Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

mercoledì 24 febbraio 2010

Sandro Pertini ricorda alla Camera Fernando Santi

Istituto Fernando Santi






Il ricordo di Sandro Pertini
Discorso pronunciato alla camera dei deputati, nella seduta del 23 ottobre 1969



"Onorevoli colleghi, raccogliamoci nel ricordo di Fernando Santi.
Non debbo lasciarmi andare sull'onda della commozione, altrimenti la parola si spegnerebbe sulle labbra. Ma quanti ricordi sorgono dal fondo dell'animo mio e incontro mi vengono come antichi amici. Sono tappe di un vasto arco di tempo che va dagli anni venti ad oggi. Allora eravamo giovani entrambi e contestavamo, ma contestavamo in nome di un’alta idea.
Egli, adolescente, aveva già preso il suo posto nel partito, nella sua Parma, sorretto da una fede vigorosa, da una viva intelligenza e dalla tenace devozione alla classe operaia, di cui sin

da ragazzo aveva conosciuto per esperienza personale la grama esistenza fatta di stenti, di rinunzie. Scriverà più tardi, costretto ancora ad una vita difficile: "Quella nuda povertà era cosa per me naturale. Mio padre l’aveva ereditata da suo padre e suo padre dal padre di suo padre. Di mia madre non dico. I suoi erano braccianti della bassa verso il Po, gialli di secolare polenta Sotto la scorza nera dell'aria e del sole. Fin da bambina aveva preso ad andare per i campi, quando l'estate chiama tutte le braccia o a spigolare grano o in cerca di radicchio selvatico per la cena. Le lunghe serate le passava al telaio, un telaio di legno sul quale tesseva una ruvida tela. Fu quella I 'unica cosa che portò mia madre in dote. L'inverno andava a servire in città e fu li che conobbe mio padre ferroviere. Si vollero presto bene".
Fernando Santi non dimenticherà mai quell'amara esperienza. Più di tutti noi, sapeva comprendere che cosa voglia dire la miseria, un salario insufficiente alle necessità di una famiglia, l'ansia di uscire da condizioni così avvilenti e di tendere ad un riscatto che consenta ad ogni creatura umana di vivere dignitosamente.
Con quel ricordo della sua infanzia, che mai l'abbandonerà, partecipa alle lotte della rovente Parma d'oltre torrente. Ed è a fianco dei braccianti della bassa padana, a contatto con la miseria, ch'è stata la miseria sua, di suo padre e di sua madre, ch'egli si forma. Si getta nella lotta con assoluta dedizione e quale segretario della Camera del Lavoro diventa una guida sicura per la sua gente.
Ma prove più dure attendono il movimento operaio parmense. Ed ecco Fernando Santi battersi sulle barricate erette dal popolo di Parma contro le orde fasciste e dalle colonne del quotidiano Il Piccolo con la sua penna di vero scrittore.
Ormai restare a Parma per lui vorrebbe dire la morte. Va a Torino a reggere quella Camera del Lavoro e poi a Milano. La sua attività non ha tregua. Resta al suo posto liberamente scelto e affronta con sereno coraggio la violenza fascista.
Esule in patria, si fa rappresentante di commercio per portare a casa un po’ di pane e ai compagni la sua parola di propagandista clandestino.
Conosce il carcere, l'ultima volta a San Vittore nel 1943. Coopera alla ricostruzione del partito socialista, ma per sfuggire ad un nuovo arresto si rifugia nella libera Svizzera. Nel 1944 partecipa all'insurrezione ossolana e alla costituzione di quella piccola repubblica sorta per volontà e virtù di popolo, primo faro di libertà acceso nell'Italia oppressa. Rientrato a Milano nell'aprile 1945 si getta nell’insurrezione.
Il resto della sua vita di sindacalista, di parlamentare, di uomo di partito è a voi tutti noto perché io lo ricordi.
Desidero solo mettere in luce il suo modo d'intendere la politica, la sua coscienza di uomo libero, la forza della sua intelligenza. Egli si diceva "riformista"; ma soggiungeva. "Perché appunto voglio le riforme". Un giorno, in uno dei suoi discorsi, chiari e limpidi come il suo spirito, parlò dei riformisti, alla cui scuola era cresciuto: "Nobile stirpe - disse - che si è estinta senza lasciare eredi". Non è vero. Lui era l'erede di quella "nobile stirpe".
Riformista era perché voleva - ripeto - le riforme; e socialista era, ma per un socialismo dal volto umano. Per un socialismo che mai astraesse dall'uomo, dalla sua dignità e dall'esigenza insopprimibile della libertà. Ascoltiamo ancora lui; ci sembrerà di sentirlo vicino a noi come un tempo: "Solo chi ha fame - disse un giorno - apprezza il sapore del pane, solo chi ha sete di giustizia sa dare alla giustizia il suo vero volto: giusto e umano. "Il benessere che vogliamo conquistare per i lavoratori non è fine a se stesso. E' una condizione per una dignità più umana e sociale senza la quale l'uomo - che per noi è il fine di tutte le cose - si sente lo stesso umiliato e offeso, estraneo al consorzio civile, nemico agli altri e a se stesso".
Bramava dire che così si era fatto alla scuola dei maestri di vita come Filippo Turati, Claudio Treves, Camillo Prampolini. Ed aveva ragione di affermare questo non solo per rivendicare un privilegio, ma anche per rispondere a chi con sufficienza definiva "romantici" questi socialisti che come lui erano persuasi non potersi avere socialismo senza libertà.
"Romantici", uomini come Fernando Santi che con fermezza seppero battersi; che hanno sempre pagato di persona; che il partito hanno servito senza mai servirsene e che non consideravano la politica quale occasione propizia per ottenere poltrone e prebende, ma quale missione d'assolvere solo nell'interesse della classe lavoratrice e del paese. Così, proprio un "romantico" come Fernando Santi rifiuta il Ministero del lavoro pur di non scendere a compromessi con la propria coscienza.
Questa sua concezione umana del socialismo lo portò ad essere comprensivo verso chi la sua fede non condivideva. Non era un fazioso e non considerò né il suo partito né se stesso depositari della verità assoluta. Non apparteneva alla categoria di chi vuole che la lotta politica sia non un fecondo e aperto confronto di idee bensì un contrasto di rancori personali. Riprendendo un brano d'un suo nobilissimo discorso, oggi quando si parla di Fernando Santi giustamente si dice: "Di lui ci potevamo fidare".
Ma di lui si potevano fidare non solo i compagni, i lavoratori, cui dedicò tutto se stesso, ma anche gli avversari. Perché' Fernando Santi ha sempre combattuto a visiera alzata, lealmente. Ricordo quando qui, a Montecitorio, andò ad inchinarsi dinanzi alla salma di un avversario di sempre, spentosi improvvisamente mentre parlava in quest'aula. Un collega gli rimproverò quel gesto di cavalleresca pietà. Egli bruscamente - come era uso fare quando udiva affermazioni assurde -gli rispose: "Solo uomini di sincera fede possono fare quello che ho fatto io. E poi l'avversario io lo combatto quando è in piedi non quando è caduto".
Questo suo umano modo di sentire lo portava ad ascoltare quanti si battevano in nome dei principi per lui essenziali. Egli era persuaso che uomini provenienti da sponde differenti potessero incontrarsi su un comune terreno, il terreno della libertà, della giustizia sociale, della pace. Era, quindi, contrario a steccati fra i partiti, che pur essendo animati da ideologie diverse, potevano, tuttavia, riconoscersi in codesti principi, i quali, in buona sostanza, costituiscono il porto di salvezza di questa nostra inquieta umanità.
Da qui la sua costante aspirazione del sindacato unico. Egli, che nell'azione sindacale aveva dato il meglio di sé stesso, legandosi sempre più al movimento operaio, sentiva che la forza della classe lavoratrice risiede soprattutto nella sua unità. Peraltro dinanzi ai lavoratori, al di sopra dei confini ideologici, stanno gli stessi problemi e quindi le soluzioni non possono non essere comuni.
Ascoltiamo ancora una volta la sua parola, che vivrà nel cuore dei lavoratori e di quanti si battono per il riscatto della classe lavoratrice: "Il sindacato nel suo significato storico è anzitutto un fatto di democrazia e di libertà, un fatto di civiltà, una immensa forza liberatrice".
Fernando Santi sarebbe stato il più degno a tenere a battesimo l'unità sindacale. E forse quando l'amarezza per l'irriconoscenza altrui si faceva in lui più pungente, lo confortava il pensiero di poter essere egli il segretario generale del sindacato unico. Tutti l'avrebbero accettato, perché tutti in lui si sarebbero riconosciuti. Ecco perché a Parma uomini di partiti diversi e di diversa estrazione ideologica si trovarono così strettamente uniti intorno al suo feretro.
Onorevoli colleghi, sentiamo e sentiremo per lungo tempo la sua mancanza. Quando uomini come Fernando Santi se ne vanno per sempre, portano via con se qualche cosa di noi stessi e noi ci sentiamo più soli. Lo faremo rivivere nel nostro ricordo: faremo rivivere l'uomo di fede dalla coscienza retta, dal forte ingegno. Scrittore nato, oratore efficacissimo, che ripugnava all'oratoria paludata, perché considerava una offesa verso i semplici non parlare in modo semplice. Ricorderemo anche la sua ironia che non risparmiava alcuno. Eppure nessuno di noi gliene voleva per questo, perché sapevamo che la sua ironia non era mossa da malanimo.
Ricorderemo la sua amarezza - che per pudore celava nell'animo suo - quando non fu più rieletto. Crudeltà spietata di uomini e di partiti che spesso si ripete. Ricorderò, io, le visite che quasi quotidianamente gli facevo quando fu ricoverato al policlinico di Roma, colpito da male inesorabile. In quelle visite era tra noi risorta la nostra antica fraterna amicizia, libera delle scorie della politica. E dopo aver sentito dai sanitari la verità del suo male, dovevo usare violenza all'animo mio, colmo di tristezza, per entrare nella sua camera sorridendo. Parlavamo di tutto e di tutti. Un mattino non lo trovai più nella solita stanza. Era stato trasportato a Parma
Ai primi di settembre ricevetti una sua lettera: "Sono venuto a Parma per vedere di passare il punto dalla malattia alla convalescenza. Ma niente si vede ancora in questa direzione". Il suo destino l'ha portato a morire nella sua terra, fra la sua gente.
Sino all'ultimo fu assistito dai suoi figlioli Piero e Paolo e dalla compagna di sua vita Maria. Compagna della sua vita e della sua lotta, coraggiosa, fiera del suo Nando; sempre al suo fianco a condividere sacrifici, delusioni, persecuzioni. E senza mai lagnarsi.
Fernando Santi lasciò scritto di sua moglie Maria, da poco a lui sposata: "Quella della casa restava la pena maggiore di mia moglie. Non ci arriverò mai ad avere un abbaino tutto per noi. Per i poveri non c’è proprio fortuna. Lo diceva rassegnata senz’ombra di rimprovero". Dolce e forte compagna di Fernando Santi, oggi, in quest’aula, ove tante volte si è levata serena e pacata la sua nobile parola, noi tutti - amici compagni avversari - lo ricordiamo con affetto e con riconoscenza.
Con riconoscenza, onorevoli colleghi, perché Fernando Santi, nato povero e morto povero, ha lasciato a noi tutti una ricchezza: il suo esempio.

