel binomio censo-capacità (il binomio che nell’800 decideva chi votava e chi no), l’elemento della capacità diventa sempre più importante a scapito del censo, tant’è che si stabilisce che possono votare tutti quelli che hanno fatto la seconda elementare, indipendentemente dai soldi che guadagnano. L’impegno dei socialisti nell’educazione popolare -quindi le scuole serali, le biblioteche e le università popolari- va visto anche in questo senso, perché educare il popolo significa anche guadagnare potenzialmente dei nuovi elettori.

Nel 1882, Costa entra in Parlamento, vincendo le elezioni nel collegio di Ravenna e divenendo il primo deputato socialista italiano. Nel movimento socialista dell’epoca, e non solo fra gli anarchici, la diffidenza verso il parlamento era molto diffusa e quando Costa si era presentato alle elezioni aveva lasciato intendere che non avrebbe mai prestato giuramento alla monarchia e che quindi, se avesse vinto, per forza di cose avrebbe dovuto rinunciare alla carica. Quando però vinse, nacque un grosso dibattito, nel quale intervenne anche Cafiero che, nella famosa lettera cui ho già accennato, sostenne che Costa doveva entrare in Parlamento per portare lì la voce dei lavoratori. Costa quindi divenne deputato, prestò giuramento di fedeltà alla monarchia (nel 1909 divenne anche presidente della Camera) e fu questo che, alla fin fine, gli anarchici non accettarono.

Va comunque tenuto presente che, all’epoca, i deputati non avevano un’indennità, quindi la scelta di Costa di entrare in Parlamento fu assolutamente una scelta propriamente politica, non certo per il desiderio di benefici personali. In effetti, poi, gli interventi di Costa alla Camera dei deputati furono veramente gli interventi del portavoce del movimento di emancipazione, non si staccò mai dalla questione sociale, gli rimasero sempre ben presenti i problemi delle classi popolari.

Tra il 1888 e il 1889 l’allargamento del suffragio viene portato anche nel voto amministrativo ed è proprio questo cambiamento a fare sì che, nelle amministrative dell’89, i socialisti di Costa, alleati ai repubblicani e ai democratici, riescano a vincere le elezioni amministrative a Imola, che così diventa il primo comune italiano a guida socialista. Fu un fatto epocale, anche perché, oggi, Imola può apparire un centro periferico, ma all’epoca non lo era per niente, aveva oltre 30.000 abitanti ed era uno dei fulcri, come Reggio Emilia, del movimento di emancipazione popolare in Italia, tant’è che vi si tenne il Congresso nazionale del Partito socialista italiano del 1902, così come se ne doveva tenere uno nel 1894, che venne proibito da Crispi.

Puoi parlarci di dell’esperienza amministrativa Costa?

All’indomani della vittoria dell’89, Costa assume due posti chiave: assessore alla Pubblica istruzione e vice-presidente della Congregazione di Carità. Riguardo all’assessorato alla Pubblica istruzione, Costa si dà concretamente da fare per incrementare le borse di studio e l’educazione popolare (scuole elementari, serali, domenicali). Come vice-presidente, e poi presidente, della Congregazione di Carità, invece, Costa opera per cambiare la tradizionale logica della carità verso i vinti, muovendo verso un sistema di previdenza più moderno.

La Congregazione di Carità era un’istituzione del Comune che riuniva le Opere pie del circondario e aveva una importanza fondamentale per le classi popolari, perché non esisteva un welfare state e lo Stato liberale, fino agli inizi del ’900, si disinteressò della questione sociale, demandando tutto alla beneficenza. L’innovazione portata in questo campo dall’amministrazione popolare di Imola -una innovazione che poi l’ha resa un esempio per tante altre amministrazioni dell’epoca- consiste in una gestione legata al riconoscimento dei problemi sociali. Ad esempio, il Comune di Imola interveniva direttamente per alleviare la condizione dei lavoratori costretti a emigrare in cerca di lavoro; finanziava le "cucine economiche” (cioè mense pubbliche, a basso prezzo, o addirittura gratuite, per i meno abbienti) e i dormitori pubblici. Cominciava ad articolarsi un welfare locale, che comprendeva anche la costruzione di abitazioni popolari, le "case operaie”. Un’altra questione particolarmente interessante è poi quella delle municipalizzazioni.

A partire dagli ultimi anni dell’800, non solo a Imola ma in tutta Italia (soprattutto, però, nella parte centro-settentrionale del Paese), le amministrazioni locali cominciarono a orientarsi verso la municipalizzazione dei servizi di fornitura di acqua, gas ed energia elettrica. Inizialmente si trattò di un fenomeno locale spontaneo, che vide all’avanguardia le amministrazioni socialiste, poi venne regolato dalla Legge Giolitti del 1903. Alla base di questo movimento c’era la consapevolezza che i crescenti bisogni dei centri urbani e delle classi popolari non potevano più essere fronteggiati da una gestione privata dei servizi, i quali invece potevano essere presi in carico dalle amministrazioni locali consentendo così sia dei prezzi migliori per gli utenti, sia una garanzia del servizio.

Proprio la legge del 1903 prevedeva dei referendum comunali nei quali i cittadini potevano esprimere il proprio favore, o la propria contrarietà, ai provvedimenti di municipalizzazione. L’istituto del referendum locale venne abolito dal fascismo e non è stato più ripreso nell’Italia repubblicana, ma questa è stata una perdita secca, perché era veramente l’espressione di una sana democrazia dal basso. Il referendum comunale più significativo che si svolse a Imola è quello del 1908, che riguardava l’aumento delle tasse comunali. Il Comune di Imola si rivolse agli elettori e disse, grosso modo: "Nel 1906 abbiamo municipalizzato l’energia elettrica, in precedenza l’officina del gas. Questi e altri servizi comportano dei costi, quindi siamo costretti ad aumentare le tasse locali di tot: siete favorevoli o contrari?” Il risultato fu una vittoria schiacciante: 1235 elettori per il "sì”, 154 per il "no” e 37 voti nulli. Il 90% dei cittadini, quindi, si dichiararono favorevoli all’aumento delle tasse per garantire migliori servizi. E’ chiaro che referendum di questo tipo, per un’amministrazione, sono una legittimazione democratica straordinaria ed infatti questa politica proseguì e nel 1912 ci fu l’ultima municipalizzazione, quella dell’acqua. A tutto questo, poi, ci sarebbe da aggiungere il peso avuto da Costa, e dalla sua visione di un socialismo decentrato, nelle cooperative, nel mutuo soccorso, nelle casse rurali, nelle case del popolo, nelle università popolari.

Parlavi all’inizio di Costa come nostro contemporaneo...

