Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

mercoledì 28 novembre 2007

socialismo e America, Morales

Documento originale Capitalism Has Only Hurt Latin America
Traduzione di Sergio De Simone


4 Settembre 2006Der Spiegel
Il capitalismo ha fatto solo male all'America latinaIntervista a Evo Morales di Der Spiegel.
Evo Morales

Esiste un antico sogno di una grande patria, un sogno che esisteva anche prima della conquista spagnola, e Simón Bolivar ha combattuto in suo nome. Vogliamo un Sud America modellato sull'Unione europea, con una moneta unica come l'Euro, che valga più del dollaro.
Il presidente boliviano Evo Morales, 46 anni, parla a Der Spiegel dei piani di riforma per il suo paese, del socialismo in America latina e delle relazioni spesso tese tra le forze progressiste della regione e gli Stati Uniti.
Signor presidente, perché una parte così grande dell'America latina si sta spostando a sinistra?
L'ingiustizia, la disuguaglianza e la povertà delle masse ci impongono di cercare migliori condizioni. La popolazione indigena della Bolivia, la maggioranza nel paese, è sempre stata esclusa, oppressa politicamente e alienata culturalmente. La nostra ricchezza nazionale, le nostre materie prime, sono state saccheggiate. Gli indios un tempo erano trattati come animali. Negli anni 30 e 40 venivano irrorati di DDT quando entravano nelle città. A mia madre non fu neppure permesso di mettere piede nella capitale della propria regione, Oruro. Ora siamo nel governo e in parlamento. Per me, essere di sinistra significa combattere contro l'ingiustizia e la disuguaglianza ma, soprattutto, cercare migliore condizioni di vita per tutti.
Lei ha convocato una assemblea costituzionale per fondare una nuova repubblica. Cosa dovrebbe essere la nuova Bolivia?
Non vogliamo opprimere né escludere alcuno. La nuova repubblica dovrebbe essere basata sulla diversità, sul rispetto e sull'uguaglianza nel diritto per tutti. C'è un sacco da fare. La mortalità infantile è spaventosamente alta. Quattro dei miei sei fratelli sono morti. Nell'interno, la metà dei bambini muoiono prima di compiere un anno.
Il suo partito, socialista, il MAS, non dispone della maggioranza dei due terzi necessaria per emendare la costituzione. Pensa di negoziare con le altre fazioni politiche?
Siamo sempre aperti al dialogo. Il dialogo è la base della cultura indigena e non vogliamo farci nemici. Avversari politici e ideologici, forse, ma non nemici.
Perché ha sospeso temporaneamente la nazionalizzazione delle risorse naturali, uno dei progetti più importanti della sua amministrazione? La Bolivia manca forse delle competenze per estrarre le materie prime?
Stiamo ancora negoziando con le compagnie in questione. La mancanza di investimenti attuale non ha niente a che vedere con la nazionalizzazione. È colpa del governo di destra dell'ex presidente Tuto Quiroga, che bloccò tutti gli investimenti nella produzione di gas naturale nel 2001 perché, sosteneva, non c'era un mercato interno. Progettiamo di riprendere le estrazioni. Abbiamo firmato un accordo per la fornitura di gas con l'Argentina e cooperiamo con il Venezuela. Abbiamo firmato un contratto di estrazione mineraria con una compagnia indiana. Ciò creerà 7 mila posti di lavoro diretti e 10 mila indiretti. Abbiamo negoziato prezzi e condizioni molto migliori dei nostri predecessori.
Ma c'è il problema del Brasile. La Bolivia sta chiedendo un prezzo molto più elevato per il proprio gas, non sarà un danno per le relazioni con il presidente brasiliano, Lula da Silva?
Lula è solidale con noi, si comporta come un fratello maggiore. Ma abbiamo problemi con Petrobras, la compagnia energetica brasiliana. Le negoziazioni sono molto difficili, ma siamo ottimisti.
Petrobras ha minacciato di sospendere tutti i suoi investimenti in Bolivia.
Questa minaccia non viene dal governo brasiliano, ma da alcuni dirigenti della Petrobras. Fanno pubblicare queste minacce sulla stampa per metterci sotto pressione. Il Brasile è una grande potenza, ma deve trattarci con rispetto. Il compagno Lula mi ha detto che ci sarà un nuovo accordo e che vuole importare più gas.
La Bolivia non vende gas naturale al Cile perché i Cileni sottrassero l'accesso al mare alla Bolivia in una guerra di oltre 120 anni fa. Ora in Cile c'è un governo socialista, gli fornirete gas?
Vogliamo superare il nostro problema storico con il Cile. Il mare ci ha diviso e il mare deve riunirci. Il Cile ha accettato, per la prima volta, di discutere dell'accesso al mare per la Bolivia. È un grandissimo passo in avanti. Il presidente cileno presenziò al mio insediamento, ed io a quello di Michelle Bachelet (presidentessa cilena) a Santiago. Ci complementiamo. Il Cile ha bisogno delle nostre risorse naturali e noi dell'accesso al mare. In queste condizioni deve essere possibile trovare una soluzione nell'interesse di entrambi i paesi.
Quale influenza ha avuto il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, sulla nazionalizzazione delle risorse naturali della Bolivia?
Nessuna. Né Cuba né il Venezuela hanno avuto un ruolo, ho gestito la nazionalizzazione da solo. Solo sette dei miei più stretti collaboratori sapevano del decreto e della data. Benché avessi incontrato Chávez o Fidel Castro alcuni giorni prima, non parlammo della nazionalizzazione. Avevo già firmato il decreto prima di partire per Cuba e il vice presidente lo consegnò al gabinetto. Quando Fidel mi chiese dello stato del progetto, gli dissi che avevamo deciso di annunciare la nazionalizzazione nei giorni successivi, ma non gli dissi la data ufficiale. Fidel mi consigliò di attendere fino all'assemblea costituente. Chávez non ne sapeva nulla.
Chávez vuole instaurare un socialismo del XXI sec. in Venezuela. Il suo consigliere politico, Heinz Dieterich, un tedesco, ha fatto recentemente visita alla Bolivia. Vuole introdurre il socialismo in Bolivia?
Se socialismo significa che tutti vivono bene, che esiste l'uguaglianza e la giustizia, e non avere problemi sociali ed economici, allora gli do il mio benvenuto.
Lei ammira Fidel Castro come "nonno di tutti i rivoluzionari latinoamericani". Cosa ha appreso da lui?
La solidarietà, soprattutto. Fidel ci aiuta molto. Ha donato sette cliniche oculistiche e venti ospedali generici. I dottori cubani hanno già eseguito 30 mila operazioni di cataratta gratuitamente per i Boliviani. Cinquemila boliviani di estrazione povera stanno studiando gratuitamente medicina a Cuba.
Ma i dottori cubani protestano per l'interferenza di Castro. Dicono che li priva dei mezzi di sussistenza.
Lo stato boliviano non paga alcun salario ai medici cubani, perciò non sottraggono nulla ai Boliviani.
Sa come sta Castro?
Sì, ho parlato con lui oggi. Si sente meglio da un paio di giorni, e mi ha detto che starà abbastanza bene da partecipare al summit delle nazioni non allineati a La Havana a Settembre.
Terrà un discorso?
Senz'altro, è una occasione che non mancherà.
Gli Americani sono preoccupati per l'influenza che Chávez sta acquistando. La Bolivia non si sta rendendo dipendente dal Venezuela?
Ciò che ci unisce con Chávez è il concetto dell'integrazione del Sud America. Esiste un antico sogno di una grande patria, un sogno che esisteva anche prima della conquista spagnola, e Simón Bolivar ha combattuto in suo nome. Vogliamo un Sud America modellato sull'Unione europea, con una moneta unica come l'Euro, che valga più del dollaro. Il petrolio di Chávez non è importante per la Bolivia, perché otteniamo solo il gasolio a condizioni di favore. Ma non siamo dipendenti dal Venezuela, ci completiamo a vicenda. Il Venezuela condivide la propria ricchezza con altri paesi, ma ciò non ci rende subordinati.
La sinistra latinoamericana si sta dividendo in una corrente moderata, socialdemocratica, guidata da Lula e Bachelet, e un movimento radicale, populista, rappresentato da Castro, Chávez e da lei. Chávez non sta dividendo il continente?
Vi sono socialdemocratici ed altri che vanno nella direzione dell'uguaglianza, che si chiamino socialisti o comunisti. Ma, almeno in America latina, non abbiamo più presidenti razzisti o fascisti come avveniva in passato. Il capitalismo ha soltanto danneggiato l'America latina.
Lei il primo presidente indigeno nella storia boliviana. Quale ruolo giocherà la cultura indigena nel suo governo?
Dobbiamo combinare la coscienza sociale con la competenza professionale. Nella mia amministrazione, gli intellettuali della classe superiore possono essere ministri o ambasciatori, come possono essere membri dei gruppi etnici indigeni.
Crede che i popoli indigeni abbiano sviluppato un modello sociale migliore di quello delle democrazie bianche occidentali?
Nel passato, la proprietà privata non esisteva. Tutto era proprietà comune. Nella comunità indigena in cui sono nato tutto apparteneva alla comunità. Questo stile di vita è più equo. Noi indigeni siamo la riserva morale dell'America. Agiamo in accordo alla legge universale che consiste in tre principi basici: non rubare, non mentire e non essere ignavo. Questa trilogia servirà anche come base della nostra nuova costituzione.
È vero che tutti i dipendenti del governo dovranno apprendere i linguaggi indigeni quechua, aymara e guaranì in futuro?
I funzionari pubblici delle città dovranno apprendere la lingua della regione. Se parliamo già spagnolo, in Bolivia, dovremmo parlare anche i nostri linguaggi.
Ora che lei è al potere, i bianchi trattano meglio gli indigeni?
La situazione è migliorata moltissimo. La classe media, gli intellettuali e i lavoratori indipendenti sono ora orgogliosi delle loro radici indigene. Sfortunatamente, alcuni gruppi oligarchici continuano a trattarci come esseri inferiori.
Alcuni critici sostengono che ora gli indigeni sono razzisti verso i bianchi.
Ciò è parte di una guerra sporca che i media stanno combattendo contro di noi. Uomini d'affari ricchi e razzisti controllano gran parte dei media.
La Chiesa cattolica la ha accusato di voler riformare l'istruzione religiosa. Ci sarà libertà di culto in Bolivia?
Sono cattolico. La libertà di credo religioso non è in questione, ma quando si tratta di fede sono contrario ai monopoli.
Alcuni grandi possidenti hanno minacciato di condurre una resistenza violenta alla progettata riforma agraria. Quali terreni volete confiscare?
Esproprieremo i grandi possedimenti di terra che non sono coltivati. Ma vogliamo una riforma agraria democratica e pacifica. La riforma agraria del 1952 portò alla creazione di molti piccoli appezzamenti improduttivi sugli altopiani delle Ande.
La Bolivia è divisa nelle province ricche ad Est e nelle povere regioni andine. Vi è un forte movimento autonomista nell'Est. Il paese rischia la rottura?
Questo è quello che vogliono alcuni gruppi fascisti e oligarchici, ma hanno perso al voto sull'assemblea costituzionale.
La Bolivia è un importante produttore di droghe. I suoi predecessori hanno fatto distruggere le piantagioni di cosa. Farà lo stesso?
Dal nostro punto di vista la coca non dovrebbe essere né distrutta né interamente legalizzata. Le coltivazioni dovrebbero essere controllate dallo stato e dai sindacati contadini. Abbiamo lanciato una campagna internazionale per legalizzare la foglia di coca, e vogliamo che le Nazioni unite rimuovano la coca dalla lista delle sostanze tossiche. Gli scienziati hanno dimostrato da molto tempo che le foglie di coca non sono tossiche. Abbiamo deciso per una riduzione volontaria dell'estensione delle piantagioni.
Ma gli Stati Uniti sostengono che gran parte dei raccolti di coca finiscono sul mercato della cocaina.
Gli Americani dicono di tutto. Ci accusano di non soddisfare le condizioni per i loro aiuti allo sviluppo. I miei predecessori pro-capitalisti appoggiavano il massacro dei coltivatori di coca. Più di ottocento contadini sono morti nelle guerra alla droga. Gli Stati Uniti stanno usando la scusa della guerra alla droga per estendere il loro controllo sull'America latina.
La DEA americana ha agenti stazionati in Bolivia come consiglieri della polizia e dell'esercito nella loro lotta al commercio di droghe. Li rispedirà a casa, ora?
Sono sempre lì, ma non sono più in uniforme o armati, come accadeva prima.
Quali sono le sue relazioni con gli Stati Uniti? Conta di far visita a Washington?
Un incontro con il presidente Usa, George W. Bush, non è in programma. Ho intenzione di andare a New York a far visita all'Assemblea generale dell'Onu. Quando ero solo un membro del parlamento, gli Americani non mi hanno lasciato entrare nel loro paese. Ma i capi di stato non hanno bisogno di visto per andare all'Onu a New York.
Alcune settimane fa lei ha riportato la frattura del naso giocando a pallone. Sta giocando meno?
Il mio naso sembra ancora storto? Gli sport sono sempre stati il mio piacere maggiore. Non fumo, praticamente non bevo alcol e solo di rado ballo, anche se in passato ho suonato la tromba. Gli sport mi hanno aiutato ad entrare nel palazzo presidenziale. Il mio primo incarico nel sindacato fu segretario allo sport. Sono anche stato presidente di un club calcistico quando avevo 13 anni.
Perché non porta la cravatta?
Non porto mai la cravatta volontariamente, anche se fui costretto a farlo per alcune foto fatte in gioventù e per eventi ufficiali a scuola. Ero solito avvolgere la cravatta in un giornale e ogni qualvolta la maestra controllasse immediatamente la mettevo. Non ci sono abituato, e la maggior parte dei Boliviani non porta la cravatta.
Signor presidente, grazie per aver parlato con noi.
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martedì 27 novembre 2007