http://www.ossimoro.it/santi.htm

ricordo di sandro pertini

Ricordo di Sandro Pertini

Sandro Pertini è stato il migliore Presidente della Repubblica ma anche e sopratutto una grande anima di socialista e, potrei dire, di italiano nel senso che riassumeva dentro di sè le doti più belle
di una nazione che, dopo di lui, ha ripreso a sfasciarsi. Nel Partito non era molto amato dal gruppo dirigente. Era considerato impolitico, veemente, insomma non un maestro. Ma si trattava di un giudizio sbagliato che riguardava più la tecnica e la manovra della politica che la politica stessa. Se questa è vibrazione all'unisono con il sentimento popolare, ebbene Pertini era politico assai di più di quanto lo fossero tanti altri. E' diventato Presidente della Repubblica contro la volontà di Craxi che arrivò a contrapporgli Antonio Giolitti nella speranza che i comunisti cessassero di appoggiarlo. Nel luglio sessanta, quando l'Italia fu in bilico per il mostro fascista che alleva da sempre nel suo ventre, nelle terribili giornate convulse e pericolose, era pronto a contribuire ad un movimento di lotta, se necessario anche armata per contrastare le voglie del duo Gronchi-Tambroni. Ricordo che da Genova lanciò un vibrante appello antifascista ad una Italia che era già in piazza, pronta a difendere la sua libertà.
Nel 56 venne ad Agrigento per un comizio. Alloggiò in un albergo situato all'ingresso della città e per tutta la notte ne vegliammo a turno il riposo temendo che subisse un attentato. Allora i
politici giravano senza scorta e comunque non credo che l'avrebbe mai voluta. Si assunse la difesa della madre di Salvatore Carnevale al processo contro la mafia di Caccamo che lo aveva trucidato.Era avvocato anche se non esercitò mai la professione tranne che in questa occasione. I mafiosi furono difesi da un famoso avvocato napoletano che poi sarebbe diventato anch'egli Presidente della Repubblica anche se ne fu costretto alle dimissioni da uno scandalo enorme
che allora inquietò l'Italia, lo scandalo Lockheed: Giovanni Leone.
Pertini e Leone rappresentavano al processo Carnevale due Italie che allora si contrapponevano duramente.
Sandro Pertini rappresentava in misura paradigmatica valori che erano l'essenza stessa del socialismo: la coerenza tra la vita e le sue convinzioni. Non piegò mai la testa davanti al fascismo nè volle che lo facesse la madre per chiedere la grazia a Mussolini. Si fece tanti anni di carcere ed aveva cura a stirare i pantaloni da ergastolano piegandoli accuratamente sotto il pagliericcio e di essere sempre in ordine e ben sbarbato. Non voleva dare la soddisfazione al fascismo di averlo ridotto a non avere cura di se stesso. Suggerisco di leggere il suo libro " Sei condanne e due evasioni" per comprendere di quale pasta fosse fatto. Era persona onesta e di grande pulizia morale. Considerava il Palazzo del Quirinale un ufficio al quale si recava dalla sua mansarda di un edificio
in Piazza Fontana di Trevi dove viveva con il grande amore della sua vita Carla Voltolina, partigiana,
giornalista impegnata ed autrice di un libro "Lettere dalla case chiuse" che contribuì al successo della
legge proposta dalla socialista Lina Merlin.
E' ancora per me motivo di orgoglio essere stato nello stesso partito di Sandro Pertini. Un Partito che era molto di più di un'organizzazione di parte perchè incarnava valori generali come la pace, la giustizia sociale, la libertà, la laicità, la dignità dell'uomo che deve essere liberato dalle catene dello sfruttamento e dall'umiliazione di condizioni di vita indecorose. Motivo di orgoglio di aver conosciuto anche persone come Pietro Nenni, Rodolfo Morandi, Emilio e Joice Lussu, Fernando Santi, Riccardo Lombardi che hanno vissuto la politica ed il socialismo con dedizione ed onestà e da statisti facendo della crescita e della diffusione del socialismo sostanza della stessa crescita civile d'Italia. Ma il PSI finisce con la questa generazione. Dal Congresso di Torino in poi, dopo la cancellazione del bellissimo simbolo della falce,martello,libro e sole nascente sostituita dal lugubre garofano ,non è più esistito anche se il nome ha continuito ad essere usato.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

http://cgi.ebay.it/SANDRO-PERTINI-SEI-CONDANNE-DUE-EVASIONI-FASCISMO-LIBRI_W0QQitemZ120514253254QQcmdZViewItemQQptZLibri?hash=item1c0f3591c6

martedì 16 febbraio 2010

Tina Modotti rivoluzionaria internazionalista e grande fotografa

TINA MODOTTI, ARTE VITA LIBERTÀ
EMIGRANTE, OPERAIA, ATTRICE, FOTOGRAFA NEL MESSICO DEGLI ANNI VENTI, ANTIFASCISTA, MILITANTE NEL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE, PERSEGUITATA ED ESULE POLITICA, GARIBALDINA DI SPAGNA.