Sono molte le riflessione sui problemi e le prospettive della nostra democrazia che ci sono suggerite da Costa. Basti pensare che il suo socialismo, il suo profilo autonomistico, sono senza dubbio da collocare all’interno della storia del pensiero federalista e dell’azione autonomistica nell’Italia unita. Come rilevava Gaetano Salvemini, il sistema federale è una scuola di auto-governo e di auto-educazione e come ricordava Norberto Bobbio l’autonomia va intesa in senso etimologico come capacità di dare norme a se stessi. Un necessario richiamo, insomma, alla questione della responsabilità e dei doveri, che si pone controcorrente rispetto all’isolamento dell’ognuno pensi per sé. (In vista del 150° dell’unità d’Italia, sono stati opportunamente ristampati I Doveri dell’Uomo di Giuseppe Mazzini). Chi si impegnava, come Costa, per la trasformazione sociale e intendeva l’utopia come una aspirazione ideale e morale al miglioramento e alla completa dedizione di sé, anteponeva i doveri ai diritti (o, per lo meno, teneva ben presente accanto ai diritti anche i doveri). L’esigenza mi sembra sia, oggi, quella di ricongiungere la questione morale alla tradizione socialista, un nesso che ha caratterizzato per lungo tempo il cosiddetto "modello emiliano” e che affonda le sue radici proprio nell’eredità dei Costa, dei Prampolini e dei Massarenti. Parlo di modello emiliano con riferimento a una cultura e una educazione politica, a virtù civiche e capacità organizzative, a una attenzione ai problemi di tutti... ma magari su questo punto torniamo più tardi.

Un altro aspetto mi sembra da mettere in rilievo, ora, ed è la fiducia di Andrea Costa nel valore dell’agitazione pubblica e della critica sociale. Costa scopre l’importanza dell’opinione pubblica, di una opinione pubblica che in quegli anni va allargandosi, grazie all’ampliamento del suffragio. E qui entra in gioco la sua grande capacità di emozionare chi lo ascoltava. A questo proposito, in molti hanno citato le memorie di Anselmo Marabini pubblicate nel 1949, e in effetti vale la pena rileggerne almeno un brano: «I discorsi di Andrea Costa da me ascoltati nella mia adolescenza non solo mi entusiasmavano per la loro eloquenza e per la loro passione, ma le cose che egli diceva, l’eccitamento alla lotta per la conquista di una migliore organizzazione sociale mi colpivano e mi conducevano ad esaminare le miserie intorno alle quali vivevo nelle squallide campagne di allora, e pian piano cresceva nella mia coscienza una profonda simpatia verso quella santa lotta di emancipazione umana». È appena il caso di ricordare il nesso tra emozione e partecipazione, ma anche tra emozione e cultura (l’interesse per un tema o un soggetto parte solitamente da una emozione).

Accennavi una riflessione sulla storia del socialismo dalle radici ottocentesche (quelle di Costa e di altri) fino ad arrivare al modello emiliano...

Recentemente, Luciano Cafagna ha ricordato come uno degli elementi di originalità del Partito comunista italiano, guidato da Palmiro Togliatti, sia stata l’abilità di assumere e far propria, nel secondo dopoguerra, la tradizione del socialismo emiliano. Uno "scippo” (come lo definisce argutamente Cafagna) che il PSI non riuscì mai a recuperare, né con Nenni, né con Craxi. Questo passaggio nella storia della cultura politica della sinistra, che si consuma tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, mi sembra un passaggio chiave. Un altro passaggio cruciale arriva 30-40 anni più tardi con la crisi dei partiti della sinistra e delle loro ideologie (manifestatasi fin dagli anni ’80) e con la fine delle stesse formazioni politiche della "Prima repubblica”. Oggi, in genere, delle tradizioni del socialismo non si parla più. E il riformismo della sinistra appare una parola svuotata di senso, proprio per l’assenza di una connessione convincente con una storia politica.

Nel campo ex socialista (ex PSI), mi sembra rimanga il nodo di Craxi: ho visto il tentativo di costruire una genealogia politica che va da Turati a Craxi senza soluzione di continuità, passando per Pertini e per Nenni, ma è evidente come la cosa non stia in piedi, per lo meno per quanto riguarda la questione morale. Nel campo ex-comunista, si preferiscono i riferimenti alla democrazia americana, nella persona di Obama (si pensi a Veltroni, ad esempio), oppure a una socialdemocrazia europea che appare però quasi un’entità indistinta, senza articolazione, senza prospettiva storica (si pensi a D’Alema e alla sua Fondazione).

Nel modello socialdemocratico, così come si è delineato in Europa a partire dagli anni tra le due guerre mondiali, è ingombrante la presenza dello Stato, del centralismo e del dirigismo, e sono convinto abbia ragione Michele Salvati quando afferma che è un modello che ha esaurito la sua vitalità. Ecco allora che credo si imponga un nuovo inizio e penso che molti spunti di interesse possa fornire il primo socialismo italiano ed europeo: mi riferisco alla molteplicità delle scuole che lo caratterizzavano, al suo profilo autonomista e federalista, alla fantasia istituzionale che esprimeva.



Pubblicato da Salvatore Lo Leggio a 15:48
Etichette: Comunismo socialismo movimento operaio, Italia contemporanea, maestri e compagni, storia storie
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biografia di andrea costa
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/costaand.htm

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martedì 10 agosto 2010

viaggio elettorale. Francesco De Sanctis

http://www.testoesenso.it/article/show/88/francesco-de-sanctis-un-viaggio-elettorale


Audio: La voce di Roberto Herlitzka legge A proposito della storia di Alberto Gianquinto
Francesco De Sanctis, Un viaggio elettorale
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di Carmine Chiodo



Ci troviamo di fronte ad un’accurata edizione critica del Viaggio elettorale di De Sanctis, ben commentato e prefato dallo studioso. Quest’opera vide la luce nel 1876 e «nacque dall’esigenza di fissare sulla carta l’esperienza di viaggio scaturita dal difficile ballottaggio elettorale dell’anno precedente. Costretto dalla necessità di raccogliere i voti decisivi per la vittoria, De Sanctis dovette inerpicarsi per gli aspri sentieri dell’Irpinia, scontrandosi con una realtà sociale ancorata a passate convinzioni e restia all’idea di progresso, dove politici dalla dubbia serietà si spartivano la gestione della cosa pubblica. Con quest’opera siamo di fronte a una pagina di storia del Mezzogiorno di sorprendente attualità, in cui la severa moralità di un uomo di cultura lancia un monito contro i disvalori della classe dirigente».

Questa edizione dell’opera desanctisiana è arricchita di un fondamentale e utile Dizionario delle citazioni, dei luoghi e dei personaggi. Le pagine introduttive di Iermano si intitolano Un viaggio tra gli uomini di Guicciardini (pp. 11-43). Si aprono con una carrozza che percorre in un freddo gennaio del 1875, «alla vigilia di un difficile ballottaggio elettorale nel collegio di Lacedonia, strade impossibili, attraversa torrenti e s’arrampica lungo sentieri di fango alla ricerca di paesi irraggiungibili, sommersi dalla pioggia e nascosti dalla nebbia. Il candidato al Parlamento Francesco De Sanctis, già ministro della pubblica istruzione nei governi Cavour e Ricasoli, è il viaggiatore disincantato che cerca nelle remote terre dell’Alta Irpinia, poste tra la valle dell’Ofanto e il vulture, di spiegare quanto sia necessario calare l’ideale nel reale, superare i mali e le esasperazioni dei regionalismi, causa di ‘guerricciole e gelosie che generano facilmente in pettegolezzi sulla stampa locale’, distruggere i partiti personali, vere e proprie malattie sociali, e spingere le comunità e la gente onesta fuori dal fatalismo e verso un alto grado di educazione politica» (p. 11). Comunque i motivi ideali della Storia della letteratura italiana si trovano pure nel Viaggio. Qui spicca per un possibile risveglio delle coscienze la figura di un telegrafista di Bisaccia, Fabio Rollo, reduce della battaglia di Custoza del 24 giugno 1866. Ecco il De Sanctis come parla di questo Fabio: «Mi parve uno degli uomini più serii che avessi conosciuto. Notai una tranquilla moderazione di giudizi e di parole, che è il segno dell’umiltà. Avevo innanzi, un carattere...». E ancora del Rollo appena conosciuto così parla nel capitoletto Bisaccia la gentile: «Fabio era lì in piedi dietro una siepe di uditori, non esitò, non ebbe il menomo imbarazzo. Venne dritto a me e mi strinse la mano, e sentii che acquistavo un amico, di quelli che non si dimenticano mai».