fine della commedia

Cara Liberazione,

come volevansi dimostrare: la resistenza della sinistra al governo è stata soltanto una "ammuina", una tecnica per fare passare tutto e spostare sempre in avanti lo sguardo dei lavoratori. Dopo il decreto, la manifestazione del venti ottobre, dopo la manifestazione il consiglio dei ministri e poi il Parlamento. Cinque mesi di rinvii e di "astensioni" di ferrero.
Ora, rinvia tutto ad una verifica da fare a gennaio.
Verificare che cosa?
La linea sulle questioni fondamentali del lavoro
è stata ribadita . Non c'è più niente da fare.La legge Biagi viene ribadita e rafforzata dal "protocollo".
Ieri potevano attribuire alla destra il disagio della legislazione fatta per tenere in ostaggio e per ricattare i dipendenti. Oggi sappiamo che anche la sinistra è solo dalla parte dei padroni. Prodi ed il suo governo sono salvi. I nostri figli, no!
Pietro

sabato 24 novembre 2007

lettera a Liberazione sul simbolo della sinistra

Caro direttore, cambiare i simboli dei partiti non è mai una operazione di puro maquillage, rinnovamento estetico: ha sempre dentro qualcosa di profondo, una sorta di sdradicamento dal passato, di rifacimento dell'identità. Il Partito socialista del garofano è stato forse lo stesso del Partito socialista della falce martello libro e sole nascente? La Quercia è forse rimasta Pci? Ma forse ancora la Quercia aveva qualche legame col Pci, certamente questi legami si sono attenuati fino a sparire con i Ds… Perché la "cosarossa" - o come si chiamerà - non dovrà avere la falce ed il martello nel proprio simbolo? Al loro posto come utensili esistono oggi strumenti di alta tecnologia ma la loro rappresentazione ha un forte valore identitario culturale storico ideale. Significa che il Partito resta legato alla gente che lavora, alla gente che produce, che è un Partito delle campagne e delle città. Se la cosa rossa, il nuovo grande partito del socialismo nasce cancellando le sue radici non andrà lontano… Lasciate quindi in pace la falce ed il martello al loro posto a richiamare tutti noi al dovere di stare sempre dalla parte del lavoro.Pietro via e-mail

demagogia di pasolini

lettere al corriere
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Caro Romano
Al netto della commozione e del dolore io, comunista, sto coi poliziotti. Loro, i neofascisti, li vorrebbero tutti al muro. Ecco uno dei paradossi di questo nostro strano Paese. Fin troppo facile ricordare e citare il Pasolini che stava dalla parte dei poliziotti (nulla è cambiato da allora: tutta gente del Sud e con salari da sopravvivenza) contro i giovani universitari in rivolta a Valle Giulia.Oggi non ci sono più questi giovani ma ne troviamo altri, ugualmente viziati, ugualmente violenti, ugualmente neofascisti. In un Paese dove la tolleranza e la mancanza di rigore (anche morale) ha condotto a una lenta e progressiva putrefazione di ogni pur minimo buongusto etico, a un buonismo disastroso che alleva alla violenza. Mi dispiace per il povero ragazzo ucciso ma io, da comunista, sto con i poliziotti. Del resto la polizia era intervenuta per normali attività di ordine pubblico: i coltelli, le biglie di metallo, le cinghie, i sassi trovati all'autogrill parlano, purtroppo, chiaro.Massimo Gatta , massimo.gatta2@tin.it
Caro Gatta, Credo che occorra ricordare anzitutto ciò che accadde a Valle Giulia e le ragioni per cui in quella circostanza Pier Paolo Pasolini decise, come lei scrive, di stare «dalla parte dei poliziotti». La «battaglia» ebbe luogo il 1° marzo 1968 dopo altre giornate in cui studenti liceali e universitari si erano scontrati con polizia e carabinieri, soprattutto intorno al Palazzo di Giustizia. Da piazza di Spagna, dove si erano riuniti circa duemila studenti, il corteo raggiunse Valle Giulia, sede della Facoltà di architettura, presidiata da 200 «celerini» e carabinieri. La battaglia durò sino al pomeriggio e segnò, con l'occupazione dell'Università di Torino, l'inizio d'una rivoluzione strisciante che continuò in forme diverse sino all'inizio degli anni Ottanta. Alla fine della giornata si contarono 144 feriti tra le forze dell'ordine e 47 fra gli studenti, 228 fermi, 4 arresti e 8 automezzi bruciati. Qualche mese dopo la «battaglia di Valle Giulia », L'Espresso pubblicò una poesia intitolata «Il Pci ai giovani » che Pasolini aveva scritto per la rivista Nuovi Argomenti e in cui si poteva leggere, tra l'altro: «... Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/io simpatizzavo coi poliziotti!/Perché i poliziotti sono figli di poveri./Vengono da periferie, contadine o urbane che siano./(...) Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care./Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia./Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!/ I ragazzi poliziotti/che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione/risorgimentale)/ di figli di papà, avete bastonato,/ appartengono all'altra classe sociale./ A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento/di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte/ della ragione) eravate i ricchi,/ mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto) erano i poveri. ...». In questi versi di Pasolini vi è una certa ambiguità (non certo i migliori della sua produzione poetica). Il poeta non dà torto agli studenti, anzi. Si limita semplicemente a constatare una sorta di provocatorio paradosso: i rivoluzionari erano figli viziati della borghesia, forse sedotti dal fascino della violenza, e i nemici contro cui si erano battuti a Valle Giulia erano i figli del proletariato. Pasolini non diceva quali lezioni sarebbe stato utile trarre da questo paradosso. Occorreva educare i ragazzi borghesi a una migliore comprensione della lotta di classe? Occorreva fare opera di educazione rivoluzionaria nei ranghi della polizia? Si limitava a constatare una contraddizione e a sorriderne amaramente. Una poesia, d'altro canto, non è un trattato e non ha l'obbligo d'impartire lezioni. Credo che il suo giudizio sulle manifestazioni di teppismo degli scorsi giorni, caro Gatta, sia giusto, ma non sono sicuro che lei possa invocare in questo caso il nome di Pasolini. Vi è un altro passaggio della sua lettera con cui non sono d'accordo. Penso che l'uso della parola «neofascisti», con cui lei definisce i tifosi violenti, sia fuori luogo. Per due ragioni. In primo luogo perché il fascismo non fu soltanto squadrismo e cieca violenza. A seconda dei momenti e delle circostanze fu uno stato d'animo, un movimento, un partito politico, un regime, e fu contraddistinto da diverse fasi storiche. Ridurlo alla sua dimensione violenta significa rinunciare a

Caro Signor gatta,

sbagliava Pasolini a condannare gli studenti perchè figli di papà e schierarsi con i poliziotti perchè figli di contadini. Il giudizio non dovrebbe mai essere la conseguenza di una appartenenza di ceto. Avrebbe dovuto condannare gli studenti se avessero sbagliato. Il movimento sessantottino fu uno dei pochi veri fatti di liberazione di questo paese con una grande ventraglia fascista.
Il fatto che la polizia sia fatta da persone provenienti dal popolo non la salva dalle nefandezze cilene compiute a Genova ed a Napoli per le quali non ha mai chiesto scusa.
Lei si dichiara comunista. Ma i comunisti di oggi sono gli sceriffi di Bologna e Roma che mandano le ruspe a devastare le baracche dei poveri e sono tutti low ed order. Lisciano la coda alla tigre razzista.
Pietro Ancona