Nata a Udine il 17 agosto 1896 e deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942.
Dopo l'improvvisa scomparsa, il riconoscimento della personalità umana, artistica e politica di Tina Modotti fu quasi immediato e per alcuni anni la sua vita e la sua opera restarono vive in buona parte dell'America latina. Poi cadde l'oblio, lungo di almeno trent'anni. Inquietanti cause di questo silenzio/rifiuto si possono trovare nel mondo reazionario, nel provincialismo, nel dilagante moralismo di questo secolo, contrari alla valorizzazione di una donna libera e inserita nel grande filone della cultura laica.

La festa di San Valentino all'inizio
del novecento, in Borgo Pracchiuso
a Udine, dove Tina Modotti nacque
il 17 agosto 1896


L'opera di Tina, che si trova in buona parte negli Stati Uniti, venne tenuta nascosta nei cassetti dei Dipartimenti di fotografia per la nefasta influenza del maccartismo che rese impossibile, per molti anni e non solo in America, lo studio e la presentazione di un'artista che aveva creato immagini di qualità e militato nel movimento comunista internazionale.
Anche la Sinistra storica non è esente da disattenzioni nei riguardi di questa friulana d'eccezione.
Oggi sappiamo che non esiste un artista di qualità e un militante di valore, come Tina Modotti, che sia stato trascurato per così lungo tempo dagli storici della fotografia e dalla storiografia politica. Tutto ciò è avvenuto nonostante le novità e il fascino che caratterizzano la sua avventura umana:la sua complessa esistenza appare, con il solo raccontarla, un romanzo.
Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, nasce nel popolare Borgo Pracchiuso a Udine, da famiglia operaia aderente al socialismo della fine Ottocento. Il padre Giuseppe lavora come meccanico e carpentiere, mentre la madre Assunta Mondini fa la cucitrice.

Medaglione fotografico con la madre Assunta Mondini, nel centro e i figli (dall'alto in senso orario): Jolanda, Mercedes, Tina, Benvenuto, Gioconda, Giuseppe.


Diventa emigrante all'età di soli due anni, quando la famiglia si trasferisce nella vicina Austria per lavoro. Nel 1905 rientrano a Udine e Tina frequenta con ottimo profitto le prime classi della scuola elementare. A dodici anni, per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia (sono in sei fratelli), lavora come operaia in una filanda. Apprende elementi di fotografia frequentando lo studio dello zio Pietro Modotti.
Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, dove lavora in una fabbrica tessile e fa la sarta, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy.
Durante una visita all'Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del'Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si unisce nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l'arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d'incontro per artisti e intellettuali liberal.

Anonimo, Tina Modotti, S. Francisco 1918 ca.


Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger's Coat, per la regia di Roy Clement e, in seguito, alcune parti secondarie in altri due film, Riding with Death e I can explain. Si tratta di una esperienza deludente, che decide di abbandonare per la natura troppo commerciale di quanto il cinema propone. Per la sua bellezza ed espressività viene ripresa in diverse occasioni dai fotografi Jane Reece, Johan Hagemayer e, soprattutto da Edward Weston con cui ben presto nascerà un legame sentimentale.
Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo l'affascinerà. Rientra a San Francisco per l'improvvisa morte del padre Giuseppe. Alla fine dell'anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che verrà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo.

San Francisco 1920, da sinistra: Robo marito di Tina, il padre Giuseppe, la sorella Mercedes, Giuseppe Junior detto Joe, non identificato, Benvenuto detto Beppo e Ben, non identificata, Tina e la madre Assunta, non identificata, la sorella Jolanda


A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston (con il figlio Chandler) arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. Uniti da un forte amore, vivono entro il clima politico e culturale post-rivoluzionario, a contatto con i grandi pittori muralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, che appartengono al Sindacato artisti e sono i fondatori del giornale El Machete, portavoce della nuova cultura e, in seguito, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano.
A contatto con la capacità e l'esperienza di Weston, Tina accelera l'apprendimento della fotografia e in breve tempo conquista autonomia espressiva; alla fine del 1924 un'esposizione delle loro opere viene inaugurata nel Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato.
Fra il 1925 e il 1926, in tempi brevi e diversi, tornano a San Francisco, dove Tina incontra la madre ammalata, conosce la fotografa Dorothea Lange, acquista una camera Graflex. Rientrati in Messico intraprendono un viaggio di tre mesi nelle regioni centrali a raccogliere immagini per il libro di Anita Brenner Idols Behind Altars. Il loro legame affettivo si deteriora e Weston torna definitivamente in California; i contatti continueranno per alcuni anni in forma epistolare.
Tina vive con la fotografia ed esegue molti ritratti, si unisce al pittore e militante Xavier Guerrero (che ben presto andrà a Mosca alla scuola Lenin), aderisce al Partito Comunista, lavora per il movimento sandinista nel Comitato "Manos fuera de Nicaragua" e partecipa alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conosce Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern.

Edward Weston, Tina sul tetto di casa, Messico 1924


Tina Modotti, Vittorio Vidali, 1930


Tina trasforma il suo modo di fotografare, in pochi anni percorre un'esperienza artistica folgorante: dopo le prime attenzioni per la natura (rose, calli, canne di bambù, cactus, ...) sposta l'obiettivo verso forme più dinamiche, quindi utilizza il mezzo fotografico come strumento di indagine e denuncia sociale, e le sue opere, comunque realizzate con equilibrio estetico, assumono di frequente valenza ideologica: esaltazione dei simboli del lavoro, del popolo e del suo riscatto (mani di operai, manifestazioni politiche e sindacali, falce e martello,...). Sue fotografie vengono pubblicate nelle riviste Forma, New Masses, Horizonte. In questo periodo conosce lo scrittore John Dos Passos e l'attrice Dolores Del Rio, ed entra in amicizia con la pittrice Frida Kahlo.
Nel settembre del 1928 diventa la compagna di Julio Antonio Mella, giovane rivoluzionario cubano, con cui Tina vive un amore profondo e al cui fianco intensifica il lavoro di fotografa impegnata e di militante politica.

Edward Weston, Frida Kahlo e Diego Rivera a San Francisco nel 1930


Ma il loro legame dura pochi mesi, perché la sera del 10 gennaio 1929 Mella viene ucciso dai sicari del dittatore di Cuba Gerardo Machado proprio mentre sta rincasando con Tina, che rimane indignata e scossa da questo dramma e deve inoltre subire una campagna scandalistica con cui le forze reazionarie tentano di coprire mandanti ed esecutori del delitto politico. Partecipa alle manifestazioni in ricordo di Mella e, in segno di protesta, rifiuta l'incarico di fotografa ufficiale del Museo nazionale messicano. Si dedica alla militanza e al lavoro fotografico, realizzando un significativo reportage nella regione di Tehuantepec. All'Università Autonoma di Città del Messico il 3 dicembre si inaugura una rassegna delle sue opere, che si trasforma in atto rivoluzionario per il contenuto e la qualità delle fotografie e per l'infuocata presentazione tenuta dal pittore Siqueiros. La rivista Mexican Folkways pubblica il manifesto "Sobre la fotografia" firmato da Tina Modotti.