De Sanctis traccia «un formidabile quadro della nuova classe dirigente della nuova Italia ma non svolge considerazioni sulla storia della provincia e della sua amministrazione durante il primo Ottocento» (p. 15). Iermano analizza bene i vari andamenti del viaggio e la sua scrittura oltre che i temi. Qui si vede il professore De Sanctis parlare, dibattere, incontrarsi con persone, tenere discorsi e nel contempo «fronteggiare l’incalzante presenza dei ricordi e delle memorie nei luoghi dell’infanzia e della prima gioventù» (p. 21).

De Sanctis faceva parte del collegio elettorale di Morra Irpino, «il più vivo dei tesori». E ritornandovi dopo una lunga assenza, a Morra ha trovato «tutta una storia, antiche e prospere famiglie venute giù o spente, e molta gente nuova, e subiti guadagni, e contadini ricchi e fatti padroni, e talvolta i loro padroni servi loro. Premio al lavoro e castigo all’ozio» (p. 152).

Al De Sanctis non sfugge nulla della nuova vita e politica del suo paese. «co’ nuovi tempi è sorta in Morra una gagliarda vita municipale, e in un decennio si è fatto più che in qualche secolo» (ivi). Ma - ancora scrive - «non posso dire che una vera vita civile vi sia iniziata. Veggo ancora per quelle vie venirmi tra gambe, come cani vaganti, una turba di monelli, cenciosi e oziosi, e mi addoloro che non ci sia ancora un asilo d’infanzia». Ancora regna l’usura e non c’è alcuna istituzione provvida che faciliti gl’istrumenti del lavoro e la coltura de’ campi» (p. 152) e inoltre i rapporti tra «galantuomini e contadini» non sono buoni. E ancora viene osservato che in «Morra c’è vanità, non c’è orgoglio» (p. 153). E il De Sanctis poi si abbandona ai ricordi, ai ricordi di quando era fanciullo.

I paesi visitati dal professore sono Rocchetta «la poetica», Bisaccia» la gentile», Calitri «la nebbiosa», Andretta «la cavillosa», poi è la volta di Morra, di San Severo, Avellino, e infine Sansevero. In questi paesi De Sanctis incontra diverse persone e si trova in varie situazioni. Ecco l’astiosa e tetragona «Calitri la nebbiosa», paese abitato da ricchissime famiglie ma con strade impraticabili. Qui ebbe De Sanctis un’accoglienza fredda e priva di qualsiasi ufficialità: «il prete Pasquale Berrilli, ‘uno dei più caldi avversarii’ del Nostro, non volle andare ad incontrarlo in quanto sostenitore del candidato Soldi» (p. 25). De Sanctis vide Calitri «in un mal momento. La strada era una fangaia; ci si vedeva poco, e un freddo acuto mi metteva i brividi» (p. 117). Calitri è cambiata non è più quella di un tempo (dell’epoca della giovinezza del De Sanctis) ora è «cosa meschina». Inoltre «non conoscevo le case, ma quelle strade erano impresentabili, e dànno al paese una cattiva impressione a chi vi giunge nuovo: le strade sono pel paese quelle che il vestire per l’uomo» (p. 118). A Calitri s’incontrò col Tozzoli e cominciò a «politicare». Il Tozzoli era «giovine sinistra, cioè quella sinistra del 65, composta il più di ricchi proprietari, e di notabili locali, che gittarono già la così detta consorteria e vennero al parlamento a protestare contro la cattiva amministrazione» (p. 118). Attraversando «il paese nemico, De Sanctis, in compagnia di amici ed elettori, notò che la popolazione aveva un atteggiamento di serietà non riscontrata tra i signori. Con rapidità fotografica coglie l’atteggiamento degli abitanti e lo fissa in una bella immagine: ‘Alcuni popolani stavano lì ritti sulla piazza con una gravità di senatori romani’» (ivi). Da Calitri la carrozza lo porta ad Andretta «la cavillosa»: «Così ho inteso qualificare questo paese da alcuni, a cagione delle proteste fatte nel ballottaggio, che rivelavano a gran distanza un sottile spirito avvocatesco» (p. 125).

Il giro elettorale, come si sa, venne ideato e preparato dall’on. Michele Capozzi e dall’abile prete di Morra Irpino marino Molinari, dopo un incontro con il De Sanctis a Roma nel dicembre del ‘74. Nel Viaggio elettorale c’è il politico e lo scrittore De Sanctis. Varie volte il politico va a letto e «lascia campo libero allo scrittore, che subito comincia fantasticare in attesa di addormentarsi. I suoi pensieri nella notte sempre popolati d’immagini curiose, di ombre particolari di razionalità e non di paura, di successi e consensi che la realtà non concede: «Il signor cognato giunto da Avellino , alla vigilia del voto, quel bonomo che ha votato e voterà per l’avversario malgrado nel salotto di casa Mauro avesse lasciato pensare nel contrario» (v. cap. IX), poi l’incredibile comportamento dei Franciosi di Lacedonia (Cap. III), le sottigliezze dello scaltro avvocato andrettese Camillo Miele, figura mirabile del sofista meridionale mai del tutto scomparso dall’atlante della provincia italiana (Cap. XI), la deludente mediocrità morale del vescovo Fanelli (Cap. XII) ricordano al De Sanctis ma non al suo teologo che la storia non è romanzo (p. 31). Fin da ragazzo Francesco (chiamato affettuosamente Ciccillo) amava sognare anzi, aveva «una inclinazione al rêve», la quale con passare degli anni aumentò: si pensi alle lettere da Zurigo indirizzate agli allievi Angelo Camillo De Mais e Diomede Marvasi, entrambi esuli a Torino, oppure alle ragazze Virginia Basco e Teresa de Amicis. Si vedono ammiriamo le doti di scrittore di De Sanctis quando ci presenta l’arciprete Francesco Piccoli di Rocchetta la poetica, «in cui trovò vedova quella Luisa Bizzarri di Lacedonia amata a sedici anni e ora madre di Giuseppe Castelli, giovanissimo sindaco del paese e sue fervente seguace» (p. 31).

