Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

domenica 7 giugno 2009

parlamentare ebreo inglese su Israele

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VIDEO: PARLAMENTARE EBREO BRITANNICO ACCUSA ISRAELE DI COMPORTARSI COME I NAZISTI

17 gennaio 2009


"Israele è nato dal terrorismo ebraico, il padre di Tzipi Livni era un terrorista". Incredibili affermazioni alla House of Parliament. Sir Gerald Kaufman, un veterano dei parlamentari laburisti, ieri ha paragonato le azioni delle truppe israeliane a Gaza ai nazisti che costrinsero la sua famiglia a scappare dalla Polonia.

Durante un dibattito alla Camera dei Comuni sui combattimenti a Gaza, egli ha esortato il governo a imporre un embargo delle armi a Israele.

Sir Gerald, che è stato cresciuto come ebreo ortodosso e sionista, ha detto: "Mia nonna era malata nel suo letto quando i nazisti entrarono nella sua casa e un soldato tedesco le sparò uccidendola mentre era a letto."

"Mia nonna non è morta per fornire una copertura ai soldati israeliani che uccidono le nonne palestinesi a Gaza. L'attuale governo israeliano sfrutta cinicamente e spietatamente la perpetua colpa dei gentili per il massacro degli ebrei nell'Olocausto come giustificazione per la sua uccisione dei palestinesi".

Egli ha detto che l'affermazione che gran parte delle vittime palestinesi fossero militanti "era la replica dei nazisti" e ha aggiunto: "Suppongo che gli ebrei che combattevano per la loro vita nel ghetto di Varsavia sarebbero potuti essere qualificati come militanti".

Egli ha accusato il governo israeliano di cercare la conquista e ha aggiunto: "non sono semplicemente dei criminali di guerra, sono dei pazzi".

YouTube - UK Jewish MP: Israel acting like Nazis in Gaza




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di ebrei cm lui in giro
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Ricordo che un paio d'anni fa il nostro presidente della repubblica () se ne usci con questa incredibile frase:


Citazione:
Bisogna combattere l'antisemitismo anche quando questo si traveste da antisionismo, perchè il sionismo è il fondamento dello stato di Israele.

A parte la colossale idiozia di fondo che valida affermazioni come "bisogna rispettare il nazismo perchè è il fondamento della germania nazista" o per par condicio "bisogna rispettare il comunismo perchè è il fondamento della cambogia di pol pot".
Probabilmente un personaggio come Napolitano se dovesse trovare a tu per tu con un Gerald Kaufman rimarrebbe a bocca aperta biascicando cose tipo "no... tu... ebreo! antisionista... ma... è impossibile!"


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giovedì 4 giugno 2009

DICHIARAZIONE DI VOTO

DICHIARAZIONE DI VOTO
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Sono un vecchio socialista di un partito socialista che non c'è più: il partito di Nenni, Lombardi, Morandi,
Brodolini, Loris Fortuna e ,prima di questi, di Lina Merlin che fece diventare civile l'Italia con la chiusura dei bordelli e l'abolizione della scritta "figlio di N.N" dalla tessera di identità. Il Partito Socialista che non c'è più fu capace di dare vita ad una stagione eccezionale di riforme cominciate con la nazionalizzazione della industria elettrica e culminate con lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori dopo avere riformato la scuola ed avere introdotto il divorzio voluto con tantissima forza da Loris Fortuna.
Alle Europee voterò comunista ,il raggruppamento che fa capo a Paolo Ferrero, Di Liberto e Salvi anche se non ho condiviso la loro prova di governo conclusasi disastrosamente per le attese dell'elettorato "operaio"deluso dalla protervia ricattatoria di Prodi e dell'ala maggioritaria iperliberista del suo Governo.

E' importante votare comunista per andare contro corrente rispetto lo smottamento a destra abbastanza rovinoso di gran parte di quella che fu la sinistra italiana ed assicurare un valido punto di riferimento a quanti paventano l'abolizione dell'art.18, vorrebbero liberarsi e liberare l'Italia dal precariato, bloccare lo smantellamento del welfare, assicurare pensioni decorose ai lavoratori, avere una politica estera di pace ed un esercito di pace, una scuola pubblica rinnovata e forte.