Tina Modotti accanto alle sue opere, Università di Città del Messico 1929
Nel frattempo il clima politico é molto cambiato, le organizzazioni comuniste vengono messe fuori legge: il 5 febbraio 1930 Tina viene ingiustamente accusata di aver partecipato a un attentato contro il nuovo capo dello Stato, Pasqual Ortiz Rubio, arrestata ed espulsa dal Messico. Si imbarca sul piroscafo olandese Edam, compie il viaggio fino a Rotterdam assieme a Vittorio Vidali e raggiunge Berlino, dove conosce Bohumìr Smeral, fondatore del Partito comunista di Cecoslovacchia, lo scrittore Egon Erwin Kisch e la fotografa Lotte Jacobi nel cui studio espone le opere che aveva portato con se dal Messico. tenta di riprendere l'attività fotografica, viene a contatto con le grandi novità dell'informazione giornalistica, specialmente con la stampa popolare di Willy Münzerberg: quotidiani e periodici come il prestigioso "Arbeiter - Illustrierte - Zeitung" che pubblica fotografie di Tina in diverse occasioni. In ottobre decide di partire per Mosca, dove la attende Vidali.
Nella capitale sovietica allestisce la sua ultima esposizione, lavora come traduttrice e lettrice della stampa estera, scrive opuscoli politici, ottiene la cittadinanza e diventa membro del partito; abbandona la fotografia per dedicarsi alla militanza nel Soccorso Rosso Internazionale. Fino al 1935 vive fra Mosca, Varsavia, Vienna, Madrid e Parigi, per attività di soccorso ai perseguitati politici.

Una delle pochissime fotografie che si conoscano di Tina Modotti in Unione Sovietica, fotografia di Angelo Masutti, Mosca, 13 giugno 1932


Nel luglio del 1936, quando scoppia le guerra civile spagnola, assume il nome di Maria e si trova a Madrid assieme a Vittorio Vidali, suo compagno da anni, che diventa Carlos J. Contreras, Comandate del Quinto Reggimento.
Durante tre anni di guerra, lavora negli ospedali e nei collegamenti, stringendo amicizia con altre combattenti come Maria Luisa Laffita, Flor Cernuda, Fanny Edelman, Maria Luisa Carnelli; si dedica ad attività di politica e cultura: scrive sull'organo del Soccorso Rosso Ayuda, nel 1937 a Valencia fa parte dell'organizzazione del Congresso internazionale degli intellettuali contro il fascismo e, assieme a Carlos, promuove la pubblicazione di Viento del Pueblo, poesia en la guerra con le opere del poeta Miguel Hernandez. Ha occasione di conoscere Robert Capa e Gerda Taro, Hemingway, Antonio Machado, Dolores Ibarruri, Rafael Alberti, Malraux, Norman Bethune e tanti altri della Brigate internazionali. Nel 1938 è tra gli organizzatori del Congreso Nacional de la Solidariedad che si tiene a Madrid.

Tina Modotti, Il profilo di Ja. Mella, fotografia pubblicata nel 1932 a Berlino sulla copertina di Arbeitre-Illustrierte-Zeitung


Durante la ritirata, con la Spagna nel cuore, aiuta i profughi che si avviano alla frontiera e si trova in pericolo sotto i bombardamenti. Arriva a Parigi con Vidali. Nonostante sia ricercata dalla polizia fascista, chiede alla sua organizzazione il permesso di trasferirsi in Italia per svolgere attività clandestina, ma le viene negato per la pericolosità della situazione politica.
Maria e Carlos, come tanti altri esuli, rientrano in Messico, dove il nuovo presidente Lazaro Cardenas annulla la precedente espulsione. Conducono un'esistenza difficile e Tina vive facendo traduzioni, si dedica al soccorso dei reduci, lavora nell'"Alleanza internazionale Giuseppe Garibaldi" e frequenta pochi amici, fra cui Anna Seghers e Constancia de La Mora.
Nella notte del 5 gennaio 1942, dopo una cena con amici in casa dell'architetto Hannes Mayer, Tina Modotti muore, colpita da infarto, dentro un taxi che la sta riportando a casa. Come già era accaduto dopo l'assassinio di Julio Antonio Mella, la stampa reazionaria e scandalistica cerca di trasformare la morte di Tina in un delitto politico e attribuisce responsabilità a Vittorio Vidali.

La tomba di Tina nel Pantheon de Dolores a Città del Messico, con il profilo disegnato dallo scultore Leopoldo Mendez e i primi versi della poesia di Pablo Neruda


Pablo Neruda, indignato per queste polemiche, scrive una forte poesia che viene pubblicata da tutti i giornali e contribuisce a tacitare lo "sciacallo" che

...sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l'anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.

I primi versi sono scolpiti sulla tomba di Tina che si trova al Pantheon de Dolores di Città del Messico. Lungo i decenni dopo la sua scomparsa, in altre occasioni sono stati messi in discussione avvenimenti della vita della Modotti. Soprattutto le circostanze della morte hanno sollecitato interpretazioni diverse, tentativi di scoop giornalistici, ambigue ricostruzioni televisive,... Ciò nonostante la biografia di Tina è rimasta sostanzialmente invariata, perché quelle prese di posizione non sono mai state sostenute da rigorose ricerche, da prove o da obiettive e attendibili testimonianze.

Situata accanto alla casa di Tina in via Pracchiuso a Udine la stele per Tina proposta dal Comitato: si riprende il profilo mentre, da Neruda, sono proposte le ultime quartine della poesia, con riferimenti alla terra natale.



tina@comitatotinamodotti.it

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Gerda Taro una fotografa rivoluzionaria

"Gerda Taro: una fotografa rivoluzionaria nella guerra civile spagnola"
Gerda Taro, rimasta nell'ombra del più noto fidanzato Robert Capa e relegata al ruolo -accessorio- di 'sua compagna' è, dalla metà degli anni '90 del secolo passato, oggetto di un nuovo e forte interesse storico: più che meritato per il suo ruolo di grande figura di giovanissima donna assolutamente contro-corrente, rivoluzionaria militante sino al sacrificio massimo e protagonista della Storia della fotografia e della Resistenza al fascismo.

Gerda Taro il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce da una famiglia di ebrei polacchi. Nonostante le sue origini borghesi, giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e lavoratori. Per questi motivi e per la sua origine ebraica l’avvento del nazismo in Germania le crea molti problemi.
Finisce in carcere in quanto attiva nel Partito Comunista tedesco e subito dopo decide di scappare con un amico a Parigi.

A Parigi conosce André Friedman, un ebreo anch'esso comunista, ungherese, che sbarca il lunario facendo il fotografo. André e Gerda si fidanzano e André le insegna ciò che sa sulla fotografia. Insieme, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, inventano il personaggio “Robert Capa”, un fantomatico ma celebre fotografo statunitense giunto a Parigi per lavorare in Europa. Grazie a questo curioso espediente la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi.

Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola, guerra che inciderà parecchio sulla vita dei due. Giunti in Spagna divennero immediatamente importanti testimoni della guerra, realizzando molti reportage pubblicati in periodici come "Regards" o "Vu."
Nota fra le milizie antifasciste per la sua freschezza, coraggio ed eccezionale bellezza, rischiò sempre la vita per realizzare i propri servizi fotografici.

Gerda Taro e Robert Capa, erano insieme il giorno degli scatti che portarono a The Falling Soldier: quel giorno Gerda usava una Rolleiflex a negativo quadrato, Capa la Leica 35mm.
Fra le immagini dell’esposizione di Gerda Taro, una ritrae i miliziani che salgono sulla collina, sulla sinistra si vede quello che verrà ucciso pochi istanti (e pochi scatti) dopo: vedere questa foto mi ha messo i brividi, emozione che da quel momento, vi assicuro, non mi ha più abbandonato fino all’uscita, in una di queste fredde e piovose mattine d’aprile.