Il capitolo X del Viaggio è dedicato a Morra Irpino. E si tratta di un capitoletto ricco di ricordi che già annunciano La giovinezza. Qui si leggono analisi storico-sociali «di altissima fattura concettuale» ma pure appaiono i ricordi. Ecco l’incontro con i familiari (la zia Teresa, il nipote Aniello, il fratello Vito, e poi le cugine, i luoghi dei giochi, la piazzetta che aveva «visto» tante sue lagrime, il ricordo della partenza degli esuli del ‘21, il Monte delle Croci, Dietro corte, San Rocco, la via Nuova, e ancora le sudicie stréttole, le case dei vecchi e nuovi padroni, tutto costituisce lo spazio di una memoria mai pure dato autobiografico, ma costante trasfigurazione dei valori del tempo perduto. I suoi sono ricordi di una vita mentale che rifioriscono senza che il sentimentalismo devasti la dignità e l’altero distacco del critico» (pp. 34-35). Queste pagine - come giustamente osserva Iermano - sono un bel saggio o, meglio un capolavoro di microstoria, «d’indagine critica del tutto priva di contaminazioni localistiche o di eccessi descrittivi. Queste pagine desanctisiane si possono in modo forse azzardato paragonare alla mirabile storia di Due paeselli d’Abruzzo (Monterodomo e Pescasseroli) che Benedetto Croce ripubblicò, non casualmente, in appendice alla Storia del Regno di Napoli (1924). Il paese di De Sanctis come quello di Croce (Pescasseroli) «aveva un primitivo abitato che si aggrappava certamente al castello» e soprattutto, così come il paese abruzzese, «trascinò per secoli la sua vita di piccolo paese feudale, sperduto tra le montagne e quasi inaccessibile» (v. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari, 19585, pp. 315-425).

Il Viaggio elettorale terminò ad Avellino, la capitale, dove il De Sanctis nonostante avesse vinto nel collegio di Lacedonia, la sera del 23 gennaio ricevette una fredda accoglienza (cap. XXII). «Nessun confronto con quella ricevuta al suo arrivo da governatore appena nominato per decreto da Garibaldi nel difficilissimo settembre del Sessanta, quando la provincia era in stato d’assedio e la borghesia si sentiva minacciata dai moti sociali» (p. 35).

De Sanctis percorso, in compagnia di don Marino Molinari e del patriota e letterato di Teora Romualdo Cassitti, «la strada dello studente, ricordandomi quante volte avevo fatta quella via nella prima età, andando e tornando, il capo pieno di grammatica e di retorica». Ad Avellino andò a salutare nel suo palazzo, posto di fronte alla prefettura, il vecchio Carlantonio Solimene, sindaco della città negli anni del regno di Ferdinando II, ed ora, non ostante le sue pessime condizioni di salute, consigliere del figlio Catello, schierato contro il Capozzi. Della città ricordava le famiglie del ceto civile - i Vegliante, i Lanzilli - e in particolar modo quel «Lorenzo De Concililj, sindaco e memoria della storia risorgimentale, ormai scomparso da circa nove anni, il 20 ottobre 1866» (p. 37). Iermano segue passo passo De Sanctis nei suoi vari spostamenti, incontri, discorsi, pensieri. Inoltre incisive risultano le pagine di Iermano quando analizzano lo stile, la lingua del Viaggio elettorale. Qui De Sanctis «realizza un imprevedibile esperimento di linguaggio realistico, conseguenza di una meditata ricerca della rappresentazione del vivere attraverso una lingua ‘viva’ e una perfetta identità tra contenuto e forma» (p. 40). Come in altri suoi scritti letterari e in tanti saggi critici, De Sanctis adopera una «lingua quasi di tipo giornalistico: rapida, lineare, efficace, capace di conservare sempre chiarezza espressiva e ricchezza d’idee» (ivi). Alcune volte si leggono parole ed espressioni di alettali opportune» per una efficace riproduzione del parlato ma anche per sperimentare tecniche di tipo verista, sia nella narrazione sia nel discorso concorrono a rafforzare uno stile in cui il tono medio si coniuga ad un periodare piano e talvolta essenziale: i tanti ritratti e bozzetti presenti nel VE ottengono dalla non necessaria complessità delle strutture sintattiche efficacia e conferiscono alla lingua un accattivante e più specificato tono medio» (pp. 40-41). C’è anche nella prosa di quest’opera desanctisiana un altro tipo di linguaggio, costituito da elementi preziosi e da una sintassi ricercata. E’ tuttora valida, secondo, Toni Iermano, anche per il Viaggio elettorale, l’interpretazione di Luigi Russo sulla prosa critica del De Sanctis: «Il De Sanctis intese, con tutta l’opera sua, a srettoricare l’Italia, inaugurando una prosa vivamente rappresentativa, ma asciutta e di tono bonario e parlato, che, nel campo scientifico e speculativo, facesse riscontro a quella che, nel campo artistico, era la prosa del Manzoni» (v. Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1928), Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 348; sulla lingua e la prosa del De Sanctis sono ancora validi i libri di Marcello Aurigemma, Lingua e stile nella critica di Francesco De Sanctis, Longo, Ravenna, 1968 e di M. Casu, Il De Sanctis scrittore, Vita e Pensiero, Milano, 1971; e infine va pure ricordato G. Nencioni, Francesco De Sanctis e la questione della lingua, Bibliopolis, Napoli, 1984. Già nella Storia il De Sanctis voleva innovare la sua prosa che poi si ripresenta in Un viaggio elettorale «con forti motivi di modernità. Allo stesso modo del Montaigne degli Essais (Lib. III, cap. V), anche De Sanctis vuole mettere qualcosa di suo nella lingua» (p. 41).

Francesco De Sanctis nel suo Viaggio elettorale «aveva raggiunto i suoi obiettivi politico-letterari, ma le motivazioni ideali erano prevalse solo nel sogno o nelle lunghe e tormentate notti d’Irpinia in cui fantasticava così come aveva fatto negli anni della prigionia o nel tempo dell’esilio» (pp. 41-42).

Per il De Sanctis nel sogno tutto andava bene ma nella realtà subì diverse sconfitte e delusioni elettorali: «Le drammatiche sconfitte, seguite al voto dell’ottobre 1882 e del gennaio 1883 furono conseguenza di una radicale quanto persistente incomprensione di parte del ceto civile provinciale nei confronti delle sue identità mai indebolite, però, da quest’atteggiamento» (p. 42).

Il De Sanctis fin all’ultimo momento della sua vita contribuì a sostenere, così come nel discorso di Trani del 29 gennaio 1883, che la politica è soprattutto ed essenzialmente dignità e non può essere concepita» come un dovere e un sacrificio».

Questo libro di Toni Iermano è frutto di lunghe e non sempre facili ricerche.

Comunque grazie a Iermano possiamo leggere in una riedizione critica rigorosa il Viaggio elettorale del De Sanctis, ben commentato in ogni sua parte dallo studioso che ha redatto anche un utile ed esaustivo Dizionario delle citazioni, dei luoghi e dei personaggi.

Dopo il Viaggio elettorale sono pubblicati due «testi che rappresentano ed interpretano due aspetti che nel VE operano con estrema disinvoltura senza mai entrare in collisione, quello letterario e quello politico».

I due testi sono: «Il giornale di viaggio nella Svizzera durante l’agosto del 1854» di Gerolamo Nonamici (testo dapprima apparso ne «Il Piemonte», Torino, a. II, n. 2, è gennaio 1856); Discorso di S. Maria La Nova per le lezioni. Questo discorso venne tenuto a Napoli il 4 novembre 1874 e nello stesso giorno fu pubblicato sul «Roma», a. XIII, supplemento al n. 305 del 4 novembre 1874, sia sul «Pungolo», a. XV, n. 306. Questo discorso è l’unico testimone ufficiale delle idee che Francesco De Sanctis sostenne durante la campagna elettorale del novembre 1874. Inoltre «attualissime si rivelano le parti del discorso riservate al rapporto tra nazione e regione, tra affermazione dell’identità italiana e la tutela degli interessi locali».