Un successo dei comunisti potrebbe rallentare lo smottamento a destra del PD. L'Italia ha bisogno di recuperare una grande forza di sinistra che non abbia tra i suoi deputati gli esponenti più ringhiosi della Confindustria come Calearo, Colaninno, Merloni e giuslavoristi come Ichino dediti allo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Il PD deve tornare ad essere un partito progressista. Oggi è il Partito della Confindustria che tuttavia si serve anche di altri forni per impastare il suo pane.

Il successo dei comunisti potrebbe far riflettere il PD sul suo mostruoso accordo con Berlusconi per la soglia del quattro per cento che impedisce a tutti gli orientamenti politici presenti nel Paese di avere una voce in Parlamento.
La semplificazione a due è una perdita secca per la democrazia che invece deve recuperare valori delle tante correnti culturali che hanno reso civile la politica italiana oggi ridotta a livelli di barbarie specie per il nefasto concorso dell'apparato massmediatico.
Non andrò a votare per il referendum che ribadisce ancora più negativamente il porcellum che ci obbliga ad avere un Parlamento scelto dei capi dell'oligarchia e sottratto in ogni suo membro al giudizio dell'elettorato.

Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

mercoledì 3 giugno 2009

il ridicolo nella storia

IL RIDICOLO NELLA STORIA
Alberto Asor Rosa
Penso che sarebbe opportuna una riflessione sul ruolo del ridicolo nella storia. Ridicolo: «Che suscita il riso, che induce a considerazioni derisorie e spregiative perché manca di ragionevolezza, di buon senso o di giudizio...; che espone al dileggio chi lo compie, lo mantiene o lo prova in quanto provocato da assurde convinzioni o privo di ragionevoli motivazioni...; sciocco, irragionevole, insensato, stolto» (Grande Dizionario della lingua italiana, detto il Battaglia, XVI).
Mi venivano in mente tutte queste considerazioni, e altre ancora, visionando mesi fa uno di quei bei documentari, ricchi di filmati d'epoca, che Nicola Caracciolo ha dedicato al Novecento italiano: e precisamente quel mazzetto di fotogrammi, destinato a durare una manciata di secondi, ma di straordinarie eloquenza (è il caso di dirlo), in cui Benito Mussolini, in fez, divisa e decorazioni, annunzia dal balcone di Palazzo Venezia a Roma la conquista dell'Impero: gli occhi spiritati, i pugni piantati sui fianchi, la mascella immarcescibile che, levata al cielo, ondeggia, tre o quattro volte avanti e indietro per asseverare alla folla, intensamente e persuasivamente, il pensiero appena espresso. Dio mio, ho pensato, come ha potuto questo osceno buffone, questo artistucolo da avanspettacolo, bandato con quelle volgari camuffature carnevalesche, sedurre per anni la grande maggioranza di una popolazione dal passato non del tutto inesperto e primitivo? Come, di fronte ad un tale spettacolo, la folla che gremiva la storica piazza, invece di acclamarlo forsennatamente, non lo ha liquidato all'istante con una colossale risata?
Altrettanto si potrebbe dire del suo più caro collega e amico, il forsennato tedesco Adolf Hitler: la cui oratoria alla nazione tedesca, dall'alto della tribuna notturna dello stadio di Norimberga, di fronte a migliaia di uomini schierati disciplinatamente nel quadrato «ordo» nazista (la «differenza tedesca»!), non può non imporci oggi la stessa domanda: come hanno potuto quell'isterico condizionamento, quella sorta di parossistica verve istrionica, quell'esibizione facciale-gestuale da saltimbanco, non suscitare la reazione che il ridicolo, - nelle sue molteplici forme di buffoneria, inverosimiglianza, dissennatezza - dovrebbe sempre suscitare? Ma su questo punto specifico - il ridicolo e la storia tedesca - tornerò più avanti.