Le foto di Gerda, concepite per narrare la guerra, dalla parte giusta, dalla parte dei repubblicani, hanno tutta la grande forza di chi scatta stando vicino fisicamente ed emotivamente ai propri soggetti.
Gerda Taro morì in Spagna nel 1937 mentre fotografava la battaglia di Brunete, travolta da un carro armato che sbandando finì contro l’auto di un giornalista: lei era in piedi sul predellino laterale e non ebbe scampo. Aveva 27 anni.

Il suo corpo fu traslato a Parigi e accompagnato da 200mila persone fu tumulato al Père Lachaise con tutti gli onori dovuti ad un'eroina repubblicana. Allo scultore Alberto Giacometti venne chiesto di realizzare il tumulo funebre. Pablo Neruda e Louis Aragon lessero un elogio 'in memoriam'.


Il suo compagno Capa non si riprese mai più dalla morte della dolce e vivacissima Gerda, PRIMA DONNA REPORTER A MORIRE SUL LAVORO NELLA STORIA. Da allora anch'egli cercherà sempre la morte sul 'lavoro', incontrandola poi nel 1954 nella guerra di Indocina.
Un anno dopo la morte di Gerda, nel 1938, Robert Capa pubblicherà in sua memoria "Death in the Making", riunendo molte foto scattate insieme.


La sua tomba a Parigi, giace dimenticata nella zona di Pere Lachaise dedicata ai rivoluzionari ed alla Resistenza, vicino al noto 'Mur des Federès'.
Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese colluso con gli occupanti nazisti, 'censurò' l'epitaffio inciso sulla tomba di Gerda, epitaffio mai più restaurato. In oggi la tomba, date le modifiche accorse nel 1953, è accessibile da un viottolo posteriore, quindi posta "alla rovescio" rispetto a quando fu costruita.
La tomba di Gerda Taro --fu l'unica ad essere violata dalla mano nazi-fascista--, forse data la popolarità che ancora la giovane rivoluzionaria, caduta nella guerra contro il fascismo, esercitava sulla crescente Resistenza francese.

Lu Agnello

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lunedì 8 febbraio 2010

breve biografia di Piero Boni

Piero Boni (Reggio Emilia, 1920 – Roma, 28 giugno 2009) è stato un sindacalista e partigiano italiano.
1 L'attività partigiana
2 L'attività sindacale
3 Pubblicazioni
4 Onorificenze


L'attività partigiana
Piero Boni nacque a Reggio Emilia nel 1920. Partigiano con il nome di battaglia di Piero Coletti, prese parte alla difesa di Roma nelle file dell'organizzazione militare del PSI, le Brigate Matteotti. Il 23 luglio 1944 fu paracadutato da un Halifax delle Forze Aeree Britanniche presso il distaccamento I Julia accantonato alla Costa del Lupo presso Borgotaro come membro del gruppo dell'OSS (Office of Strategic Services) dell'esercito americano. Si trattò, in realtà, di un errore del pilota, avrebbe dovuto ritrovarsi a Varzi, nell'oltrepò pavese, e da qui raggiungere Torino, ma ben presto si rese conto del contributo che anche in quel luogo avrebbe potuto dare. Rimase a Compiano fino al 18 novembre del 1944 quando abbandono la località dell'appennino parmense diretto in Garfagnana allo scopo di riprendere contatto con il comando OSS. Compì una marcia di oltre 200 Km. tra le montagne fino ad incontrare, nella notte tra il 23 e il 24 novembre, le prime sentinelle americane. Dopo vari trasferimenti giunse a Siena, sede del comando generale dell'OSS, e lì rimase fino al 27 dicembre, quando ripartì per Compiano. Fu paracadutato verso le 11 del mattino nei pressi del castello. Si ferì lievemente nell'atterrare tra i rami di un castagno. Scampò miracolosamente al rastrellamento effettuato dalle forze nazifasciste nei primi giorni di gennaio del 1945. Nella prossimità della Liberazione, il 23 aprile incontrò sul Santadonna la I Julia diretta a Salsomaggiore Terme. Giunse nella cittadina collinare il 24, il 25 si trovò a Fidenza. Giunse a Parma oramai liberata il 27 aprile 1945.
L'attività sindacale [modifica]
Membro dell'Ufficio sindacale del PSI nel primo dopoguerra, entrò a far parte dell'Ufficio segreteria della CGIL e successivamente dell'Ufficio organizzazione. Nel 1952 venne eletto Segretario generale aggiunto della Federazione chimici e membro del direttivo CGIL. Nel 1955 venne eletto membro del comitato centrale del PSI e divenne vicesegretario della CGIL. Entrò a far parte in seguito al IV Congresso Nazionale della CGIL, tenutosi nel 1956, dell'esecutivo e della segreteria del sindacato. Nel 1957 divenne segretario nazionale della Fiom. Venne nominato membro del CNEL come rappresentante CGIL nel 1958 e lo rimase finò al 1995. Venne eletto nel 1960 segretario generale aggiunto della FIOM, affiancando così Luciano Lama, ed entrò nell'esecutivo della CGIL. La carica di segretario aggiunto della FIOM gli venne confermata nel 1962 e nel 1964, quando affiancò Bruno Trentin. Venne eletto nel corso del VII congresso della CGIL, tenutosi a Livorno nel 1969, segretario. Nel corso del VIII congresso, tenutosi a Bari nel 1973, venne eletto segretario generale aggiunto della CGIL, carica che mantenne fino al 1977. Proprio nel 1977, dopo essersi dimesso dalla segreteria, assunse la presidenza della Fondazione Giacomo Brodolini. Tra il 1977 e il 1988 fu presidente della commissione lavoro del CNEL e membro del Comitato Economico della Unione Europea. Dal 1982 al 1992 fu docente a contratto presso l'Università La Sapienza di Roma e la Università Federico II di Napoli.
Pubblicazioni [modifica]
Piero Boni, Giorni a Compiano, Compiano Arte e Storia, Compiano 1984. Piero Boni, FIOM: 100 anni di un sindacato industriale, Meta Edizioni, Edisse, Roma 1993.

ricordo di Piero Boni

Ricordo di Piero Boni
L'unità sindacale, l'"erga omnes", la difesa del singolo non in quanto iscritto a un sindacato ma in quanto lavoratore. Le linee guida di un uomo di idee semplici e passioni forti
Umberto Romagnoli
Il nostro ultimo incontro risale ai primi di dicembre del 2008, nel corso di un meeting celebrativo di non ricordo quale compleanno dello Spi-Cgil. L’incontro fu più caloroso del solito, perché erano sopraggiunte le condizioni che permettevano di perfezionare le nostre affinità e di farci sentire più vicini: Piero sapeva che anch’io, ormai, stavo per entrare nella categoria dei pensionati. Come dire che la cornice nella quale ebbe luogo l’incontro non poteva essere più consona al comune status.

Ci eravamo conosciuti, tramite Gino Giugni, una sera d’estate del ’62 nei pressi della sede romana dell’Intersind durante le trattative, di cui Piero era un protagonista, per il rinnovo del contratto della metalmeccanica-Iri che si sarebbero concluse col riconoscimento del principio della contrattazione articolata. Successivamente, ci sono state numerose occasioni per frequentarci: nella scuola di Ariccia, a congressi della Cgil, a convegni di studio ideati e organizzati dalla Fondazione che Piero presiedeva e, tra questi, quello svoltosi a Recanati, ove si tenne la rievocazione commemorativa di Giacomo Brodolini in coincidenza col ventesimo anniversario della sua scomparsa.