Titolo: Francesco De Sanctis, Un viaggio elettorale
Autore: Carmine Chiodo
Categoria: Note e Recensioni
Rivista: Testo e Senso n.7 (2006)
Visitato: 948 volte
Scarica in .PDF >>> Francesco De Sanctis, Un viaggio elettorale.pdf



http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_de_Sanctis
http://www.scuolamediadesanctis.it/vita%20de%20sanctis.htm

lunedì 9 agosto 2010

elogio della politica anonima ed acefala

Elogio della politica anonima ed acefala
Mi sono domandato del perchè e del come si sia creata una profonda e trasversale (almeno nei vari comparti della sinistra) corrente favorevole alla candidatura di Nichi Vendola alla guida del centro-sinistra o del sinistra-centro come gli entusiasti fautori denominano la coalizione vendoliana in competizione con il centro-destra. Questa candidatura nasce dalla voglia di avere una personalità che abbia una grande visibilità nel mercato politico e che possa competere con Berlusconi e sconfiggere il centro-destra. Una personalità sperimentata in Puglia sul terreno della gestione amministrativa positivamente. Infatti si dice: "pugliamo l'Italia!!" che si adatterebbe benissimo alle trasformazioni che la politica italiana ha subito nel corso degli ultimi venti anni e che hanno inciso profondamente nel sistema istituzionale. I Sindaci, i Presidenti delle Province, i "Governatori" vengono eletti direttamente dal popolo ed addirittura le assemblee elettive che dovrebbero controllarli decadono in caso di loro indisponibilità per malattia, per arresto, per dimissioni. Sono quindi obbligate ad essere accondiscendenti e collaboranti e addirittura a vigilare sulla loro buona salute. Al Congresso di Torino del 1976 i socialisti scelsero la strada della soppressione del Comitato Centrale e della nomina di un Consiglio nazionale da affiancare al leader Bettino Craxi. Il craxismo ha dato vita al leaderismo ed ha contaminato di questa "novità" tutto il quadro politico. Il PCI ha cercato di adeguarsi sia pure con le difficoltà di un partito "pesante" che però presto sarebbe stato messo fuori gioco con la chiusura della maggioranza delle sue sezioni e la crescita del peso dei gruppi parlamentari o elettivi e degli amministratori sui dirigenti veri e propri delle Federazioni e della Direzione. IL giovane e disinvolto sindaco di Firenze Renzi e l'europarlamentare dalla lingua puntuta Debora Serracchiani sono la personificazione di questa "sinistra" senza comunismo. Il processo si è accelerato dopo la crisi di tangentopoli e per l'emergere di una nuova classe di imprenditori rivoltosi verso la vecchia Confindustria degli Agnelli, dei Pirelli e delle grandi famiglie del capitalismo italiano. Berlusconi ed i suoi amici milanesi e del Nord est non hanno fatto mistero della loro insofferenza verso il vecchio assetto del potere industriale e finanziario e, forti di montagne di denaro guadagnate nel terziario e nel sistema della media industria, hanno dato la scalata al potere politico.
Compiacenti scienziati della politica intanto inventavano un nuovo alfabeto in cui la parola chiave era
"modernità" e la cosidetta società liquida in cui possono navigare soltanto partiti liquidi. Il tutto condito di belle parole e profonde concetti che io traduco così: il contenitore è uno ed uno soltanto: il liberismo. I partiti debbono adattarsi a questo contenitore come un guanto si deve adattare alla mano.
Pensiero unico e partiti che competono per contendersene il servizio. Tutto il sistema massmediatico
è funzionale a questo schema. In TV vediamo e chissà ancora per quanto tempo vedremo sempre le stesse persone che ripetono sino alla noia, alla saturazione, le stesse cose. In tutto si tratta al massimo
di una ventina di "politici" che gli spettatori debbono identificare con i partiti o i movimenti che rappresentano.
Ma perchè la personalità del leader diventa così importante, così decisiva? Perchè nel bipolarismo delle cosidette democrazie occidentali i programmi delle maggioranze o delle opposizioni non sono mai davvero alternativi. C'è differenza tra Bush ed Obama? Si tratta di sfumature o di articolazioni a volte importanti ma interne ad una sola scelta di fondo. A volte si tratta di contrasti radicali, fondamentali, come quelle che in Italia dividono il PD dal PDL sulla questione morale, sull'uso delle risorse pubbliche, sul ruolo della Magistratura. Ma la politica estera e la politica sociale sono sostanzialmente identiche. Sulla linea Marchionne non c'è differenza tra Pdl e PD. Sull'Afghanistan idem.
In sostanza la opzione leaderistica a sinistra è surrogatoria di un programma alternativo a quello delle classi dominanti. Vendola diventerebbe la bandiera di una gestione onesta e pulita delle stesse scelte fatte dal centro-destra. Non passa per la mente di nessuno che è invece venuto il momento di fermare
questa involuzione personalistica e liberistica della politica italiana e ridare voce alla classe operaia ed a tutte le forze che si richiamano alla sua affermazione come classe dirigente ed egemonica della cultura e della politica del Paese.
Riflettevo sul fatto che l'Europa ha conosciuto decenni di guida politica socialdemocratica in Germania, in Francia, nei paesi scandinavi, nella stessa Inghilterra Blair escluso (questi non è mai stato socialista). In questi decenni che hanno fatto civile l'Europa ed hanno creato un ceto medio di centinaia di milioni di persone assistito da un welfare di straordinario valore sociale il ruolo delle persone è sempre stato secondario quasi invisibile rispetto a quello dei partiti. Abbiamo conosciuto
statisti illustri come Olaf Palme, Willy Brandt, Francois Mitterand quando sono diventati governanti
ma il socialismo europeo è stato fatto dai partiti "pesanti" e dai programmi. La gestione della politica non è mai stata personalistica ma espressione della scelta, della volontà collettiva, delle organizzazioni
politiche e sindacali del blocco sociale di riferimento. Queste socialdemocrazie si sono avviate ad un malinconico tramonto quando hanno attenuato la loro identità di classe ed hanno sposato gli interessi generali del capitalismo rinunziando a condizionarne la funzione.
Ora, in Italia, questo blocco sociale di riferimento è stato "posato" dal PD e dal Sindacato. Le altre strutture sociali come la Cooperazione sono diventate a tutti gli effetti imprese capitalistiche e multinazionali. I lavoratori sono stati abbandonati come e con Cassiintegrati dell'isola dell'Asinara. Vendola o Bersani o Veltroni o altri potranno vincere sul piano elettorale Berlusconi o Fini o Bossi ma soltanto ingraziandosi parte dello elettorato di questi e per fare la loro stessa politica. Ma noi che interesse abbiamo a ciò? L'Italia che cosa ne ricaverebbe?
Per questo credo che l'Italia diventerebbe un paese civile, politicamente maturo, quando alla rissa dei galli che si beccano in TV, si sostituiranno partiti forti e programmi alternativi, quando ci avvieremo ad una fase politica anonima ed acefala ma ricca di idee, programmi, proposte, realizzazioni, scelte alternative.
Pietro Ancona
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http://www.politicaresponsabile.it/temi/13/partiti-e-societa-liquida.html

sabato 7 agosto 2010

alessandro Zinov'ev

giovedì 5 agosto 2010L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev
“La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi colonizzati, in virtù delle condizioni interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico. È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta dai metodi del colonialismo. Inoltre, il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.”