martedì 20 novembre 2007

salari di fame con complicità CGIL

Il centro studi della CGIL produce uno studio per mettere per iscritto quello che tutti sappiamo: i salari italiani sono stati erosi considerevolmente nel corso degli ultimi cinque anni e sono in coda ai salari dei Paesi industrializzati.
Se l'Ires volesse fare uno studio sui nuovi salari creatisi nello stesso periodo si accorgerebbe che sono di gran lunga inferiori a quelli presi in esame. Ciò a causa della aumentata capacità di ricatto delle aziende introdotta nelle relazioni industriali dal pacchetto treu e dalla legge maroni (entrambi accettate dai sindacati confederali).
La CGIL non è il centro studi del Governo e della Confindustria. Non dovrebbe limitarsi a lanciare gridolini di raccapriccio a fronte del quadro presentatogli dall'Ires. Dovrebbe agire.
In effetti sta agendo: le piattaforme rivendicative presentate da tutte le categorie in lotta per i rinnovi contrattuali non superano i settanta ottanta euro netti mensili. In sostanza, il loro accoglimento non modificherà la condizione del salario dal momento che si tratta di due o tre euro al giorno che saranno subito mangiati dall'inflazione strisciante ed onnipresente. Insomma, come dire: Vedete quanto siamo responsabili? Ci accontentiamo di bricioline come i passerotti d'inverno!!
Come si conciliano queste piattaforme rivendicative con la drammatica condizione salariale dei lavoratori?
Non si conciliano. Bisognerebbe chiedere almeno il triplo di quanto è stato rivendicato e saremo sempre i fanalini di coda del salario europeo.
All'indomani di questo annunzio dell'Ires CGIL, dopo avere constatato di essere in fondo al pozzo, la CGIL si accinge a mettere mano sulla struttura normativa di difesa della condizione del lavoro subalterno: i ccnl. Non saranno subito smantellati ma si darà un colpo quasi mortale alla loro funzione nazionale.
L'Italia è il Paese di Pulcinella ed Arlecchino. Ora è entrata nella fase della democrazia dei grandi numeri (fasulli ma accreditati dai massmedia con bombardamenti di messaggi continui); sette milioni i voti che Berlusconi vanta contro il Governo Prodi; cinque milioni i voti del referendum sindacale che inchioderà per sempre alla croce della Biagi; tre milioni i voti di Veltroni. Tutti grandi numeri per simulare una democrazia che non c'è più a cominciare dalla democrazia sindacale dove i referendum sono privi di qualsiasi garanzia di trasparenza e veridicità.
Mentre il Francia la classe lavoratrice dopo avere sconfitto Chirac e la sua legge Biagiu mette in crisi il liberismo di Sarkozy con scioperi possenti e difesa ad oltranza dei diritti, in Italia dal 1993 ad oggi abbiamo sindacati che collaborano con il padronato ed i governi per spogliare i lavoratori di tutti i loro diritti.
La prova è nel fatto che l'Italia vanta Sindacati con oltre diecimilioni di associati ed ha i lavoratori ed i pensionati
più poveri d'Europa. Per chi sono possenti i sindacati italiani?Non certo per i loro iscritti.
Credo necessario un Congresso straordinario della CGIL preceduto dal congelamento delle trattative interconfederali con Confindustria e Governo per la riformulazione di una iniziativa che restituisca autonomia e restituisca ai lavoratori italiani la condizione che avevano negli anni settanta quando un metalmeccanico era in grado di mantenere la famiglia, pagare un affitto e magari (con grossi sacrifici) aiutare un figlio a laurearsi.
La CGIL ha rifondata e ricondotta alla sua ispirazione autenticamente riformista: quella che Luciano Lama chiamava della pesca (dura dentro e morbida fuori) e che Fernando Santi riassumeva nelle parole: " gradualità e saggezza nell'azione, intransigenza nei principi". Tra i principi c'è il salario equo atto a garantire dignità al lavoratore ed alla sua famiglia.
Pietro Ancona
segretario cgil sicilia in pensione
già membro del CNEL




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In cinque anni, e cioe' dal 2002 al 2007, ogni lavoratore - con un reddito pari a 24.890 euro - ha perso complessivamente 1.896 euro. Cio' a causa di vari fattori tra cui il ritardo nel rinnovo dei contratti, lo scarto tra inflazione programmata e reale e anche la mancata restituzione del fiscal drag. Lo rileva l'ultima ricerca dell'Ires Cgil, "Salari in difficolta'-Aggiornamento dei dati su salari e produttivita' in Italia e in Europa". Secondo quanto spiegato dal presidente dell'istituto Agostino Megale, "dal 1993 ad oggi, la crescita dei salari e' rimasta sostanzialmente in linea con l'inflazione, senza una crescita reale. Cio' a causa di un'inflazione programmata piu' bassa di quella effettiva, dei ritardi nei rinnovi contrattuali, nella mancata restituzione del fiscal drag, nella scarsa redistribuzione della produttivita'". Nel dettaglio, ha riferito Megale, "il reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2007 registra una perdita di circa 2.600 euro nelle famiglie di operai, a fronte di un guadagno di 12.000 euro per professionisti e imprenditori. Nelle nostre previsioni l'inflazione effettiva a fine 2007 sara' dell'1,9%, contro una crescita dei salari attorno al 2%. Il potere d'acquisto delle retribuzioni di fatto, malgrado le retribuzioni contrattuali siano cresciute di circa un punto oltre l'inflazione, ha perso 0,3 punti in sei anni". Tale perdita, cumulata sulla retribuzione media annua di un lavoratore dipendente al 2007 (25.890 euro), tradotta in euro significa, a prezzi correnti -1.210 euro. Se a questo si aggiunge la perdita derivante dalla mancata restituzione del fiscal drag (686 euro in cinque anni) la perdita secca ammonta quindi a circa 1.900 euro. (AGI) - Roma, 19 nov. -

lunedì 19 novembre 2007

La storia falsificata

Che cosa è stata realmente Caporetto?
ma è proprio vero che tutto quello che abbiamo imparato a scuola della storia italiana è falso se non altro per omissioni di enorme importanza? Mi è capitato di leggere soltanto recentemente la spaventosa vicenda dei nostri soldati fatti prigionieri a Caporetto ed accusato da uno Stato Maggiore di vigliacchi carrieristi di tradimento. Moltissimi morirono di stenti nei campi di concentramentoNei confronti dei quasi trecentomila soldati italiani fatti prigionieri si scatena una infame campagna di accuse costruite a tavolino.
A dare il la il "sommo poeta" Gabriele D'annunzio che, sulle pagine del "Corriere della sera" scrive che "chi si rende prigioniero, si può ramente dire che pecchi contro la Patria, contro l'Anima e contro il Cielo".

Contro questi innocenti i comandi militari, responsabili della disfatta, assumono qualche mese dopo una disumana iniziativa, contraria a tutte le convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri: il blocco totale dei pacchi viveri inviati dalle famiglie. Nessuno di coloro che, secondo i vertici militari, aveva concorso al crollo difensivo dovrࠥssere ricordato o nutrito.
Una vergognosa vendetta.
I prigionieri, internati in campi che divennero poi lugubremente famosi durante la Seconda guerra mondiale, e che rispondono ai nomi di Mathausen, Theresienstadt, sono abbandonati a se stessi, non avendo nulla di cui nutrirsi e vivendo in condizioni igieniche a dir poco pessime. Questa lettera ne 蠴estimonianza "Vi scrivo questa mia lettera per ripetervi che la vita che si fa da prigioniero ora, e che ci danno da mangiare, e quanti ne muoiono al giorno per fame, ne muoiono 40-50 al giorno, che ci danno da mangiare ogni mattina tre reghe con vermi e brodi di farina amara(..) si dorme come belve con un po' di coperte(..)".
Vogliano dare un piccolo contributo alla riabilitazione di questi nostri connazionali barbaramente trattati da Cadorna e dagli alti gradi dell'esercito responsabili di una condizione della guerra spaventosa fatta di ordini assurdi e decimazioni di innocenti? Forse il bellissimo libro di Emilio Lussu (un anno sull'altopiano) dovrebbe essere incluso nel corredo scolastico dei nostri ragazzi. Pietro
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domenica 18 novembre 2007

genova 17 novembre 2007

magnifica prova di resistenza all'autoritarismo strisciante!
Per Carlo e la democrazia! Per la Costituzione!


Giovedi 15 Novembre 2007 :: ore 18:50
Genova. I dissidenti della Cgil
Un gruppo di dirigenti della Cgil ha aderito, a titolo personale, alla mobilitazione di sabato 17 novembre, a Genova, nonostante le indicazioni contrarie del vertice del sindacato. Tra loro, anche Paolo Nerozzi, della segreteria nazionale, Enrico Panini, segretario nazionale della Flc e Carlo Podda, segretario nazionale della Funzione pubblica.
Ecco l’elenco: Paolo Nerozzi (CGIL Nazionale), Enrico Panini (CGIL FLC Nazionale), Carlo Podda (CGIL FP Nazionale), Antonello Sotgiu (CGIL Liguria), Mauro Passalacqua (CGIL Genova), Cristiana Ricci (CGIL Genova), Antonio Molari (CGIL Genova), Patrizia Salvan (CGIL Genova), Calogero Pepe (CGIL FILCAMS Genova), Ivano Bosco e Luciano Rotella (CGIL FILT Genova), Antonio Caminito e Ivano Mortola (CGIL FIOM Genova), Lucio Ottino (CGIL FILCEM Genova), Paola Repetto, Paolo Quattrida, Giuliana Parodi e Elena Bruzzese (CGIL FLC Liguria e Genova), Maurizio Pozzobon, Michele Sichenz, Antonella Ortelio, Patrizia Bellotto, Gianni Pastorino, Luciano Trotta, Sandro Alloisio, Milvia Mantero, Milena Paoletti, Antonella Bagnasco, Mariuccia Cadenasso e Marina Barbieri (CGIL FP Genova), Ottavio Biccheri, Sergio Bonanini, Sergio Bruni, Tiziana Cresci, Maria Elena Di Betta, G. Paolo Di Salvo, Lucio Gambetti, Tullio Schenone, Paola Simonelli, Maria Caterina Solimano e Antonio Vonella (CGIL FISAC Liguria e Genova), Raffaele Oprandi e Giulio Magno (CGIL categorie diverse).
Autore:

sabato 17 novembre 2007

lettera a Liberazione per Includere Rom nella Memoria

Caro Sansonetti,

ritengo giusta una modifica alla legge 211 del 2000 sulla Memoria per rivolgerla a tutte le vittime del nazismo ivi compresi i rom ignorati forse perchè popolo senza voce e tuttora reietto.






Si propone di aggiungere all'art.1 della legge 211 del 2000 dopo le parole (sterminio del popolo ebraico), le parole

"sterminio del popolo rom e degli slavi e di quanti furono ritenuti dal nazismo meritevoli di morte per le loro convinzioni politiche e religiose per il loro orientamento sessuale"omosessuali testimoni di geova democratici

Questa modifica assume particolare valore morale nel momento in cui il popolo rom è oggetto di persecuzioni xenofobe in molte parti del territorio nazionale.
Pietro Ancona



Legge 211/2000: Il "Giorno della memoria"
Pubblichiamo il testo integrale della legge n. 211 del 20 luglio 2000 che istituisce per il 27 gennaio di ogni anno il "Giorno della memoria".
Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica hanno approvato;IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICAPROMULGAla seguente leggeArt. 1
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetti i perseguitati.
Art. 2
In occasione del "Giorno della memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.Data a Roma, addì 20 luglio 2000CIAMPIAMATO, Presidente del Consiglio dei Ministri Visto, il Guardasigilli FASSINO

bellissima Genova per Carlo e la Democrazia

grande raduno a Genova per lo Stato di Diritto, per una Polizia che non spara mai sui cittadini!