Sì, Piero mi cercava spesso e, ripensando al nostro rapporto, mi accorgo adesso che era soprattutto lui a stabilirne natura e cifra stilistica. La motivazione non era solamente la simpatia personale – spontanea quanto reciprocamente subitanea – ma anche la determinazione con cui Piero attribuiva all’esistenza del rapporto una valenza metodologica di carattere generale. Come scriverà nella prefazione di un Quaderno della Fondazione, vedeva con favore la prassi degli incontri tra studiosi e uomini d’azione, perché “hanno l’uno bisogno dell’altro e un loro confronto può riuscire utile e proficuo”. Il clima di cui si giovò la nostra pluridecennale relazione ed in cui essa affondava le sue radici era per l’appunto quello proprio di un sodalizio politico-culturale che ha potuto svilupparsi e consolidarsi sulla base di una disinteressata stima intellettuale. Di essa Piero mi onorava ed io non ho mai smesso di ricambiarla.

Nel lessico corrente è entrata da tempo un’espressione idiomatica che, riferita a lui, perde il sapore banalizzante dei luoghi comuni: Piero Boni era l’esponente di spicco di una razza in via di estinzione; e difatti sindacalisti così non ne nasceranno più. Senza idee semplici e passioni forti il sindacato sarebbe orfano di militanza di base. Ma non avrebbe nemmeno dirigenti carismatici. Come Piero Boni.

Persuaso che la divisione in sigle del movimento sindacale fosse figlia più della guerra fredda che di logiche interne del movimento, una delle sue passioni più forti – più forti delle dure repliche dell’esperienza – aveva per oggetto l’unità sindacale. Un giorno mi disse che, in materia, bisognava assumere come modello il comportamento dei generali francesi dopo Sedan. Anche loro avevano un’idea semplice e una passione forte: riprendersi l’Alsazia e la Lorena. Ci pensavano sempre, ma non ne parlavano mai. Un po’ per non essere sopraffatti dall’amarezza del pathos suscitato dallo struggimento per la perdita di quei territori e un po’ perché sapevano che il sogno non si sarebbe realizzato se non preparandone le condizioni di fattibilità con la discrezione che occorre per destreggiarsi in casi difficili. Nel nostro caso, la principale difficoltà era rappresentata dal cambiamento di segno del tradizionale legame tra sindacato e partito politico che, risolvendosi nella subalternità del primo al secondo, ostacola gravemente l’autonomia collettiva. E’ soprattutto in difesa di quest’ultima che Piero è stato un onesto, instancabile predicatore dell’unità sindacale.

Non meno tenace era la sua predilezione per l’erga omnes promesso dall’art. 39 della Cost.ituzione. Piero la manifestava spesso – ed ha continuato a farlo anche quando, col passare del tempo, si rendeva conto di optare per una soluzione che ai più sembrava fuori moda – perché era convinto che la mancanza di erga omnes facesse soffrire il contratto collettivo di diritto comune, il solo praticabile, come un’anatra azzoppata. In proposito, Piero condivideva l’opinione dei padri costituenti ed in particolare di Vittorio Foa, cui si deve una definizione di sindacato che lo equipara a “un soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato, pur restando un libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato”.

Né Piero né Vittorio hanno mai scritto che la bipolarità del sindacato è simmetrica alla natura duale del contratto collettivo. Entrambi però avevano una concezione normativista del contratto collettivo (nazionale: che era poi la figura nettamente dominante all’epoca della Costituente siccome ereditata dal fascismo giuridico); una concezione che ne fa un prodotto del consenso, ossia un auto-comando, ed insieme il prodotto di un’autorità in bilico tra pubblico e privato, ossia un etero-comando.

In base a tale concezione, largamente diffusa anche nella cultura giuridica, il contratto è assimilabile ad un enorme serbatoio idrico capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica e di far arrivare la corrente elettrica in tutte le case. Diversamente, è altro-da-sé: gli utenti restano al buio e, per farsi luce, devono arrangiarsi con lumi a petrolio; laddove l’erogazione di elettricità è un servizio di cui la società moderna non può privarsi. Come dire che Piero giudicava prioritaria l’esigenza di tutelare i diritti del singolo con riguardo, più che alla sua veste (peraltro, soltanto eventuale) di iscritto ad un sindacato, a quella di destinatario degli effetti dell’azione sindacale.

Naturalmente, non ignorava che, per quanto attiene al sindacato, la disputa sull’attuazione dell’art. 39 non era originata da pretesti. La stagione dello Stato padre-padrone si era chiusa da poco e il movimento sindacale d’una democrazia appena risorta fece bene a tenersene lontano, anche perché meritava la chance – lui così povero di esperienza di libertà – di costruirsi la sua da solo. Fece bene ad imporre allo Stato la regola non-scritta del doppio binario – non ingerenza e non indifferenza – che è la precondizione in assenza della quale l’antica massima ubi societas ibi ius significa soltanto che la società non può fare a meno del diritto. Essa infatti può anche significare che la società produce diritto e che la giuridicità non costituisce più un’emanazione della sovranità statuale.

Ciononostante, Piero era impensierito dalla “discrasia tutta italiana fra costituzione formale e costituzione materiale” nella stessa misura in cui lo rendeva pensoso ogni scostamento dai principi di una sana democrazia: nel mondo occidentale, scriveva nel 1998, “non esiste una situazione come la nostra” e, a cinquant’anni di distanza, “è legittimo interrogarsi se non sia venuto il tempo per il sindacato di trovare una collocazione più adeguata nel quadro istituzionale”.

Fedele a se stesso, Piero ha custodito le sue certezze con l’incrollabile fiducia di chi sa da cosa dipendesse la propria autenticità.
(13/09/2009

Fonte: Eguaglianza e Libertà

E' morto il compagno Antonio Giolitti

ROMA
È morto nella notte, a Roma, Antonio Giolitti. Partigiano, padre costituente, ministro, fu prima iscritto al Pci poi passò al Psi per tornare nelle file del partito comunista nel 1987, per l’ultimo incarico da parlamentare. Avrebbe compiuto 95 anni il 12 febbraio. Fu nipote di Giovanni Giolitti. Per la sua morte hanno espresso cordoglio, tra i primi, Pier Luigi Bersani, Piero Fassino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Antonio Giolitti - scrive quest'ultimo - ha lasciato l’impronta di una personalità di eccezionale levatura culturale e morale nella vita politica e nell’attività di governo.Partecipo con profonda commozione al dolore dei famigliari e al più vasto cordoglio per la sua scomparsa». Per Fassino fu «Un protagonista della storia della Repubblica, della democrazia e della sinistra. Un partigiano combattente che unì la tradizione liberale della sua famiglia prestigiosa con l’ansia di libertà e di giustizia di una nuova generazione».

Nato a Roma nel 1915, dopo la laurea in legge nel 1940 si iscrisse al Pci. L’anno successivo fu arrestato per attività eversiva, poi rilasciato per insufficienza di prove. Con Giancarlo Pajetta fondò le brigate partigiane Garibaldi e nel 1944 rimase gravemente ferito in battaglia. Fu curato in Francia e tornò in Italia nell’aprile del 1945. Ferruccio Parri lo chiamò come sottosegretario agli Esteri.

Nel 1946 fu eletto membro dell’Assemblea costituente, e poi deputato del Pci dal 1948 al 1957. Fu in quell’anno, dopo i fatti d'Ungheria, che Giolitti lasciò polemicamente il partito. «Sono giunto alla grave e amara decisione di uscire dal Pci», scrisse il 19 luglio del 1957, «attraverso una esperienza profondamente meditata e sofferta». A spingerlo alla decisione, «l’interpretazione del marxismo, del XX Congresso e dell’VIII Congresso che emerge da quella polemica e si contrappone a ogni idea innovatrice e a ogni onesto tentativo di ricerca intorno ai gravissimi problemi aperti dal XX Congresso e dai fatti di Polonia e d’Ungheria». Per queste ragioni politiche, spiegò, «e non certo per un puntiglio intellettualistico, io non posso più accettare una disciplina formale che significherebbe rinuncia a battermi per le idee e gli obiettivi che ritengo oggi essenziali alla vittoria del socialismo».