Se n’è andato, alla fine, nel 2006, il terribile vecchio, all’età di ottantatre anni.Filosofo prestigioso, specializzato in questioni di logica; matematico geniale; romanziere amaro ed eccentrico; critico implacabile di tutto e di tutti: del comunismo e del post-comunismo; della Russia e dell’Occidente; del totalitarismo e della democrazia; uomo contro per eccellenza, ostinato, implacabile accusatore e irriducibile derisore di ogni conformismo, di ogni pigrizia mentale, di ogni acquiescenza al potere, qualunque esso sia: tale è stato Aleksandr Zinov’ev.
Se l’è portato via, ancora indomito, un tumore al cervello; ma non se n’è andato in punta di piedi, bensì ruggendo e irridendo tutte le ipocrisie e tutte le forme di demagogia.In Occidente non se ne sono accorti in molti, perché il personaggio era talmente scomodo che si è fatto di tutto per non propagarne li pericoloso messaggio: aveva attaccato Stalin e criticato Gorbaciov, accusato Eltsin e denunciato Putin; aveva, soprattutto, messo in guardia contro la ridicola pretesa occidentale (Fukuyama e soci) che, con la caduta dell’Unione Sovietica, anche il comunismo fosse finito per sempre. «Ritornerà – aveva detto – magari in forme inusuali ed inedite»; e non già perché ne avesse nostalgia, lui che fin dal 1976 era stato costretto all’esilio a causa della pubblicazione, in Germania, del suo romanzo «Cime abissali», ma che pure, davanti alle brutture del post-comunismo in Russia, aveva fatto il tifo per Gennadij Zjuganov, leader del vecchio Partito Comunista russo.


Gli avevano tolto tutti gli incarichi universitari; lo avevano espulso dalle istituzioni sovietiche; gli avevamo perfino strappato dal petto le decorazioni al valor militare guadagnate durante la seconda guerra mondiale (era stato un valoroso pilota di aviazione); ma non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Poi, però, una volta caduta l’Unione Sovietica (come lui aveva previsto, allorché aveva criticato la “katastrojka” gorbacioviana), l’Occidente non aveva più avuto bisogno di lui; di lui che si era mostrato subito estremamente critico verso le forme sgangherate e mafiose del neocapitalismo proliferate in Russia sulle ceneri dell’ideologia marxista-leninista e che aveva denunciato come la sua patria fosse divenuta una semplice “colonia” dell’Occidente. Di lui che, soprattutto, si era mostrato critico implacabile delle “magnifiche sorti e progressive” promesse all’intera umanità dai fautori della globalizzazione.Per lui, c’era qualcosa di ancor peggiore, sociologicamente parlando, dell’”uomo comunista”, ed era l’”homo sovieticus”: un tipo umano che voleva unire l’ozio e il parassitismo sociale, tipico della vecchia Unione Sovietica, con lo sfrenato desiderio del “tutto e subito” della Russia eltsiniana e putiniana, dominata da innominabili cricche e da squali della finanza e da avventurieri al caviale, mentre la massa del popolo faceva ancora le code nei negozi e non era in grado di pagarsi l’affitto di una abitazione decente.Non che il mito del “popolo” facesse molta presa in lui, critico corrosivo ed implacabile demistificatore di tutte le ideologie umanitarie e progressiste della modernità; la stessa “umanità” era, per lui, una delle più subdole e delle più esiziali invenzioni dell’Occidente.Vittorio Strada, in un celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1997, così riassumeva le sue idee in proposito:



«C’era una volta l’Umanità… Inventata dagli stoici, spiritualizzata dal cristianesimo, secolarizzata dall’illuminismo, l’umanità, non come specie biologica classificata tra i mammiferi, ma come entità culturale inclassificabile tra gli organismi, è giunta al suo più alto grado di sviluppo o, meglio, di progresso,che ne segna però il tramonto, già iniziato in questa fine di secolo. […] Iniziato con la lieta novella che il nostro è forse “l’ultimo secolo umano”, cui seguiranno secoli di “storia superumana o postumana”questo “romanzo sociofuturologico” [ossia «L’umanaio globale»] non è tutto tenebroso, poiché a rischiararlo qua e là intervengono squarci di nostalgiche rievocazioni del comunismo sovietico che Zinov’ev criticò non per abbatterlo ma per salvarlo. Un comunismo che egli, in una variante mostruosamente peggiorata perché totalmente razionalizzata, ritrova proprio nell’umanaio occidentale, del quale la Russia, disse crucciato Zinov’ev, è diventata una colonia…»



Ora, di “occidentalizzazione” del mondo ci aveva già parlato Serge Latouche, ma con riferimento pressoché esclusivo ai paesi del Terzo e Quarto Mondo; mentre il punto di vista di Zinov’ev è molto più interessante, perché è quello di un russo che ha visto la sua patria “occidentalizzarsi” a tappe forzate, nel giro di pochi anni o pochissimi decenni; benché il processo fosse iniziato già da alcuni secoli e si fosse accelerato con l’azione riformatrice dello zar Pietro il Grande, per non parlare della “grande” Caterina, la sovrana illuminata…Il punto di vista di Zin’ov è più ampio e più penetrante: da russo che ha visto e vissuto il traumatico passaggio dal totalitarismo sovietico, burocratico e inefficiente, al capitalismo d’assalto e semi-mafioso, ma con le stesse classi dirigenti gattopardescamente traghettate dall’uno all’altro, egli ci aiuta ad osservare il fenomeno dell’occidentalizzazione non solo nella sua dimensione coloniale o semicoloniale, ma anche in quella, più sottile e insidiosa, della cooptazione ideologica in guanti di velluto, basata sulla seduzione consumista e sulla filosofia cialtrona e irresponsabile del “tutto e subito”.


Il grande Dostojevskij lo aveva previsto o quantomeno paventato: occidentalizzandosi, la Russia avrebbe perduto la propria anima in cambio di un piatto di lenticchie. Ma Zinov’ev non ha più nemmeno l’illusione della “santa Russia”, l’illusione di quella arcaica e patriarcale Rus’ in cui ancora Sergej Esenin, ai primi del Novecento, aveva creduto, o voluto credere, con tutto il suo palpitante e disperato amore di poeta. Ciò rende l’analisi di Zinov’ev amara, impietosa, ma lucidissima e difficilmente confutabile.Citiamo un passaggio chiave da «L’umanaio globale» (titolo originale: «Globalnyj Celovejnik», Mosca, Tsentrpoligraf, 1997; traduzione italiana di Alexei Hazov e Anna Cau, Milano, Spirali, 1998, pp. 167-173): «I paesi occidentali si sono strutturati storicamente in “stati nazionali”, come organizzazioni sociali di livello organizzativo relativamente superiore al resto dell’umanità, come particolare “sovrastruttura” superiore alle altre. Essi hanno sviluppato al loro interno forze e capacità dio conquista e di dominio sugli altri popoli.


E il concorso delle circostanze storiche ha dato loro la possibilità di sfruttare il proprio vantaggio. Io on ravviso in questo niente di amorale e di criminale. I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.L’aspirazione dei paesi occidentali a dominare il mondo circostante non è soltanto frutto di malafede o di qualche loro particolare ambito. È condizionata dalle leggi dell’essere sociale. L’influsso esercitato sull’evoluzione dell’umanità è stato contraddittorio. È stata una possente fonte di progresso. Ma è stata anche una non meno possente fonte di sciagure. Ha prodotto innumerevoli guerre sanguinose, comprese due guerre mondiali “calde” e una “fredda”. Non solo non è scomparsa col tempo, ma si è rafforzata. Ha assunto nuove forme. Tra l’altro, la conquista di altri paesi e popoli è diventata una condizione indispensabile per la sopravivenza dei paesi e dei popoli dell’Occidente.