mercoledì 14 novembre 2007

Giornata memoria con i Rom


Moni Ovadia: quale faccia per la Giornata della memoria?
Pubblichiamo un intervento di Moni Ovadia apparso su "L'Unità" nei giorni scorsi.Il tanfo delle peggiori vocazioni del passato europeo sale dalle cloache a cielo aperto del pregiudizio contro genti straniere, i rom, i sinti, i rumeni, criminalizzate tout court nel puro stile della peggior propaganda antisemita. Coloro che hanno la memoria corta vadano a rileggersi le argomentazioni dei teorici del razzismo antiebraico, anche le più grave; filosofiche e ponderate come quelle alla Evola. Trovino il tempo per sfogliare gli organi della stampa reazionaria dei paesi che accoglievano gli emigranti italiani nei primi secoli del Novecento. Sentiranno spirare sui loro colli l'aria ammorbata e pestilenziale degli stessi discorsi che provengono dagli esponenti del centro-destra italiano oggi. La nuova divisa che indossano è; il trench bianco, ma le parole dell'odio e dell'intolleranza hanno la stessa anima di quella pandemia nera che portòallo sterminio tanti innocenti colpevoli solo di essere ciò che erano. Senza vergogna l'onorevole Fini ha preteso l'espulsione di coloro che non hanno mezzi di sostentamento, lui! L'erede del fascismo rinnegato solo a parole, con la complicità di un governo israeliano -- che pur di avere due moine da un politico furbo e cinico mercanteggia il significato profondo della shoà: Sì! Gli zingari sono morti con noi nei lager nazifascisti, come noi, così; come con noi furono sterminati poveracci senza fissa dimora, e se lo dimenticassimo condanneremmo noi stessi all'infamia. E come se non bastasse tutto questo, adesso il post fascista delfino del principe azzurro di Arcore vorrebbe fare della povertà; un crimine, una malattia da espellere dal salotto buono. Fosse stato per lui milioni dei nostri connazionali sarebbero stati gettati a mare quando partivano per le Americhe con la speranza di uscire dalla povertà; e rimanevano poveri a lungo prima di riuscirci. E ora con che faccia, con che spirito, con quale sguardo, a quale orizzonte ci rivolgeremo quando celebreremo il Giorno della Memoria. Inviteremo uno zingaro con l'abito della festa a parlare della tragedia dei rom e dei sinti, mentre li criminalizziamo in massa in quanto tali e ne auspichiamo la rimozione massiccia dai nostri lidi per rimandarli in Romania a ricevere altre vessazioni, oppure per rimpallarli da un Paese all'altro di un'Europa che si pretende unita e libera ma non lascia circolare liberamente al proprio interno i propri stessi cittadini? E' ora che se lo ficchino nel cranio i demofascisti, i Rom e i Sinti sono cittadini dell'Europa a pieno titolo, e la vile e ipocrita Europa, come ha bene spiegato sul nostro giornale il grande Predrag Matviejvic, ha nei loro confronti un debito inestinguibile. Il minimo che possa fare è quello di trattare le questioni che li riguardano con rispetto, volontà di accoglienza e integrazione, attraverso mediazioni culturali e sociali attivando con urgenza canali di erogazione di massicci investimenti per rendere possibili soluzioni giuste e rispettose dei diritti fondamentali di ogni essere umano. Non vivo nel paese di utopia, è capitato anche a me di vedere più volte violata la mia casa e mia moglie in lacrime sconvolta per giorni e giorni, capisco bene il valore e il calore della sicurezza. La sicurezza di ogni cittadino é certo un diritto fondamentale, ma da quando si afferma un diritto fondamentale calpestandone dieci altri? La sicurezza è garantita dalla cultura della legalità e dalla certezza del diritto, conseguentemente dalla certezza della pena e tutto cò in sinergia con la diffusione della cultura e della spiritualità dell'accoglienza solidale. Queste travi portanti di una società giusta mancano in Italia e la colpa non é dei rom, né dei rumeni, ma della classe politica italiana, soprattutto quella di destra impegnata nella demolizione dei parametri democratici dello stato di diritto al fine di proteggere i furfanti che militano nelle loro file. Noi siamo il problema, non gli altri, il giorno che lo capiremo diventeremo perlomeno un Paese serio. Il giorno della memoria serve a ricordarcelo: perché furono fascistissimi cittadini italiani a varare le più schifose leggi razziali dell'epoca, a perpetrare genocidi contro le popolazioni africane, a commettere crimini di guerra contro gli iugosalvi e fu la maggioranza del Paese, comprese istituzioni culturali e religiose, ad accettarli senza troppi mal di pancia. Ma se il frastuono dei revisionisti della domenica e la grancassa dei fasciodemocratici da salotto televisivo coprono le voci della coscienza e della decenza, forse sarà meglio abrogare la ricorrenza del 27 gennaio perché non diventi una tragica beffa.Moni Ovadia (L'Unita, 10/11/2007)


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lunedì 12 novembre 2007

chiavez e il Re

Chavez e il Re
Maurizio Chierici


La conferenza dei Paesi latini a Santiago del Cile si è sciolta con una provocazione di Hugo Chavez, presidente del Venezuela. Gomito a gomito con 21 capi di Stato, per tre volte, davanti alle telecamere ha detto che l’ex presidente spagnolo Aznar è «fascista e razzista», raccontando un colloquio nel quale Aznar lo invitava a rompere con Castro per unire il Venezuela al fronte moderato disinteressandosi della disperazione dei paesi alle corde (Haiti, Africa, eccetera): «Non c’è niente da fare, sono irrecuperabili». Insiste nel racconto delle tracce visibili lasciate dal governo di Aznar quando appoggiava i golpisti che hanno imprigionato Chavez nel 2002. Non lontano dalle elezioni di primavera, Zapatero non poteva tacere e ha invitato Chavez al rispetto delle forme perché l’Aznar detronizzato non era presente quindi non poteva replicare come pretendono le buone maniere di ogni democrazia. Chavez l’ha interrotto ripetendo le accuse, e re Juan Carlos seduto come un’icona accanto a Michelle Bachelet, padrona di casa, non è riuscito a tacere invitando Chavez al silenzio con l’impazienza di un sovrano offeso dallo «sproloquio».

Appena il redivivo e ondivago Daniel Ortega ha preso la parola spalleggiando Chavez, il re ha lasciato il tavolo con passi di sdegno.

Tema della riunione era l’inclusione sociale, impegno per assottigliare le disuguaglianze che dividono questa America; strategie per avvicinare 220 milioni di persone (43 per cento della popolazione) alle risorse finanziarie che stanno arricchendo Paesi fino a qualche anno fa alla deriva. Si sono trasformati in tigri latine: prodotto lordo che sfiora il dieci per cento per l’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Miracoli della macroeconomia delle esportazioni, eppure il benessere non coinvolge il cerchio immenso delle baracche che assediano le città. Si moltiplicano i tetti di latta, le immondizie diventano beni preziosi. L’anno scorso 47,88 miliardi di dollari spediti dall’America numero uno hanno consolato le famiglie che sopravvivono nell’America numero due. Alla vigilia dell’incontro di Santiago il Brasile annuncia la scoperta di un bacino petrolifero sterminato nei fondali atlantici davanti a Santos: otto miliardi di barili per il momento, ma le ricerche continuano. Otto miliardi che portano la «Petrobas» (controllata dallo Stato, minoranza segmentata di privati) a 19 miliardi di barili trasformando i brasiliani in concorrenti alle esportazioni del Venezuela. America Latina-cassaforte: non solo gas e petrolio, grano, soia, carne e ogni ben di dio, ma viscere dalle quali escono materie prime indispensabili allo sviluppo tecnologico delle società avanzate. Per dare un’idea della disuguaglianza, nel continente più ricco di acqua dolce nel mondo, 77 milioni non sanno cos’è l’acqua potabile e non riescono a mangiare una volta al giorno. Colera e altre lebbre restano endemiche. Un disastro (solo per l’acqua) di un milione di morti l’anno ed età media di sopravvivenza che nelle regioni andine non arriva alla terza età, almeno come la intendiamo noi. I presidenti che in passato avevano tentato di ristabilire un minimo di dignità nazionale, sono finiti come sappiamo: dalla Bolivia dei cento colpi di stato al rame di Salvador Allende.

Adesso l’America Latina volta pagina. La disperazione ha rafforzato la socialdemocrazia interpretata in modo diverso da figure politiche disuguali, eppure legate dallo stesso impegno: riappropriazione delle risorse. Nelle società in trasformazione si affacciano protagonisti quasi sempre uniti, con intonazioni diverse, dalla diffidenza verso l’altra America. Vogliono fare da soli, a volte con personalismi esasperati da nazionalismi e populismi verso i quali la nostra cultura resta critica senza considerare di quale cultura li abbiamo nutriti. E quanti timori sopravvivono dopo cento anni di solitudine sorvegliata a mano armata. L’incidente di Santiago è un sintomi di questi timori. Ed è sconsolante si sia messo da parte il motivo dell’incontro - l’integrazione sociale - con personalismi a volte legittimi ma lontani dalle urgenze di 220 milioni di senza niente. Intemperanza di Chavez, errore della famiglia presidenziale Kirchner che si è servita della scena bene illuminata per polemizzare contro gli spagnoli del petrolio e delle «Aereolineas Argentina». Il petrolio sgorga da ogni malumore. Ecco il dubbio: petrolio e democrazia possono sopravvivere nelle società che si riappropriano dei diritti negati dal cosiddetto mercato?

Democrazia è una parola di gomma. Cambia significato da un Paese all’altro, anche se ogni governo assicura di pretenderla e volerla difendere da interferenze esterne. Ci si divide sulle strategie che non sempre le democrazie mature trovano equilibrate. L’ultimo voto argentino ha indicato trionfalmente Cristina Fernandez de Kirchner alla guida del Paese. Ma la signora Kirchner è sposata col presidente Kirchner il quale le ha ceduto la poltrona (alla quale poteva concorrere) con bizzarre primarie consumate in famiglia. Uso dei mezzi di Stato nella campagna elettorale, media in ginocchio. Eppure nessuno è rimasto perplesso. Una donna, evviva. Hugo Chavez sta cambiando la Costituzione chiedendo agli elettori la possibilità della rielezione indefinita. Sopravvissuto al colpo di stato, negli otto anni di presidenza ha aperto sei volte le urne. Per sei volte la gente lo ha riconsacrato con percentuali quasi bulgare: tra il 60 e l’80 per cento. Populismo e centralismo fanno arricciare il naso agli osservatori educati i quali devono tener conto di cosa succede ai venezuelani senza censo: ospedali pubblici, risanamento dei ranchos-favelas, scuole di stato e università “bolivariane” dove gli studenti poveri ricevono uno stipendio minimo per tirare avanti senza trascinarsi nelle strade.

Torna la domanda: le decisioni elettorali (monitorate da centinaia di osservatori europei, latini e nord americani, commissione Carter) devono essere considerate legittime come succede nelle democrazie tradizionali, o pericolose per il futuro energetico dell’umanità? Il petrolio resta una mina vagante per ogni democrazia? Uribe, presidente della Colombia, ha già cambiato la Costituzione, si è fatto rieleggere ed è pronta la variante che gli permette potere eterno. Uribe è l’anima dell’America di Bush nel continente incamminato verso l’indipendenza. Inspiegabilmente nessuno approfondisce le tragedie del suo governo: ministri che si dimettono davanti a prove di voti raccolti da narcos o paramilitari di una destra super armata. Due settimane fa la sinistra ha conquistato Bogotà. Per importanza il sindaco della capitale è l’autorità politica numero due del Paese dopo il presidente. Poche notizie frettolose sui venti candidati dell’opposizione assassinati durante campagna elettorale. Silenzi che nascondono l’immagine di un posto dove due milioni di profughi in fuga dagli scontri eserciti-guerriglie preoccupano Onu e tutori dei diritti umani.

Anche in Brasile il partito del Lula presidente sta proponendo di ritoccare la Costituzione per permettere il terzo mandato. La popolarità di Lula supera l’80 per cento. La gente è convinta: via lui torna il caos. Lula respinge l’ipotesi. La ritiene «antidemocratica», ma i supporter lavorano ad un referendum, e se il referendum verrà proclamato quale forma di democrazia Lula potrà scegliere? Anche Correa, faccia nuova dell’Ecuador, sta cambiando la Costituzione. Due lauree Usa e a Bruxelles, parla quetchua e aymara: rovescia l’architettura dello Stato per dare una mano a milioni di ecuadoriani da sempre abbandonati. Come Lula, anche Correa respinge la riconferma indefinita.