Giolitti passò allora al partito socialista con cui fu rieletto deputato dal 1958 al 1976. Ministro del Bilancio dal 1963 al 1964, dal 1969 al 1972 e dal 1973 al 1974 nei governi di centrosinistra organico guidati da Moro, Rumor e Colombo, fu uno dei principali ispiratori della programmazione economica. Dal 1977 al 1985 fu commissario presso la Comunità economica europea. Ma nel 1985 anche il Psi cominciò a stare stretto a Giolitti che lasciò il partito in polemica con Bettino Craxi. Nel 1987 fu eletto senatore come indipendente del Pci e a fine legislatura, nel 1992, si ritirò dalla politica attiva.

sabato 6 febbraio 2010

tagliare la testa a Di Pietro

Tagliare la testa a Di Pietro
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Mi ha fatto impressione sentire a "prima pagina" di radio tre un giornalista dell'Espresso dell'importanza di Gigi Riva schierarsi nell'affollato partito di pennivendoli e politici che vorrebbero
la morte politica immediata se non fisica di Antonio Di Pietro. Gigi Riva ha messo sulla graticola il nostro sfortunato protagonista di "mani pulite"e lo ha rosolato ben bene alimentando il fuoco e cercando in tutti i modi di sovrastare le difese di qualche ascoltatore della radio.Anche togliendo di mala grazia la parola!
Naturalmente il Signor Riva non si domanda come mai il Corriere della Sera pubblichi una foto vecchia di 18 anni nella quale, in una caserma dei carabinieri, Di Pietro viene ritratto in un grande tavolo da pranzo in cui, assieme a tanti altri, sedeva anche l'alto dirigente di polizia Contrada successivamente incriminato per concorso in associazione mafiosa. Alla obiezione di un ascoltatore
che chiedeva a Riva come mai questa domanda non venisse posta al Comandante dei Carabinieri che aveva organizzato la cena ha risposto malvolentieri arrampicandosi sugli specchi. Ad un'altra domanda che faceva risalire alla denunzia di una vittima di Mario Chiesa amministratore socialista del Pio Albergo Trivulzio che chiedeva ad una delle sue vittime una tangente del dieci per cento per un
appalto di 140 milioni ha risposto rilanciando la tesi complottarda degli USA che per vendicarsi di Sigonella ingaggiano Di Pietro in un'opera di criminalizzazione giudiziaria. Non è ancora chiaro come
il pool di Mani Pulite entri nella congiura se consapevolmente o no. Parlo di Davigo, Borrelli,Boccassini, Greco, Colombo. Anche loro strumenti della Cia? Troveremo anche per loro assegni di 50 mila dollari come quello intestato a Di Pietro e mai riscosso? Naturalmente il fatto che
l'assegno non sia stato riscosso e che pertanto è un pezzo di carta non importa ai nostri massmedia embedded che ogni giorno, guidati dai giornali di Berlusconi, chiedono la testa del capo dell'IDV.
Stupisce molto che una stampa iperamericanista che giustifica anche le più grandi colpe degli USA si accanisca nel denunziare il rapporto che Di Pietro avrebbe avuto con la Cia. Ma la Cia non è un servizio che protegge l'Occidente ed i suoi valori dall'invasione ieri comunista ed oggi islamica e che assicura ordine? La Cia è l'America! Ma pur di attribuire a Mani Pulite una origine strumentale che avrebbe travolto la casta, onesta classe dirigente italiana, oggi si è pronti, almeno per questa questione, a raffigurarla come il Male dal quale sarebbe derivato il crollo della prima repubblica e la disgrazia di tantissimi galantuomini!
Bisogna chiedersi come mai il Corriere della Sera si abbassi al livello dei giornali di Feltri e di Belpietro in una campagna scandalistica basata su una fotografia e su un assegno non riscosso. Che c'è sotto? Quali interessi lo spingono?
Credo che sotto ci sia l'intesa tra PDL e PD sulle cosidette riforme osteggiata da Pietro. Intesa che può saltare dal momento che la posizione ostile di Di Pietro e la sua difesa ad oltranza della Costituzione potrebbe trovare audience nel PD e probabilmente Bersani, D'Alema, Fassino e gli altri non sono in grado di fronteggiarla dal momento che la loro base elettorale non si è corrotta fino al punto di volere uno Stato autoritario quale quello che scaturirebbe dagli accordi sul presidenzialismo
e sulla modifica anche della prima parte della Costituzione. L'Oligarchia del PD non si farebbe scrupoli sulle riforme costituzionali reclamate da Berlusconi come non si è fatta scrupoli nel favorire la estromissione della sinistra e dei verdi dal Parlamento e la sua riduzione ad assemblea nominata da alcune persone che hanno i partiti in mano. Ma non vuole rischiare di perdere gran parte della sua base.
Il PD non se la sente di andare avanti nel grande inciucio che io chiamerei grande complotto contro la democrazia avendo alle spalle la protesta di Di Pietro ed il fosso che questa potrebbe scavare nelle sue fila.
Per questo la campagna contro Di Pietro si è intensificata. Non mancano certo i mezzi al Governo ed al Corriere della Sera di scavare in profondità nel passato e di inventarsi un qualche pezzo di prova se questo non esiste.
Non dubito che la tensione è destinata a crescere ancora. Siamo ad un punto che potrebbe diventare di non ritorno nell'involuzione della politica italiana.
Che Mani Pulite sia diventata, dopo Mario Chiesa, un fiume in piena per le confessioni anche spontanee di tanti socialisti (Larini..) e per la fila enorme di imprenditori che si denunziavano negli uffici della Procura di Milano ai nostri non interessa. Interessa dimostrare che gli USA odiavano Craxi e ne vollero la fine e che per questo ingaggiarono un magistrato come Di Pietro che, secondo Gigi Riva, deve dimostrare la ragione dei suoi viaggi negli USA!!
Accludo un chiaro riassunto della storia di Mani Pulite. Vale la pena leggerlo e rinfrescarsi la memoria.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it


http://it.wikipedia.org/wiki/Mani_pulite

venerdì 5 febbraio 2010

alma cappiello, socialista vera che ha migliorato l'Italia

Agata Alma Cappiello (Milano, 16 gennaio 1948 – Milano, 7 novembre 2006) è stata una avvocata e politica italiana.


Milanese ma di origini partenopee, avvocato civilista, docente di diritto, consigliere comunale nella sua città, deputata socialista dal 1987 al 1992, senatrice dal 1992 al 1994. Componente delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera e del Senato nonché della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali e della Commissione Vigilanza RAI. Coordinatrice della Commissione Nazionale Parità presso la Presidenza del Consiglio. Vicepresidente del Comitato delle Pari Opportunità presso il Ministero del Lavoro. Responsabile femminile delle donne socialiste, nel 2005 aveva scelto di aderire alla politica dei DS. Pubblicista, collaboratrice a quotidiani e riviste, scrittrice. Esperta di diritto, sposò la causa dei diritti civili, diritti della libertà delle persone, in particolare delle donne e dei bambini, degli anziani, degli ultimi. Il suo impegno parlamentare è durato circa 10 anni; a lei si devono alcune tappe importanti del percorso delle Pari opportunità: la legge 125 del 1991 riguardante l'accesso delle donne nel lavoro e la legge 215 del 1992, meglio conosciuta come Legge sull'Imprenditoria femminile. Si occupò delle adozioni, dell'affido e della legge sui Pacs. Nel 1988 iniziò la sua battaglia per il riconoscimento delle coppie gay. Stroncata da un male incurabile, si è spenta a Milano la mattina del 7 novembre 2006. È sepolta nel cimitero di Montemarcello (SP),accanto al figlio Michelangelo.