La tragedia della grande storia non consiste nel fatto che qualche uomo malvagio, rapace e stupido spinga l’umanità nella direzione sbagliata, ma nel fatto che l’umanità è costretta a muoversi in questa direzione nonostante la volontà e i desideri di uomini buoni, generosi e intelligenti.Con l’ovestismo l’Occidente ha sviluppato al suo interno un metabolismo incredibilmente intenso. Ha bisogno di risorse naturali, di mercati di sbocco, di sfere d’investimento dei capitali, di forza lavoro a basso costo, di fonti di energia, ecc., in misura sempre crescente. Ma le possibilità sono limitate. E compaiono nuovi concorrenti, che limitano ancora di più queste possibilità fino a minacciare l’esistenza e il benessere dell’Occidente. La spinta dell’Occidente al dominio mondiale, qualsiasi veste ideologica indossi, è il bisogno vitale di conservare le posizioni raggiunte e sopravvivere in condizioni storiche rischiose. L’intero sviluppo storico induce l’Occidente a perseguire un ordine mondiale rispondente ai suoi interessi. E ha le forze per farlo. Durante la guerra fredda l’Occidente aveva elaborato una strategia politica, volta a stabilire un nuovo ordine conforme alla nuova situazione mondiale.


Io l’ho denominata “occidentalizzazione” (“wetsernizzazione”).L’occidentalizzazione è l’aspirazione del’Occidente a rendere gli altri paesi simili a sé per ordinamento sociale, sistema economico e politico, ideologia, psicologia e cultura. Dal punto di vista ideologico viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente, che ha la sua massima espressione nello sviluppo ella civiltà e nella concentrazione di tutte le virtù concepibili. Noi siamo liberi, ricchi e felici – dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare – e vogliamo aiutarvi a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra.Lo scopo dell’occidentalizzazione è assorbire gli altri paesi nella propria sfera d’influenza, , di potere e di sfruttamento. Assorbirli non con il ruolo di partner a pari potere e diritto – è praticamente impossibile vista la disparità di fatto delle forze -, ma con quello che l’Occidente ritiene più vantaggioso per sé.


Tale ruolo può soddisfare una parte di cittadini dei paesi occidentalizzati, sia oppure per breve tempo. Ma nel complesso, è un ruolo di secondo piano e ausiliario. L’Occidente ha una potenza tale da non consentire la comparsa di paesi di tipo occidentale da esso indipendenti., che minacciano il suo dominio su una parte del pianeta conquistata e, in prospettiva, sull’intero pianeta.L’occidentalizzazione di un dato paese non è solamente un’influenza dell’occidente su di esso, non è semplicemente l’imitazione di singoli fenomeni del modo di vita occidentale, non significa utilizzare i valori prodotti dall’Occidente, non è la possibilità di viaggiare in Occidente, ecc., ma è qualcosa di molto più profondo e importante per esso. È la ristrutturazione delle sue stesse fondamenta, della sua organizzazione sociale, del sistema di governo dell’ideologia, della mentalità della popolazione. Queste trasformazioni non sono fini a se stese, ma sono un mezzo per ottenere quanto abbiamo detto prima.L’occidentalizzazione non esclude la volontà dei paesi occidentalizzati, e neanche il desiderio, di percorrere questa via. Proprio a questo aspira l’Occidente: che la vittima predestinata si offra da sola al sacrificio, e che provi, per questo, anche riconoscenza.


A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è unì’operazione attiva dell’Occidente, che non esclude neppure la violenza. La volontà da parte dei paesi occidentalizzabili non significa che tutta la loro popolazione accetti già questo orientamento della propria evoluzione. All’interno vi sono categorie in lotta a favore o contro l’occidentalizzazione. L’occidentalizzazione non sempre riesce a spuntarla, come, ad esempio, è successo in Iran e in Vietnam.L’intera attività di liberazione e di civilizzazione dell’Occidente ha avuto in passato un unico scopo: la conquista del mondo per sé e non per gli altri, l’assoggettamento del pianeta ai propri interessi e non a quelli altrui. Ha trasformato tutto ciò che lo circonda, perché gli stessi paesi occidentali potessero viverci comodamente. Quando qualcuno ha cercato di ostacolarlo, non ha avuto scrupoli a ricorrere a qualsiasi mezzo. Il percorso storico del mondo è stato costellato di violenza, truffa e rappresaglia. Adesso le condizioni sono cambiate. L’Occidente è ormai diverso. Ha mutato la propria strategia e tattica. La sostanza però non è cambiata. Del resto non può essere diversamente, perché è una legge della natura. Ora, l’Occidente propugna la soluzione pacifica dei problemi, perché quella militare è pericolosa, e i metodi pacifici gli creano una reputazione di arbitro supremo e giusto.


Tali metodi pacifici hanno una particolarità: sono pacifico-coercitivi. L’Occidente ha una potenza economica, propagandistica ed economica sufficiente a costringere i recalcitranti con metodi pacifici a fare ciò che gli serve. L’esperienza dimostra che i mezzi pacifici possono essere integrati da quelli militari. Per questo motivo, qualunque sia la fase iniziale dell’occidentalizzazione di questo o quel paese, si evolverà comunque in un’occidentalizzazione forzata.Per operare l’occidentalizzazione è stata messa a punto una tattica speciale. Vengono utilizzati i seguenti provvedimenti. Gettare discredito su tutti i principali attributi dell’ordinamento sociale del paese da occidentalizzare. Destabilizzarlo. Favorire la crisi dell’economia, dell’apparato statale e dell’ideologia. Dividere la popolazione in gruppi reciprocamente ostili, disgregarla, sostenere qualsiasi movimento d’opposizione, corrompere l’élite intellettuale e gli strati privilegiati. Contemporaneamente, propagandare i pregi della vita occidentale. Incitare la popolazione a invidiare l’abbondanza occidentale. Creare l’illusione che quest’abbondanza sia raggiungibile anche da esso in brevissimo tempo se si porrà sulla via delle trasformazioni seguendo i modelli occidentali. Contagiarlo con i vizi della società occidentale, presentandoli come manifestazioni di autentica liberà individuale. Aiutare economicamente il paese solo nella misura in cui ciò favorisce la distruzione della sua economia e la rende dipendente dall’Occidente,m mentre l’Occidente appare come suo disinteressato salvatore dai mali del modello di vita recedente.


L’occidentalizzazione è una forma particolare di colonialismo, in seguito al quale nel paese colonizzato si crea un modello sociopolitico di “democrazia coloniale” (secondo la mia terminologia),. Per alcuni tratti è la continuazione della vecchia strategia coloniale dei paesi occidentali, soprattutto della Gran Bretagna. Ma nel complesso è un uovo fenomeno, tipico del mondo contemporaneo. La sua paternità può essere attribuita, a ragion veduta, agli Usa.La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi colonizzati, in virtù delle condizioni interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico. È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta dai metodi del colonialismo. Inoltre, il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.Il paese avulso dal precedente sistema di rapporti mantiene una parvenza di sovranità. Con esso si stabiliscono rapporti di partenariato apparentemente alla pari. Gran parte della popolazione mantiene alcuni aspetti del modo di vivere precedente. Si creano oasi economiche di modello quasi occidentale., sotto il controllo delle banche e delle compagnie occidentali, nonché imprese esclusivamente occidentali o miste.