Morales in Bolivia affronta, debolissimo, gli stessi labirinti: nuova Costituzione, nazionalizzazione delle risorse e diritti equi nei contratti finora imposti da potentissima multinazionali. Specchiandosi nella paralisi politica dello Stato petrolifero di Zulia in Venezuela, gli stati petroliferi della Bolivia raccolgono un’indignazione antigovernativa dietro alla quale spuntano gli interessi delle imprese alle quali sta tagliando le unghie.

Dal Messico al Cile questa America é d’accordo nell’impegno di eliminare le vite diverse che dividono le zone rosa del potere da immense favelas senza speranza, e d’accordo nel vendere a prezzi di mercato materie prime fino a ieri liquidate con gli spiccioli. D’accordo nella creazione della Banca del Sud inventata da Chavez, da contrapporre a Banca Mondiale e Fondo Monetario. La maggior parte dei Paesi vogliono fare da soli e da soli scegliere investitori e clienti. La nostra economia è preoccupata, ma le regole della democrazia consentono questa libertà mentre la tecnologia cambia la vita di ogni giorno con un dubbio ormai pesante: pane o benzina? Mangiare oppure la fuori serie che corre in ogni spot? Macchina, naturalmente, quindi soia transgenica che rende sterili i terreni e ingrassa il bottino delle De Monte and company. Restano le divisioni sui modi e le forme della trasformazione mentre le intemperanze di Chavez alimentano le caricature che un certo tipo di giornali hanno cominciato a disegnare quando l’uomo nuovo del Venezuela non si è dimostrato l’uomo di paglia che i petrolieri speravano. È vero che i 220 milioni di affamati si sciolgono dalla contentezza appena Chavez disprezza i potenti e garantisce il socialismo del secolo ventuno. Il re di Spagna dopo Bush. Entusiasmi di pancia, ma le colonie dell’economia non si arrendono e Chavez dovrebbe imparare ad attrezzare civilmente le popolazioni che intende tutelare, non esporle alle tentazioni di un estremismo di parole. Consolidare il diritto alle risorse significa favorire la cultura civile delle masse finora trascurate. Jorge Giordani, padre immigrato romagnolo, ministro della Pianificazione, e professore al quale Chavez si era rivolto dal carcere quando lo voleva relatore della tesi in scienze politiche; qualche mese fa Jorge Giordani ha regalato al presidente un libro scritto da un gesuita nel ‘600: elogio alla prudenza. Il presidente non deve averlo sfogliato. Anche il re Borbone se ne è fregato del protocollo che la costituzione gli assegna. Chissà cosa sta pensando di questo sovrano del sud, Elisabetta, regina del nord. Illuminata dai gioielli della corona, parla in pubblico solo una volta l’anno leggendo il programma di governo scritto dal primo ministro. Anche il Pais di Madrid è perplesso: e se Juan Carlos tornasse nell’ombra rispettando la Costituzione che lo vorrebbe mediatore invisibile e non comprimario nei discorsi da bar?

mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 12.11.07
Modificato il: 12.11.07 alle ore 9.23
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domenica 11 novembre 2007

Una giornata memorabile di Palermo

Folla al Teatro Biondo, tre anni fa era rimasto desertoUna ragazza lascia un biglietto: mio padre paga, aiutateci
Palermo si ribella al racketGli imprenditori: basta col pizzo
di ALESSANDRA ZINITI
Palermo si ribella al racketGli imprenditori: basta col pizzo" racket/ansa_ width=280>
La cerimonia per la nascita diPALERMO - Sorridono, alzano le dita in segno di vittoria, si abbracciano, si spellano le mani per applaudire poliziotti e magistrati che li hanno "liberati" da Provenzano e dai Lo Piccolo, da chi ha imposto loro per anni la "tassa" a Cosa nostra. È una Palermo irriconoscibile quella che riempie fin su al loggione quello stesso teatro Biondo che tre anni fa rimase deserto quando Confindustria e Anm organizzarono un convegno su mafia e racket. Ci sono, questa volta tutti o quasi, i rappresentanti di industriali e commercianti, i volti noti dell'associazionismo, ma anche tante facce di gente qualunque, che ascolta, si guarda attorno, forse alla ricerca di un coraggio finora mancato. Una ragazza affida una disperata invocazione d'aiuto a un foglio che abbandona su una poltrona. "Sono la figlia di un imprenditore palermitano, sono venuta qui da sola speranzosa di trovare degli amici. Paghiamo tutti il pizzo e mio padre lo considera un costo fisso. È onesto, ha sempre camminato a testa alta pagando le tasse, ma ha paura di rimanere solo. Urlate, urlate per me che qualcosa può cambiare". Chissà se la ragazza è ancora lì quando mille mani alzate a V salutano sulle note di "Ecco l'isola che non c'è" il battesimo dell'associazione antiracket "Libero futuro", 40 soci, la prima che si riesce a fondare a Palermo in sedici anni, dalla morte di Libero Grassi, l'imprenditore ucciso per aver detto no al pizzo nel silenzio degli industriali. Che ieri hanno voluto chiedere pubblicamente scusa alla vedova Pina Maisano Grassi con il loro nuovo leader, Ivan Lo Bello.


E adesso gli industriali chiedono persino l'iscrizione ad "Addiopizzo" l'associazione di giovani che una notte di tre anni fa tappezzarono Palermo con degli adesivi con su scritto "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". All'inizio erano sette, volevano solo aprire un pub e si chiesero che fare se qualcuno fosse venuto a chiedere "la tassa". Oggi la scelta dei figli ha finito con il trascinare i padri. A Tano Grasso, presidente della Federazione antiracket, brillano gli occhi a ricordare la strada fatta negli ultimi 17 anni da quando, dal suo negozio di scarpe di Capo d'Orlando, si mise insieme ad altri commercianti per denunciare gli estorsori della cosca di Tortorici. Ai sottosegretari Ettore Rosato e Sandro Pajno, dice che "delle risposte di questo governo non siamo affatto soddisfatti, non ha mostrato alcun segno di discontinuità con il passato, non ha capito che noi siamo una risorsa". Poi passa il testimone al presidente dell'associazione "Libero futuro". Enrico Colajanni è il figlio di Pompeo il "partigiano", è uno dei fondatori di Addiopizzo. Al decalogo del bravo mafioso di Salvatore Lo Piccolo risponde con il decalogo del bravo commerciante: "Caro collega, non intrattenere rapporti di alcun tipo con persone sospette, respingi subito ogni richiesta estorsiva, non pensare di trattare con i mafiosi e soprattutto non gestire da solo momenti e decisioni così delicate. L'associazione antiracket che abbiamo costruito serve per aiutarti affinché sia tu stesso a toglierti dagli impicci". Tiene i piedi per terra Colajanni. "Oggi Palermo mi sembra grande, ma dovremo misurarci con le denunce che saremo in grado di produrre". Sullo schermo del Teatro scorre una frase di Goethe: "La paura bussò alla porta, il coraggio aprì, non c'era nessuno. Era il coraggio di un intero popolo". (11 novembre 2007)
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venerdì 9 novembre 2007

successo dello sciopero dei cobas

Sciopero, i Cobas: fermi in 2 milioni, 400mila al corteo


Sarebbero due milioni i lavoratori di tutti i settori che stanno partecipando allo sciopero generale dei sindacati di base in corso in tutt'Italia. Il dato è diffuso dagli organizzatori, secondo i quali agli oltre 25 cortei che si stanno svolgendo nei capoluoghi di regione e nelle maggiori città, partecipano oltre 400mila persone, tra le quali moltissimi precari.

In 50mila in corteo a Roma, altrettanti a Milano, secondo la Cub che parla di «partecipazione oltre ogni aspettativa. A Roma in corteo con slogan e striscioni anche i precari di molte aziende e dei call center, della Camera dei Deputati, Ikea, Policlinico di Tor Vergata, della Croce Rossa».


«No al protocollo del 23 luglio, no alla Finanziaria, no alla precarietà. Diritto al lavoro, diritto al reddito». È questo lo striscione che apre il corteo partito da Piazza della Repubblica, a Roma, organizzato dai sindacati di base in concomitanza con la loro giornata di sciopero generale.

Dietro il grande striscione sono sventolate le bandiere dei Cobas e delle Rdd Cub che partecipano alla protesta nazionale.

In piazza, nella Capitale, sono scesi lavoratori, tantissimi i precari della Sanità e della Scuola che aderiscono al sindacalismo di base.

Tra i manifestanti i lavoratori interinali e delle cooperative dell'Ospedale Sant'Andrea che, travestiti da fantasmi, con tanto di lenzuolo bianco indosso e cappello da fantasma, stanno sfilando lanciando il messaggio «Sono passati due anni non avete fatto niente di sinistra», come recita un loro striscione.

Accanto ci sono altri colleghi della Sanità di Roma e del Lazio e anche un'ambulanza che sfila a sirene accese.

I "No" dei sindacati di base sono contro la manovra finanziaria, il protocollo sul welfare e la precarietà, a favore di «una politica di redistribuzione del reddito e di rilancio del sistema previdenziale pubblico insieme alla tenuta del contratto nazionale e il reinserimento della scala mobile. Pensiamo che questo sciopero sarà molto partecipato» assicura Pierpaolo Leonardi, coordinatore della Cub. In particolare, hanno spiegato gli organizzatori, lo sciopero è stato proclamato per chiedere salari europei con rivalutazione automatica all'aumento dei prezzi; il taglio delle tasse su salari e pensioni portando la prima aliquota Irpef dal 23 al 18 per cento; il lavoro stabile con l'abolizione del pacchetto Treu e della legge 30; il rilancio della previdenza pubblica.

Gli atenei. Studenti de La Sapienza sfilano in un corteo non autorizzato, mentre prosegue anche l'occupazione della facoltà di Lettere. «Tempo scaduto: i bamboccioni si ribellano» è lo striscione in testa alla protesta firmato da studenti e precari dell'ateneo, formati per lo più dai collettivi studenteschi e dalla rete per l'autoformazione.

Il corteo più tardi si unirà alla manifestazione dei Cobas. «Siamo in piazza per avere maggiore diritto allo studio: più borse e meno numeri chiusi», urlano gli studenti dal megafono. «Protestiamo - continua Giorgio Sestili, studente di Fisica - contro la dequalificazione dell'università i tagli della finanziaria e la mancanza di politiche sociali. Diciamo no al protocollo sul welfare del 23 luglio». «No alla precarietà», dicono gli studenti.

Venerdì nero per chi deve spostarsi, anche in città, e per chi deve rivolgersi a un ospedale o recarsi a uno sportello pubblico: lo sciopero generale dei sindacati di base proclamato per la giornata per le aziende pubbliche e private infatti riguarda, secondo i dati della Cub, oltre 1,5 milioni di lavoratori, con riflessi significativi soprattutto nei trasporti e nella pubblica amministrazione. Nella stessa giornata sono previste circa 32 manifestazioni nei capoluoghi di regione e nelle principali città; i Cobas dei sindacati contano di portare in piazza oltre 350mila persone, 50mila delle quali in corteo di Roma dove, insieme a Milano, si svolgono le manifestazioni più importanti. Ovunque sono rispettate le fasce di garanzia e assicurati i servizi minimi, afferma il coordinatore nazionale della Cub Pierpaolo Leonardi.