Opere pubblicate [modifica]
Coautrice dei seguenti volumi:

Codice Donna
Donne e Diritto: due secoli di legislazione sulle donne
Socialismo e movimento delle donne dall'800 al 900
La vela e il vento
La ricchezza delle diversità
Donne e mezzogiorno
Le donne a Pechino: uno sguardo sul mondo
Violenza sessuale: vent'anni per una legge
Autrice del volume:

Infrangere il tetto di vetro - quindici anni di politica per le donne
Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Agata_Alma_Cappiello"

una sentenza assai discutibile

UNA SENTENZA ASSAI DISCUTIBILE

La sentenza del giudice di Milano che condanna i genitori di ragazzi stupratori al risarcimento della loro vittima è assai discutibile e dovrebbe suscitare un dibattito impegnato perchè investe questioni delicate del diritto e della responsabilità. In primo luogo la sentenza attenua fino quasi ad annullare la responsabilità dei minorenni autori del bestiale atto compiuto verso una bambina di 12 anni. Se lo hanno compiuto perchè non hanno ricevuto gli input morali giusti dalla loro famiglia allora
la loro colpa è il prodotto di un qualcosa che li deresponsabilizza. Questo non è accettabile. Se i genitori sono responsabili del delitto compiuto dai loro figli non dovrebbero cavarsela con un risarcimento in denaro ma dovrebbero andare in galera. La logica del ragionamento del giudice non dovrebbe fermarsi a metà, dovrebbe proseguire fino in fondo e trarne tutte le conseguenze. Ma questo è assurdo! La responsabilità penale è sempre personale e non può essere traslata. Non è poi detto che soggetti, educati nelle famiglie più severe, non possano essere autori di atroci delitti. E' accaduto tantissime volte nella storia criminale e continuerà ad accadere. Famiglie assai perbene ed assai rigorose possono produrre piccoli delinquenti che delinquono a partire da input diversi come
la convinzione del sentirsi "superiori" o per razza o per censo. Bisogna inoltre tenere conto che spesso gli stimoli della società verso i minori sono assai più forti della cultura delle loro famiglie. Quante volte abbiamo visto bambini che strillano nei supermercati perchè vogliono assolutamente comprata qualcosa che è stata negata dalle loro mamme ma che hanno visto in televisione e che pretendono? Quanti ragazzi si sentono frustati ed arrivano ad odiare le proprie famiglie perchè non hanno la livrea dei loro compagni di scuola e vogliono mocassini o pantaloni o giubbotti che non si possono permettere e per questo arrivano a rubare o ad estorcere ai più deboli di loro denaro o altro?
La formazione non può essere attribuibile soltanto alle famiglie che oggi non sono mai nelle condizioni di esercitare un controllo vero sui comportamenti dei loro figli. Spesso i genitori lavorano entrambi ed i nonni sono all'ospizio. La famiglia non è più una "società" costituita da diverse generazioni da un pezzo ed il suo peso è minimo nella educazione delle nuove generazioni. Queste sono educate in grande parte dalla scuola e dalla televisione,dai loro coetanei ed anche dai giocattoli
che vengono pubblicizzati dalla tv e che spesso hanno meccanismi di violenza inaudita, ripetitiva, ossessiva. Inoltre i giocattoli stessi sono profondamente cambiati. La mostrificazione degli "eroi" infantili iniziata qualche tempo fa tende ad appesantirsi. L'orco di una volta è un angioletto rispetto a certe figure demoniache in commercio oggi. Inoltre, a comunità coese e solidali nelle famiglie e nei quartieri, si sostituiscono persone isolate e divise per stato sociale e per interessi. Nei quartieri mancano strutture sociali che permettono l'incontro tranne la parrocchia che fornisce comunque momenti di aggregazione sempre più limitati e spesso non appetiti dai ragazzi. Possiamo affermare che i ragazzi di oggi hanno una quantità minore di rapporti sociali e di conoscenze di quelle che hanno avuto le generazioni precedenti. I rapporti sociali si sono rarefatti e spesso si viene passivizzati da ore ed ore di televisione o playstation.
Aggiungo che la società liberista spinge verso la asocialità e la sostituzione della meritocrazia a criteri di coesione e promozione sociale di tutti produce uno stato di conflitto permanente di tutti contro tutti. La competitività non si disgiunge dalla aggressività. La società meritocratica diventa società di predatori dei più forti verso i più deboli, predazione che si può spingere fino allo stupro, al ritorno all' uomo delle caverne che, armato di un grosso randello, trascina la donna per i capelli. L'idea del sesso frutto di predazione violenta è connaturata alla cultura del liberismo asociale nella quale siamo immersi a tempo pieno.
In conclusione: i giovani vanno certamente puniti. Debbono scontare la colpa di quanto hanno fatto
e debbono essere rieducati a non ripeterla. Ma gli istituti di pena per minorenni sono diventati soltanto luoghi in cui si consuma la vendetta sociale. Lo Stato liberista spende sempre meno per loro e non investe niente in progetti rieducativi che non gli interessano. Ognuno per sè in una società che diventa sempre più una giungla o un deserto. Insomma, in attesa del meglio, non cerchiamo uscite comode e facili come quelle di punire i padri per le colpe dei figli.
Pietro Ancona
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giovedì 4 febbraio 2010

nell'anniversario della morte di Nicola

Ricordo di Nicola Capria

Oggi anniversario della morte di Nicola Capria, eminente figura del socialismo siciliano, studioso di problemi sociali e meridionalista, più volte al Governo della Regione e dello Stato. E' stato ricordato dai socialisti siciliani con emozione ed affetto. Gli volevamo bene e siamo rimasti sconvolti per come ha vissuto l'ultima parte della sua esistenza, lontano dalla sua terra che tanto amava. Ricordo che non cessava mai di pensare, di elaborare nuove idee, di esplorare con nuove analisi la realtà. Sebbene sia stato sempre al potere non ha mai assunto la forma mentis del politico professionista che oggi è diventata assai comune nè dell'uomo che esaurisce nell'azione di governo tutta la propria azione. Leggeva sempre di tutto e non cessò mai di dibattere le questioni sociali specialmente legate al meridionalismo.
Sono stato segretario generale della CGIL siciliana ed avevo spesso motivo di incontrarlo per ragioni legate ai lavoratori. Era rispettoso dell'autonomia del sindacato e non si rivolse mai ai sindacalisti socialisti della CGIL in termini di fazione. Sapeva ascoltare le ragioni del lavoro e sentiva profondamente i bisogni delle masse popolari siciliane. Visse il periodo della grande illusione autonomistica della regione-imprenditrice che tuttavia non diede i risultati che avevamo sperato ma che tuttavia resta ancora una valida alternativa. Il metanodotto che da trenta anni fornisce energia all'Italia è stata in gran parte opera del gruppo dirigente siciliano del psi . Nicola Capria ha dato un fondamentale contributo alla sua realizzazione quando gli studi dell'EMS per le condotte sottomarine venivano giudicate avventuriste. . Il metanodotto è stata anche una grande opera di pace che avrebbe potuto dare fecondi sviluppi dell'area del mediterraneo se non fosse stato sottratto del tutto ad una
politica di cooperazione.
Mi piace ricordare che nè Nicola Capria nè il gruppo dirigente siciliano fummo mai craxiani pur non opponendoci alla sua politica. Le radici politiche di Capria ma anche di Lauricella e di quasi tutti noi
furono diverse da quelle che originarono il craxismo. Il socialismo di Capria non era corsaro, non
era rivolto alla conquista purchesia del potere, ma una politica per il lavoro e lo sviluppo del Mezzogiorno. Salvemini e Rodolfo Morandi ispirarono molte delle sue azioni.
Pietro Ancona
socialista e già segretario generale della CGIL siciliana