Ho usato la parola “quasi”, poiché queste oasi economiche sono solo un’imitazione dell’economia occidentale moderna.Al paese vengono imposti attributi esteriori del sistema politico occidentale: multipartitismo, parlamento, libere elezioni, presidente, ecc. In realtà sono solo la copertura di un sistema affatto democratico, ma piuttosto dittatoriale (“autoritario”). Lo sfruttamento del paese nell’interesse dell’Occidente avviene con l’aiuto di una parte irrilevante della popolazione, che si nutre di questa funzione. Questi uomini hanno un elevato livello di vita, paragonabile a quello dei più ricchi strati dell’Occidente.Il paese da colonizzare viene ridotto in uno stato tale che non può più funzionare autonomamente. Viene poi smilitarizzato fino a non essere più assolutamente in grado di opporre resistenza. Le forze armate servono solo a contenere le proteste della popolazione e a circoscrivere i tentativi dell’opposizione di cambiare lo status quo.La cultura nazionale scade a un livello pietoso. Il suo posto viene occupato dai campioni più primitivi di cultura, o meglio, di pseudocultura occidentale. Alle masse vengono concessi: un surrogato della democrazia sotto forma di libertinaggio, una blanda sorveglianza da parte delle autorità, accesso ai divertimenti, un sistema di valori che affranca gli uomini dalla necessità di controllarsi e dalla morale.»



Come si vede, la posizione di Zinov’ev non è moralistica, poiché egli sgombra li terreno della storia dalla morale fin dall’inizio e sostiene (un residuo dell’hegelismo e dello stesso marxismo?) che la direzione della storia è quella che è, e pertanto che sarebbe vano deprecare certe conseguenze, una volta compresa la “necessità” delle premesse.Ciò non toglie che la sua analisi sia lucida, penetrante, quasi spietata. Zinov’ev è un formidabile demistificatore: leggendo le sue pagine, non si può fare a meno di correre col pensiero all’Afghanistan, all’Iran, a tutti quei casi nei quali la posta in gioco del conflitto con l’Occidente è, appunto, l’occidentalizzazione, intesa come omologazione totale di quei Paesi ai valori, ai sistemi economici e finanziari, alla mentalità occidentale; ossia, allo scardinamento irreparabile dei precedenti sistemi social, economici e culturali, attuato nell’interesse di una parte minoritaria della popolazione e a danno della maggioranza di essa.


La democrazia, il parlamentarismo, non sono che specchietti per le allodole. Oppure qualcuno pensa davvero che il corrotto Kharzai sia preferibile al mullah Omar, non per l’egoistico tornaconto dell’Occidente, ma per gli interessi reali del popolo afghano? E che dire del tam-tam mediatico scatenato dall’Occidente intorno all’opposizione interna iraniana, spingendo migliaia di studenti a farsi massacrare dai Guardiani della Rivoluzione di Teheran, nell’interesse e col denaro dei servizi segreti occidentali, americani in primis?C’è tuttavia una precisazione da fare, secondo noi, riguardo alle riflessioni sviluppate da Zinov’ev in merito al termine e al concetto stesso di “occidentalizzazione”.Da buon russo, Zinov’ev considera “Occidente” tutto ciò che sta ad ovest della Russia, a cominciare dalla Polonia; e, d’accordo con la terminologia invalsa già da alcuni decenni, non distingue affatto tra Europa centro-occidentale e l’entità Stati Uniti-Canada; anzi, è fuori di dubbio che egli vi includa mentalmente anche l’Australia e la Nuova Zelanda.Questa, però, è una grossolana semplificazione.


Per un Italiano, un Francese o un Tedesco, “Occidente” è un termine ambiguo, che accomuna come se fossero omogenee, delle parti profondamente differenziate. Proponiamo pertanto che non si parli di “occidentalizzazione” del mondo, ma di “americanizzazione” : processo che è iniziato durante la prima guerra mondiale e che ha ricevuto la spinta decisiva durante la seconda, per poi proseguire “a tappeto” nella seconda metà del Novecento, grazie non solo al Piano Marshall, ma anche a Hollywood, al “blues”, al “jazz”, al “rock and roll”, alla televisione, alla pubblicità, a Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, alla bomba atomica, alla Coca-Cola, al chewing-gum, alla conquista della Luna, alla “gioventù bruciata”, al mito scintillante di Manhattan e di Las Vegas, alla rivolta di Berkeley.L’Italia, per esempio: cuore della civiltà europea per almeno tre volte – con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e con il Rinascimento – non è diventata “Occidente” se non a partire dalla seconda guerra mondiale: prima con i devastanti bombardamenti arerei dei “liberatori” criminali, nel 1943-45; poi con il pane bianco, le sigarette e i dollari “generosamente” profusi dagli Usa per la ricostruzione; infine con il mito del “boom” economico e la distruzione della civiltà contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.


Lo schema è sempre lo stesso: prima la seduzione culturale dell’american way of life, della musica leggera, del cinema (come è avvenuto tra le due guerre); poi l’attacco armato, brutale, spietato, scientificamente distruttivo; infine, di nuovo, l’invasione culturale, resa ancor più irresistibile dall’alone di gloria che sempre circonfonde i vincitori di turno. È lo stesso schema che abbiamo visto in atto nell’Afghanistan, dopo il 2001: come gli Afghani, anche noi abbiamo sperimentato i tre tempi: seduzione culturale; guerra e bombardamenti; invasione economico-finanziaria e nuova, definitiva ondata culturale.Sarebbe ora di distinguere fra “Occidente” ed “Europa”. L’Europa, come giustamente affermava De Gaulle, va dall’Atlantico agli Urali. Comprende la Russia (senza la parte asiatica), di certo non comprende gli Stati Uniti e il Canada; a nostro avviso, inoltre, comprende solo in parte la Gran Bretagna. Il Canale della Manica è molto più largo di quel che non dica la geografia: fin dai tempi di Elisabetta Tudor, anzi fin dai tempi della Guerra dei Cent’Anni, per gli Inglesi l’Europa è “il continente”, una trascurabile appendice della loro inimitabile isola; per loro (ed hanno perfettamente ragione), gli Stati Uniti sono molto più vicini della Francia o dell’Olanda, in tutti i sensi; per non parlare dell’Ungheria, della Svezia o della Russia.Loro guidano a sinistra; non si sentono veramente europei, ma isolani; l’Europa è quel continente che hanno sempre cercato di tenere diviso, indebolito, pieno di rancori, per poterlo meglio dominare finanziariamente ed economicamente.Quando non ci sono più riusciti con le sole loro forze, a partire dal 1917, hanno chiesto aiuto ai loro nipotini americani.


Anche noi siamo stati occidentalizzati, caro Zinov’ev, nel senso di americanizzati: col bastione e con la carota; e anche noi, da ultimo, lo abbiamo fatto con zelo, con entusiasmo, addirittura con frenesia.

Francesco Lamendola su ariannaeditrice.it
Pubblicato da Raffaele Langone a 16.17 Invia tramite email Postalo sul blog Condividi su Twitter Condividi su Facebook Condividi su Google Buzz 0 commenti:

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