Per i trasporti, le fasce di astensione sono articolate per settore ma i disagi maggiori potrebbero riguardare mezzi pubblici urbani, soprattutto a Roma e Milano, e il trasporto aereo: per la sola Alitalia i voli cancellati sono 96, di cui 30 tagliati a Fiumicino; altre compagnie potrebbero cancellare collegamenti. Anche per ospedali e sportelli della sanità pubblica i cittadini devono attendersi funzionamenti a singhiozzo, assicurano gli organizzatori della protesta che ha nel mirino Finanziaria, accordo sul welfare e precariato.

E se venerdì gli utenti devono mettere in conto una giornata difficile, il venerdì ancora più nero sarà quello del 30 novembre, con i trasporti pubblici a rischio paralisi per lo sciopero generale di 8 ore indetto questa volta dai sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil a motivo della non centralità e le scarse risorse per il settore in Finanziaria. Uno sciopero bollato come «irregolare» dalla Commissione di garanzia. Le Fs prevedono invece una circolazione dei treni pressochè regolare.




Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 18.20
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giovedì 8 novembre 2007

Congresso straordinario CGIL contro il golpe sociale

Esiste una sorta di Piano Rinascita (il famigerato documento della Loggia P2) riguardante le relazioni sindacali. E' un corso una sorta di golpe sociale che ha delle tappe ben determinate e delle campagne propagandistiche adeguate allo scopo che si vuole raggiungere. Qual'è lo scopo? Lo scopo è lo smantellamento di tutte le tutele che il movimento sindacale dei lavoratori ha conquistato nel corso di tutta la sua esistenza a cominciare dai primi del Novecento.
Si orchestrano appropriate campagne con grande coinvolgimento di personaggi dell'economia e della politica e massmedia mobilitati permanentemente. La campagna contro i "fannulloni" è finalizzata all'ottenimento di riforme nella pubblica amministrazione rivolte ad esternalizzare la maggiore quantitò possibile di competenze e di poteri ed attaccare le tutele in caso di malattia per tutti i dipendenti pubblici e privati. La campagna contro gli sprechi punta all'unificazione degli enti previdenziali allo scopo di restringere gli ambiti di interv ento dell'Inail considerati troppo onerosi in un Paese in cui ci sono quattro infortuni mortali al giorno e diecine di migliaia di mutilati ed invalidi all'anno. La campagna contro i bassi salari punta alla detassazione (richiesta Epifani) per indebolire le aliquote di finanziamento della previdenza, la campagna per premiare i meritevoli introduce una differenziazione personalistica nei rapporti di lavoro che mira a sviluppare inimicizia e competitività tra i lavoratori e tra gruppi di lavoratori.

La prossima tappa di questa campagna è l'abolizione di fatto della madre di tutte le tutele dei lavoratori: il contratto collettivo nazionale di lavoro. L'obiettivo è la sua liquidazione a vantaggio della "contrattazione" (si fa per dire) individuale anche se si promette un rafforamento della contrattazione aziendale. La liquidazione del ccnl unita alla legge Biagi riporterebbe i lavoratori italiani all'anno zero della loro vita come classe sociale organizzata. In un Paese come l'Italia in cui il nanismo aziendale è prevalente significherebbe privare dall'oggi al domani milioni di persone del loro punto di riferimento, dello strumento di regolazione della loro vita lavorativa. Senza il contratto collettivo nazionale di lavoro
quasi dappertutto non surrogabile da contratti aziendali
sarebbe difficile avere retribuzione dignitose e diritti.
Senza essere complottista, ritengo che ci siano intese ufficiose al riguardo tra Confindustria e Confederazioni sindacali.
Non sono casuali le dichiarazioni di Epifani dei giorni scorsi sul grande numero di ccnl da "razionalizzare" e le dichiarazioni di Montezemolo alla vigilia dello sciopero nazionale dei sindacati di base di oggi. Naturalmente la Cisl ha già aderito con la Conferenza svoltasi recentemente.
Dal momento che questo progetto alla faccia della democrazia dei grandi numeri (spesso fasulli e comunque incontrollabili del recente referendum sul welfare) si attuerà nelle prossime settimane sarebbe opportuno che le forze che dentro le Confederazioni sono contrarie al golpe sociale chiedessero il Congresso straordinario. Mi riferisco in particolare alla CGIL che si vedrebbe sconvolta la politica contrattuale e sociale decisa dal Congresso e già gravemente lesionati dagli accordi di rinunzia alla lotta alla Biagi, di cessione del TFR, di un sistema pensionistico lontano dagli orientamenti del Sindacato.
Bisogna bloccare la deriva autoritaria che si vorrebbe imporre alla conduzione di questa difficile fase della vita del movimento sindacale italiano.
Pietro Ancona

http://www.corriere.it/economia/07_novembre_08/montezemolo_contratti.shtml

la legge Mancino. Uno strumento contro il razzismo

La "Legge Mancino"

Pubblichiamo il testo integrale della legge 205/93, più nota come "Legge Mancino", dal nome del suo primo proponente.

Articolo 1
Articolo 2
Articolo 3
Articolo 4
Articolo 5
Articolo 6
Articolo 7
Articolo 8

Articolo 1
(Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi)


1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell'attuazione della disposizione dell'articolo 4 della convenzione, è punito:

A) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

B) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.


2. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la
reclusione da uno a sei anni.

Inizio pagina

1-bis. Con la sentenza di condanna per uno dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, il tribunale può altresì disporre una o più delle seguenti sanzioni accessorie:

A) obbligo di prestare un'attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità, secondo le modalità stabilite ai sensi del comma 1-ter;

B) obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un'ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno;

C) sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti di identificazione validi per l'espatrio per un periodo non superiore ad un anno, nonché‚ divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere;

D) divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni.

1-ter. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Ministro di Grazia e Giustizia determina, con proprio decreto, le modalità di svolgimento dell'attività non retribuita a favore della collettività di cui al comma 1-bis, lettera a).

1-quater. L'attività non retribuita a favore della collettività, da svolgersi al termine dell'espiazione della pena detentiva per un periodo massimo di dodici settimane, deve essere determinato dal giudice con modalità tali da non pregiudicare le esigenze lavorative,
di studio o di reinserimento sociale del condannato.

1-quinquies. Possono costituire oggetto dell'attività non retribuita a favore della collettività: la prestazione di attività lavorativa per opere di bonifica e restauro degli edifici danneggiati, con scritte, emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o
gruppi di cui al comma 3 dell'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654; lo svolgimento di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, quali quelle operanti nei confronti delle persone handicappate, dei tossicodipendenti, degli anziani o degli extracomunitari; la prestazione di lavoro per finalità di protezione civile, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, e per altre finalità pubbliche individuate con il decreto di cui al comma 1-ter.

1-sexies. L'attività può essere svolta nell'ambito e a favore di strutture pubbliche o di enti ed organizzazioni privati.

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Articolo 2
(Disposizioni di prevenzione)


1. Chiunque, in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila.

2. È vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno.

3. Nel caso di persone denunciate o condannate per uno dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, o per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 del presente decreto, nonché‚ di persone sottoposte a misure di prevenzione perché‚ ritenute dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica, ovvero per i motivi di cui all'articolo 18, primo comma, n. 2-bis), della legge 22 maggio 1975, n. 152, si applica la disposizione di cui all'articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e il divieto di accesso, conserva efficacia per un periodo di cinque anni, salvo che venga emesso provvedimento di
archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento o provvedimento di revoca della misura di prevenzione, ovvero se è concessa la riabilitazione ai sensi dell'articolo 178 del codice penale o dell'articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327.

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Articolo 3
(Circostanza aggravante)


1. Per i reati punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.

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Articolo 4
(Modifiche a disposizioni vigenti)


1. Il secondo comma dell'articolo 4 della legge 20 giugno 1952, n. 645, è sostituito dal seguente:

Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni.

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Articolo 5
(Perquisizioni e sequestri)


1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, l'autorità giudiziaria dispone la perquisizione dell'immobile rispetto al quale sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, di deposito o di rifugio o per altre attività comunque connesse al reato. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l'autorizzazione telefonica del magistrato competente possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore.


2. È sempre disposto il sequestro dell'immobile di cui al comma 1 quando in esso siano rinvenuti armi, munizioni, esplosivi od ordigni esplosivi o incendiari ovvero taluni degli oggetti indicati nell'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110. È sempre disposto, altresì, il sequestro degli oggetti e degli altri materiali sopra indicati nonché‚ degli emblemi o materiali di propaganda propri o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alle leggi 9 ottobre 1967, n. 962, e 13 ottobre 1975, n. 654, rinvenuti nell'immobile. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 324 e 355 del codice di procedura penale. Qualora l'immobile sia in proprietà, in godimento o in uso esclusivo a persona estranea al reato, il sequestro non può protrarsi per oltre trenta giorni.


3. Con la sentenza di condanna o con la sentenza di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale, il giudice, nei casi di particolare gravità, dispone la confisca dell'immobile di cui al comma 2 del presente articolo, salvo che lo stesso appartenga a persona estranea
al reato. È sempre disposta la confisca degli oggetti e degli altri materiali indicati nel medesimo comma 2.

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Articolo 6
(Disposizioni processuali)


1. Per i reati aggravati dalla circostanza di cui all'art. 3, comma 1, si procede in ogni caso d'ufficio.


2. Nei casi di flagranza, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di procedere all'arresto per uno dei reati previsti dai commi quarto e quinto dell'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110, nonché quando ricorre la circostanza di cui all'articolo 3, comma 1, del presente decreto, per uno dei reati previsti dai commi primo e secondo del medesimo articolo 4 della legge n. 110 del 1975.

2-bis. All'articolo 380, comma 2, lettera l), del codice di procedura penale, sono aggiunte, in fine, le parole: delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3, comma 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654.


3. Per i reati aggravati dalla circostanza di cui all'articolo 3, comma 1, che non appartengono alla competenza della corte di assise è competente il tribunale.


4. Il tribunale è altresì competente per i delitti previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654.


5. Per i reati indicati all'articolo 5, comma 1, il pubblico ministero procede al giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall'articolo 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini.

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Articolo 7
(Sospensione cautelativa e scioglimento)


1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 762, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente, ai sensi dell'articolo 3 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, la sospensione di ogni attività associativa.
La richiesta è presentata al giudice competente per il giudizio in ordine ai predetti reati. Avverso il provvedimento è ammesso ricorso ai sensi del quinto comma del medesimo articolo 3 della legge n. 17 del 1982.

2. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengono meno i presupposti indicati al medesimo comma.

3. Quando con sentenza irrevocabile sia accertato che l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi abbia favorito la commissione di taluno dei reati indicati nell'articolo 5, comma 1, il Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri,
ordina con decreto lo scioglimento dell'organizzazione, associazione, movimento o gruppo e dispone la confisca dei beni. Il provvedimento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

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Articolo 8
(Disposizioni finali)


1. Il settimo comma dell'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110, è abrogato.

2. Le disposizioni dei commi da 1 a 5 dell'articolo 6 si applicano solo per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.