Ora è inevitabile - me ne rendo conto - che il pensiero del lettore corra ai tempi nostri: i capelli finti, la bandana stretta, i tacchetti veri, le barzellette spinte, le corna dietro la testa di uno dei Primi Ministri più autorevoli d'Europa, le ossessioni sessuali, le storielle pruriginose, l'eloquio approssimativo e scarsamente italiano, l'interazione ossessiva della menzogna, il disprezzo urlato delle regole, le manie persecutorie, le battute alla vecchietta abruzzese terremotata: «vada, vada a nostre spese in uno degli alberghi della costa e si porti la crema solare!», l'esagerazione e l'irrealismo favolistico delle promesse, l'incultura esibita perfino nel modo di gestire e di vestirsi, il sorriso stereotipato e buffonesco, - insomma, tutto ciò che ci sta tutti i giorni sotto gli occhi dalla mattina alla sera, - compongono i tratti della figura più ridicola che la nostra contemporaneità abbia prodotto, il «ridicolo italiano» nella sua versione più alta e smaccata. Eppure non se ne ride: anzi, nel bene come nel male, la si prende fin troppo sul serio.
Se il quadro è questo, si pongono alcune domande e/o questioni. Innanzi tutto: esistono evidentemente tipi diversi di ridicolo nella storia: da quello grottesco, imperial-reboante, di tipo fascistico, a quello funereo, anzi tendente al macabro, del nazismo, a quello commercial-mediatico dei nostri tempi italiani, variante piccolo-borghese emergente e arrampicatrice della categoria esaminata. Ma tutti hanno, come vedremo, qualcosa in comune. Naturalmente, il ridicolo non si limita alla figura del Capo, da cui tuttavia promana. Si pensi al carnevalesco corteggio dei gerarchi nazisti: a Göring! a Hesse! Si pensi al suo (innegabilmente più guittesco) corrispettivo italiano; Starace Segretario del Pnf! Si pensi all'oggi: Gelmini Ministro della Pubblica Istruzione! La Russa Ministro della Difesa! Carfagna Ministro delle Pari Opportunità! Brunetta Ministro!
Il ridicolo del Capo, usato notte e giorno come fondamentale strumento di captazione del consenso, s'allarga a macchia d'olio, si collega con il ridicolo embrionalmente già presente nelle profondità della società circostante, contamina in qualche caso anche l'opposizione (vi risparmio gli esempi possibili, per non allungare troppo il discorso, ma vi assicuro che ne ho). Poniamo un limite storico-politico alla nostra esposizione: mi pare assolutamente innegabile che il tipo, intellettuale o politico, che potremmo definire democratico o liberal democratico, generalmente si sottrae alla categoria e alla pratica del ridicolo. Non è ridicolo Giovanni Giolitti. Non sono ridicoli Aldo Moro ed Enrico Berlinguer: ovvero lo sono lo stretto necessario che serve loro ed assicurarsi il favore della gente (dunque il ridicolo è connaturato all'esercizio stesso della politica, di qualsiasi politica? Bella domanda: bisognerà tornarci su). Se mai, per una prevalente da parte loro ricusazione dell'esibizionismo attoriale e delle pratiche camuffative, essi sono o appaiono grigi. E infatti di questo loro grigiore li si accusa come di una colpa ed un limite da parte di coloro che scelgono, come pratica politica e culturale, l'esibizionismo e la scena: basti pensare alle offese invereconde lanciate contro uomini come Giolitti e Nitti da un altro grande, grandissimo «ridicoloso» («degno di derisione», ibid) del Novecento italiano, Gabriele d'Annunzio.
La domanda principale di questo ragionamento dovrebbe dunque, se non erro, essere questa: come mai quello che ragionevolmente, e in condizioni normali, avrebbe suscitato soltanto il riso, in certi momenti della storia europea del Novecento (ma fondamentalmente, ahimè, tedesca e italiana), è divenuto una componente essenziale del successo politico di un individuo e della catastrofe culturale che ne è seguita? (e viceversa, beninteso: più esattamente, il processo si muove contemporaneamente in ambedue le direzioni). C'è chi ha già provato a definire le dinamiche di questa che, al limite, va considerata una vera e propria perversione storico-sociale, un morbo dei popoli: e, si parva licet, ci azzardiamo a chiamarlo direttamente in causa. Thomas Mann ha avuto presente ab origine il carattere ridicolo e grottesco dell'esperimento nazista: per lui Hitler, il Grande Dittatore, è in realtà «un oscuro cialtrone», «un infame ossesso», «un brigante», l'«astuto sfruttatore di una crisi mondiale», un «cane rabbioso alla catena», un «artiglio da isterico stretto a pugno», un «infernale vagabondo» (noto di sfuggita: nulla di simile è mai uscito dalla penna d'un grande intellettuale italiano del tempo, ciò non basta a marcare indelebilmente caratteri e vocazioni delle due culture).