Amato - Mancino - Conso

Visto, il Guardasigilli: Conso

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lettera ai promotori del Venti Ottobre

Cari compagni Sansonetti, Sullo e Polo,

avete avuto l'idea di convocare la manifestazione del xx ottobre quando io stesso e moltissimi compagni eravamo contrari (ci sbagliavamo) perchè la ritenevano un esercizio motorio, uno sfogatoio per coprire la cedevolissima presenza della sinistra del governo
e attraversare il tempo (sono già passati quasi due anni) per giungere senza rotture traumatiche alla fine della legislatura. In effetti, non solo è stupefacente la condotta di Ferrero e degli altri della sinistra di governo ma anche dei gruppi parlamentari se è vero che ieri su una questione di fondamentale importanza per la laicità dello Stato si è registrata l'astensione dei senatori che equivale ad un no. Insomma, mi pare di rivivere, seppur in un quadro di gran lunga peggiore, l'esperienza dei socialisti che con Riccardo Lombardi direttore dell'Avanti! contestavano i "ministerialisti", la destra che con il governo e le mutazioni genetiche del corpo del Partito si andava formando e che poi, dopo tanto tempo, è degenerata nel craxismo ed ancora dopo la diaspora nel berlusconismo.
In effetti, stento a credere ad errori di ingenuità di persone per la prima volta alle prese con responsabilità di governo. Avevo avuto modo di protestare con Ferrero per il suo comportamento verso il muro di Via Anelli e poi, cosa per me gravissima, il festeggiamento con Zanonato dell'avvenuta deportazione degli abitanti dalla stessa via.
Non sento alcuna protesta dentro il Governo dei pogrom sia pure incruenti che la polizia fa dei campi situati alle rive del Tevere e dell'Aniene. Penso che siano illegittimi e contro i diritti delle persone. Penso che non sia umano sdradicare i bambini dalle loro zone dove frequentano le scuole. Veltroni non si è fatto scrupolo di trattare la questione delle favelas romane come di una lebbra da guarire allontanandola con la violenza poliziesca dalla vista.
Io la penso come Parlato e Cremaschi. Meglio la crisi del governo anche a costo che ritorni Berlusconi. Io non credo comunque che tornerà Berlusconi se la sinistra ritroverà se stessa come il venti ottobre dove il gruppo dirigente appariva però devirilizzante della grandezza e della forza del popolo convenuto. Ritengo che se il prezzo della salvezza del governo è colonizzare la sinistra con la cultura di destra questo sia cosa da impedire a tutti i costi. I governi passano ma le profonde mutazioni culturali e del sentire comune restano. In ogni caso, penso che se ci fosse stata minore arrendevolezza dei nostri ministri non saremmo a questo punto difficilissimo. Prodi non si sarebbe spinto molto se non avesse saputo che al dunque ferrero cedeva. Con Dini è assai più cauto e comprensivo.
Si dovrebbe chiedere il rimpasto del governo e non approvare nè il decreto della vergogna nè gli accordi del welfare che preludono ad altre altre gravi spoliazioni dei diritti del lavoro come la saponificazione dei ccn. Si dovrebbe chiedere anche il Congresso straordinario della CGIL.
Mi domando perchè non si presenti un progetto pèr l'integrazione dei Rom e per aiutare concretamente i lavoratori a pagarsi un affitto o a farsi una casa e un organico progetto per gli schiavi stagionali delle nostre campagne. La sinistra non dove frenare l'azione del governo, deve prendere l'iniziativa di fare, di proporre, di spostare alla solidarietà ed alla spesa sociale una parte delle risorse.
Concludo rammaricandomi del fatto che nessun contatto esiste tra la sinistra ed i popoli delle favelas. Nel primo novecento, i socialisti propagandavano il socialismo con l'alfabetizzazione e la costituzione delle società di mutuo soccorso e le cooperative. Oggi si tratta sempre di stare in mezzo al popolo e non farsi descrivere le favelas da Concita de Gregorio e Giuseppe D'Avanzo.
Ma credo che non si farà niente se non quella che Cremaschi chiama "la politica della riduzione del danno." ed intanto il sottosegretario Luigi Manconi invita dall'Unità a criminalizzare i genitori rom dei bambini mendicanti, togliere loro la patria potesta ed istituzionalizzarli magari per pagare rette salate a istituti religiosi ed affidarli a persone che non di rado sono risultate pedofile e violente.
Pietro Ancona
già segretario della CGIL siciliana
già membro del CNEL

lettera ad un uomo di governo

Caro Manconi,

lei che pur viene da una lunga e tormentata emarginazione, dimentico di questa e del fatto che i diritti umani e civili sono indivisibili e garantiti dai documenti prodotti nei momenti migliori della storia dell'umanità, scrive oggi sull'Unità, il giornale che fu di Antonio Gramsci e la voce del movimento comunista italiano

"In altri termini, se la sospensione della patria potestà o la condanna penale nei confronti dei genitori o altre misure altrettanto severe rispondono ai due criteri prima indicati (efficacia del provvedimento ed efficacia delle soluzioni alternative per l’affidamento dei minori), esse vanno assunte senza aspettare che politiche pubbliche, strategie sociali e programmi culturali ottengano il giusto risultato: il fatto, cioè, che siano quegli stessi genitori a rinunciare all’uso manipolatorio dei propri figli. Insomma, siamo in presenza di un caso dove - mentre si lavora per rimuovere le cause lontane - si deve agire, e subito, per intervenire, qui e ora, su ciò che, qui e ora, dolorosamente accade.!"

Insomma lei propone di strappare alle loro famiglie i bambini e di istituzionalizzarli o di affidarli in adozione a famiglie magari stanche di cercarli all'estero e nei paesi più poveri del mondo.
Non ho mai condiviso le decisioni dei giudici italiani che hanno strappati bambini a famiglie che non potevano dimostrare di poterli mantenere. Sono provvedimenti pieni di un contenuto di oppressione classista intollerabile dal momento che lo Stato anzicchè pagare le rette alle istituzioni (spesso religiose) potrebbe aiutare le famiglie senza distruggerle. Ma forse per lei la distruzione di una famiglia di povera gente non è importante!!
En passant aggiungo che spesso gli orfanotrofi gestiti da religiosi sono lagers e non mancano casi di pedofilia,
molestie, violenze e quanto altro le lascio immaginare.

Io sono stato il primogenito di una famiglia poverissima. Eravano tre fratelli e quattro sorelle. Mio padre era un povero venditore ambulante e tuttavia quasi sempre riusciva ad assicurarci il pane. In certi periodi dell'anno, quando a casa entrare il mostro della fame, io saltavo di andare a scuola e facevo il venditore di frutta per le scale di Agrigento città che è tutta scale almeno come io ne conservo tristissimo ricordo. Avevo dodici o tredici anni ed andavo in giro dal mattino presto con una grossa cesta di almeno venti chili di frutta assicurata da una robusta cinghia alle spalle che ancora me li sento bruciare e doloranti. In giro fino a quando non vendevo tutto. La frutta che restava invenduta annullava il piccolo guadagno.Sono trascorsi oltre cinquanta anni di allora.
Lei crede che io ero sfruttato dai miei genitori? lei crede che sono sfruttati i bambini siciliani che a migliaia ancora oggi servono nei bar e fanno vari servizi quando dovrebbero essere o a scuola o a giocare per vivere una fanciullezza ed una adolescenza che non conosceranno mai?
Rovesciare la responsabilità di questo sui genitori (magari perchè hanno fatto troppi figli) è operazione tipica della ideologia reaganiana che ha ribadito essere la povertà una colpa ed i poveri colpevoli. Sono poveri perchè non virtuosi oppure perchè Dio li ha voluto punire.
Sui rom si informi meglio. I loro bambini andavano regolarmente a scuola prima che i Sindaci di Pavia, di Bologna e Veltroni (sindaco della più grande favelas dell'occidente) distruggessero i loro miseri accampamenti li sdradicassero dalle scuole che frequentavano senza prospettare alcuna alternativa. Si faccia raccontare dall'associazione Pasolini di Pavia che cosa è successo ai piccoli rom dopo la deportazione delle loro famiglie dall'ex Snia dove abitavano da anni.
La sua soluzione sarebbe piaciuta ad Hitler. I collaboratori di Hitler agivano sulle sue stesse coordinate. Decoro borghese delle città, ordine e pulizia
più importante degli esseri umani. Se provo ad immaginarvi visivamente il nazismo vedo grandi geometrie ordinatissime, citta controllate dai poliziotti, E non finga di ignorare che l'invasione dei rumeni e degli altri (come la chiamate) è dovuta alle aziende lagers che abbiamo impiantato in Romania ed in Polonia a salari di 150 euro al mese, è dovuta allo sconvolgimento della penisola balcanica che l'Italia ha inondato di bombe all'uranio per condannare ad essere mostri anche i bambini che ancora debbono nascere; è dovuta al muro di Israele ed all'atroce occupazione dello Irak e dell'Afghanistan che dura da tanti anni.
Che un uomo di legge, sottosegretario alla Giustizia proponga le misure razziste che lei suggerisce seppur velandone un poco ambiguamente con un "se", lascia sperare assai poco su questo Governo.
Cordiali saluti.
Pietro Ancona

mercoledì 7 novembre 2007

90 anniversario rivoluzione d'ottobre

JOHN REED E LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE


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Figlio di una famiglia agiata, John Reed nacque il 10 ottobre 1887 a Portland, nell'Oregon. Dopo gli studi nella prestigiosa università di Harvard, fece un brillante debutto in campi letterari diversi: poesia, drammaturgia, saggistica. I suoi biografi, D. Walker e R. O'Connor, hanno scritto che l'origine sociale di Reed e l'educazione ricevuta lo avevano magnificamente preparato a difendere lo status quo più che ad attaccarlo, Ma, contro ogni aspettativa quest'uomo, sin dal suoi primi racconti, volle prestare attenzione alle contraddizioni sociali del mondo del lavoro. Che cosa lo spingeva? La prima dolorosa esperienza l'ebbe a Paterson, nel New Jersey, quando venne arrestato per aver partecipato a uno sciopero operaio. Il saggio Guerra a Paterson (1913) mostra chiaramente che le sue simpatie andavano ai lavoratori.

Come corrispondente del giornale World fu inviato in Messico, dove stava per scoppiare la guerra civile. L'opera Messico insorto (1914) dà la netta impressione che Reed non sia stato allora un semplice cronista-spettatore degli avvenimenti ma un diretto protagonista, un attivo combattente per la rivoluzione. Sempre più si stava rendendo conto che la lotta di classe fra il proletarIato e la borghesia era inevitabile. Per convincersene definitivamente gli bastò un soggiorno più che triennale sui campi di battaglia dell'Europa occidentale durante la prima guerra mondiale.

Nella primavera e nell'estate 1917, quando gli Stati Uniti si lasciarono prendere dall'isteria bellicista -sapientemente alimentata dai business circles e dagli ambienti governativi che speravano di trarre il massimo dalla decisione di entrare in guerra - John Reed, di ritorno dall'Europa, dichiarò apertamente sulla stampa e nel corso di vari incontri che la guerra in corso era una guerra di rapina, estranea agli interessi dei popolo americano, e che lui non vi avrebbe preso parte, anche a costo d'essere arrestato e processato. L'opera che documenta l'evoluzione del suo pensiero, in questo periodo, è La guerra in Europa occidentale.

Mentre seguiva attentamente lo svolgersi della lotta armata in Europa, apprese con entusiasmo la vittoria della rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 in Russia. Nell'agosto dello stesso anno si recò là in qualità di corrispondente di guerra della rivista socialista The Masses. Lo accompagnò la moglie Louise Bryant, anch'essa giornalista.