Ci sarebbe da aggiungere qualcosa, - per restare al passato -, a proposito di quello che i grandi comici, da Petrolini a Chaplin, hanno detto sull'impura, degradata comicità dei miserabili buffoni che tentarono di fare loro concorrenza, ma lo rimanderemo alla prossima puntata.
Per spiegare come questo spropositato e sovreccitato «ridicoloso» abbia potuto sedurre un popolo dalla grande cultura come quello tedesco, Mann ricorre a due ordini di motivazioni, che possono tornare utili anche a noi. Da una parte, c'è la crisi della democrazia: la sua incapacità a risolvere i problemi di quella società in quella determinata fase storica.
È questa incapacità che apre la strada, a livello di massa, alla perdita di ogni senso del ridicolo (cioè, in altri termini: ad ogni ragionevole percezione dei valori). Dall'altra, c'è quella che io definirei la degenerazione di massa della stessa opzione e logica democratica, il rovesciamento delle normali pratiche di consenso, regolate della legge, in una sorta d'esplosione d'istinti neobarbarici, che non è più in grado di distinguere la luce della ragione (anche in questo caso, come si vede, il processo si muove contemporaneamente nelle due direzioni, dall'alto al basso e dal basso all'alto). Ascoltiamo le parole lucidissime di Mann: «L'immensa ondata di barbarie eccentrica e di volgarità primitiva, plebeamente democratica, prodotto d'impressioni violente, sconcertanti e insieme stimolanti dei nervi, inebrianti, da cui è sopraffatta l'umanità» (da Appel and die Vernunft: ossia «Appello alla ragione», un titolo che è già un programma, tenendo conto che lo scritto apparve nell'ottobre 1930, quando i tedeschi avrebbero ancora potuto tenerne conto, e non lo fecero). Dunque, parafrasando, se ci riesce, si potrebbe dire: il ridicolo come strumento di seduzione politica è il segno infallibile dell'abbandono della tradizione e del campo democratici e dell'apertura di una nuova e inquietante fascia di esperienze che, dittatura o democrazia autoritaria che sia, tendono in un modo o nell'altro a travalicarli; la perdita del senso del ridicolo a livello di massa è la prova più certa della degenerazione di un popolo in un coacervo d'individui staccati, inebriati dal fascino di un qualsiasi, - sostanzialmente replicante anche se formalmente mutante, - «infame ossesso». Intendiamoci: il ridicolo è un po' come la puzza: non tutti l'avvertono nel medesimo istante, qualcuno mai. Cioè: per definizione (definizione culturale e politica) essere in grado di avvertirlo, - vale a dire quel che solitamente definiamo senso del ridicolo, - è un fatto di per sé elitario: è difficile che le masse lo trovino per conto proprio. Però quando le masse lo hanno perso totalmente questo vuole dire che le élites sono state totalmente sconfitte, e questo apre la strada all'egemonia del «buffone»: insomma, è sempre lo stesso discorso, anzi, lo stesso processo, che però risulta declinabile in vari modi.
Per ridere dei loro impareggiabili «ridicolosi» d'un tempo, tedeschi e italiani hanno avuto bisogno d'una terribile guerra, nel corso della quale gli orpelli sono caduti uno ad uno, le divise carnevalesche si sono lacerate e il ghigno nascosto dietro la maschera si è rivelato in tutta la sua terribilità: non si poteva ancora tornare a riderne, - come è accaduto solo più tardi, del tutto a posteriori, quando, a dire la verità, non ce n'era neanche più bisogno, - per il buon motivo che non c'era più niente da ridere. Quale catastrofe dobbiamo aspettarci (e augurarci) perché gli italiani riescano a ridere del «ridicoloso» che oggi li governa?




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