Giunto a Pietrogrado fu subito messo di fronte alla situazione che si era creata in seguito alla repressione della sommossa controrivoluzionaria di Kornilov e avvertì immediatamente la forte ostilità fra la borghesia e il proletariato; lo dimostra un'intervista che gli concesse il magnate petrolifero S. Liazanov, il “Rockefeller russo”. Reed rimase sbalordito dalla franchezza del suo interlocutore. Liazanov infatti gli spiegava che cosa facevano le classi possidenti per far morire di fame la rivoluzione: inondavano le miniere, distruggevano i macchinari delle fabbriche e delle officine, chiudevano le imprese, disorganizzavano il traffico ferroviario. In una parola, gli aveva detto che per nessuna ragione al mondo gli imprenditori avrebbero permesso agli operai di poter controllare la produzione. Il giornalista americano trasse la conclusione che fra operai e capitalisti non c'era niente in comune, e che se per gli uni la rivoluzione era una malattia da curare, per gli altri si trattava di una questione di vita o di morte: l'unica via in grado di portarli alla liberazione tanto attesa.

Che l'ultima decisiva battaglia fosse imminente Reed poteva verificarlo molto facilmente nel corso delle numerose riunioni e manifestazioni operaie cui assisteva nelle aziende che con immenso piacere aveva l'opportunità di visitare. In una lettera alla redazione del suo giornale Reed afferma che, per ampiezza e profondità, quanto stava per accadere in Russia eclissava completamente ciò ch'egli aveva potuto vedere in Messico. Dopo aver fatto un viaggio sul fronte dei nord in compagnia dei giornalista americano A.R. Williams, ed essersi intrattenuto coi soldati e gli ufficiali della 12a Armata che combatteva contro i tedeschi presso Riga, Reed s'accorse che i soldati - non solo di quella ma di tutte le armate al fronte - non volevano più continuare la guerra, e che per loro l'unica speranza era il trionfo della rivoluzione proletaria.

Tracciando lo sviluppo degli avvenimenti ch'ebbero luogo in Russia dal febbraio all'ottobre 1917, Reed scriveva che la rivoluzione di febbraio era stata popolare, non semplicemente borghese. Egli comprese che la vittoria della rivoluzione era legata all'iniziativa delle masse popolari - operai, soldati, contadini - guidate dal partito bolscevico, ma di questo, in verità, s'era reso conto anche il governo provvisorio di Kerenski, il quale, due giorni prima della rivoluzione socialista, dichiarò alla stampa d'aver forze sufficienti per reprimere qualunque tentativo d'insurrezione bolscevica. Reed, in un articolo dedicato a questo statista, si dichiarò però convinto ch'egli non sarebbe riuscito in nessun modo a evitare lo scontro decisivo fra le due classi antagoniste e che in questo scontro il proletariato avrebbe sicuramente vinto.

La giornata del 7 novembre (25 ottobre, secondo il vecchio calendario) venne descritta da Reed con molti dettagli. La piazza dove si trovava il palazzo d'Inverno - l'antica residenza degli zar, ora baluardo del governo provvisorio borghese - era presidiata (la sentinelle in tutti i suoi punti strategici. Anche A. R. Williams ricorda con emozione quegli avvenimenti nei suo libro Viaggio nella rivoluzione. Essi fecero visita al palazzo d'Inverno poco prima dell'assalto rivoluzionario, ma vedendo i loro lasciapassare, concessi dal comitato militare rivoluzionario, una sentinella non li lasciò entrare. Allora mostrarono i passaporti americani a un'altra sentinella, pensando in questo modo di poter entrare facilmente; ancora non s'erano resi conto che da 10 ore il palazzo era circondato da soldati, guardie rosse e marinai bolscevichi pronti a intervenire da un momento all'altro.

Quel giorno gli unici giornalisti stranieri presenti nella sede del governo provvisorio furono loro tre: Reed, sua moglie e Williams. Vi rimasero però ben poco. Preferirono recarsi al vecchio istituto Smolny dove si trovava lo stato maggiore della rivoluzione e fu appunto lì che il soviet di Pietrogrado, riunito in seduta straordinaria, dichiarò che il governo provvisorio era stato rovesciato.

Appresa la notizia, Reed e i suoi compagni guadagnarono la sala delle conferenze dove si tenne il Il congresso dei soviet di Russia e ne seguirono tutti i lavori, sentendo parlare per la prima volta Lenin. Dopodiché si recarono sul luogo della vittoria proletaria, consapevoli d'essere testimoni d'un avvenimento assolutamente eccezionale.

Reed comprendeva bene la complessità della situazione. Il 17 novembre scriveva che la borghesia, sebbene sconfitta, non era stata ancora disarmata e che, allo stesso tempo, non c'era in Russia alcuna forza capace di tener testa ai bolscevichi, i quali, ponendo nel loro programma immediato i tre fondamentali obiettivi: pane, pace e terra, avevano ottenuto vastissimi consensi.

Il 10 novembre, infatti, Reed, usufruendo di un pass concessogli dal soviet di Pietrogrado, era partito per le linee avanzate del fronte settentrionale (presso Pietrogrado) dove si svolgevano dure battaglie contro le truppe di Kerenski (e nello stesso giorno, presso le alture di Pulkovo, contro il III corpo di cavalleria del generale Krasnov).

La rivista The Liberator pubblicò il suo articolo, scritto nella cabina d'un camion, sulla sconfitta definitiva di queste forze controrivoluzionarie. Ma Reed non si accontentò di mettere il suo talento di giornalista al servizio della rivoluzione, volle anche lavorare nell'ufficio della propaganda rivoluzionarla internazionale presso il Commissariato del popolo agli affari esteri, dove preparava materiali destinati a essere diffusi fra le truppe e i prigionieri di guerra tedeschi. Scrisse poi una serie di articoli intitolati Insurrezione del proletariato che spedì alla rivista Masses, i cui redattori però non poterono stampare perché tratti in arresto.

Circa 4 mesi dopo una parte degli articoli, leggermente modificati, venne pubblicata con il titolo Red Russia nella rivista Liberator, che aveva rimpiazzato Masses. Ma all'inizio del febbraio 1918 Reed dovette lasciare Pietrogrado per difendere la causa dei redattori di Masses, che stavano per essere processati. I diplomatici americani dell'ambasciata di Pietrogrado cercarono di ostacolare questa sua decisione facendolo restare due mesi a Oslo, e quando finalmente arrivò a New York, il 28 aprile, la polizia federale gli sequestrò tutti i documenti sulla rivoluzione d'Ottobre e solo dopo molti mesi d'insistenti richieste glieli restituì.

Reed svolse negli Usa intense attività rivoluzionarie. Militò nelle file dell'ala sinistra del partito socialista, fece una serie di conferenze per tutto il paese smentendo le affermazioni della stampa borghese sull'Ottobre, lottò per la creazione d'un partito comunista. Il 1 maggio fece pubblicare nel giornale socialista The New York Call una sua dichiarazione sulla coraggiosa lotta dei proletariato sovietico contro l'imperialismo russo e tedesco.

Questa attività e queste prese di posizione allarmarono le autorità americane che vietarono un meeting, precedentemente autorizzato, a Filadelfia. Reed parlò lo stesso a diverse centinaia di persone in un viale della città, per cui venne arrestato e coloro che tra la folla cercarono di proteggerlo vennero malmenati dalla polizia. Reed fu accusato di incitamento alla rivolta ma data l'assoluta inconsistenza dell'accusa fu rilasciato su cauzione. Questo gli permise di recarsi negli stati del middle west e di parlare della rivoluzione russa a Cleveland, a Detroit e in altre città. La sorveglianza della polizia e le perquisizioni in casa sua aumentarono. A Detroit diverse persone furono arrestate.

Quando, durante l'estate 1918 le truppe di non pochi stati capitalisti decisero di invadere i territori dell'Urss, Reed rivolse all'amministrazione del suo paese e ai governi degli altri paesi interventisti un appello dal titolo Dovete riconoscere la Russia!, dove cercava di mettere in luce l'inconsistenza delle tesi della stampa borghese, secondo cui l'intervento dei paesi capitalisti sarebbe stato giustificato dal cosiddetto “tradimento” dei russi che avevano osato firmare nel marzo 1918 la pace di Brest-Litovsk con i tedeschi.

In questa stessa estate Reed si dimise dal consiglio di redazione della rivista Liberator per non dover avallarne i cedimenti politici, ma non smise di collaborarvi. Nel settembre fu però di nuovo arrestato per aver condannato l'intervento dell'Intesa in Russia e pochi giorni dopo il giornale New York Call pubblicò una sua lettera in cui Reed faceva chiaramente intendere che non si sarebbe lasciato intimidire da nessuno.

Nel processo infatti non si comportò come un accusato ma come un accusatore, tanto che i giurati non ebbero il coraggio di condannarlo. Reed poté così scrivere articoli su articoli, difendendo le conquiste della rivoluzione d'Ottobre, il suo carattere popolare e pacifico, democratico e socialista.

Alla fine del 1918-inizio 1919 Reed lavorò intensamente al suo più famoso libro I dieci giorni che sconvolsero il mondo, che Lenin stesso apprezzò raccomandandone la diffusione fra gli operai di tutti i paesi del mondo. Appena il manoscritto fu consegnato all'editore, Reed fu costretto a comparire davanti alla commissione senatoriale speciale, conosciuta sotto il nome di “commissione Overman”. Alla domanda del comandante Humes, un portavoce del Ministero della difesa: “Avete mai parlato nei vostri interventi pubblici della necessità di fare negli Stati Uniti una rivoluzione simile a quella avvenuta in Russia?”, Reed rispose coraggiosamente che non desiderava altro. Cercando di screditarlo, la stampa borghese (anzitutto il New York Times) ricorse alla calunnia e alla falsificazione delle sue deposizioni davanti alla commissione.

Reed inviò alla redazione del New York Times una lettera con cui denunciava i calunniatori che lo accusavano d'essere un agente pagato dai bolscevichi. Il quotidiano respinse la lettera, che fu invece pubblicata dalla rivista The Revolutionary Age. Il libro comunque uscì lo stesso negli Stati Uniti e venne salutato dalla stampa di sinistra come un capolavoro.

Poco dopo, alla fine del settembre 1919, Reed si recò di nuovo in Russia per partecipare ai lavori del comitato esecutivo dell'Internazionale comunista in qualità di rappresentante dei partito comunista operaio americano. Il viaggio fu pericoloso anche perché bisognava attraversare illegalmente le frontiere della Svezia e della Finlandia.

Arrivato in Russia, Reed pensò di scrivere un secondo libro sulle conquiste della rivoluzione. Raccolse molto materiale, viaggiò nel dintorni di Mosca, intervistò i lavoratori: a Serpukhov prese la parola durante un'assemblea di rappresentanti operai e incontrò Lenin, a Mosca, diverse volte, parlandogli dei suoi progetti.

Partì da Mosca nel gennaio 1920 diretto negli Stati Uniti, ma le autorità finlandesi di Abo lo arrestarono e lo incarcerarono. Rilasciato agli inizi di giugno, Reed si vide rifiutare il permesso d'ingresso dal governo americano, che lo giudicava un pericoloso militante politico. Nell'agosto dello stesso anno, in qualità di membro del comitato esecutivo dell'Internazionale comunista partecipò ai lavori del I congresso dei popoli d'oriente a Baku, nel Caucaso. Il 20 settembre chiese a Lenin di concedere un'intervista a sua moglie, Louise Bryant, poi pubblicata nel giornale Washington Times; l'argomento principale erano i rapporti, anche economici fra Usa e Urss.

Purtroppo Reed tornò da Baku a Mosca malato di tifo e le cure non riuscirono a salvarlo. La rivista Liberator annunciò la sua morte con le parole: “Deceduto mentre svolgeva il suo dovere rivoluzionario”.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Rivoluzione russa

http://www.kirjasto.sci.fi/johnreed.htm
http://www.marxists.org/archive/reed/

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