Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

lunedì 8 febbraio 2010

ricordo di Piero Boni

Ricordo di Piero Boni
L'unità sindacale, l'"erga omnes", la difesa del singolo non in quanto iscritto a un sindacato ma in quanto lavoratore. Le linee guida di un uomo di idee semplici e passioni forti
Umberto Romagnoli
Il nostro ultimo incontro risale ai primi di dicembre del 2008, nel corso di un meeting celebrativo di non ricordo quale compleanno dello Spi-Cgil. L’incontro fu più caloroso del solito, perché erano sopraggiunte le condizioni che permettevano di perfezionare le nostre affinità e di farci sentire più vicini: Piero sapeva che anch’io, ormai, stavo per entrare nella categoria dei pensionati. Come dire che la cornice nella quale ebbe luogo l’incontro non poteva essere più consona al comune status.

Ci eravamo conosciuti, tramite Gino Giugni, una sera d’estate del ’62 nei pressi della sede romana dell’Intersind durante le trattative, di cui Piero era un protagonista, per il rinnovo del contratto della metalmeccanica-Iri che si sarebbero concluse col riconoscimento del principio della contrattazione articolata. Successivamente, ci sono state numerose occasioni per frequentarci: nella scuola di Ariccia, a congressi della Cgil, a convegni di studio ideati e organizzati dalla Fondazione che Piero presiedeva e, tra questi, quello svoltosi a Recanati, ove si tenne la rievocazione commemorativa di Giacomo Brodolini in coincidenza col ventesimo anniversario della sua scomparsa.

Sì, Piero mi cercava spesso e, ripensando al nostro rapporto, mi accorgo adesso che era soprattutto lui a stabilirne natura e cifra stilistica. La motivazione non era solamente la simpatia personale – spontanea quanto reciprocamente subitanea – ma anche la determinazione con cui Piero attribuiva all’esistenza del rapporto una valenza metodologica di carattere generale. Come scriverà nella prefazione di un Quaderno della Fondazione, vedeva con favore la prassi degli incontri tra studiosi e uomini d’azione, perché “hanno l’uno bisogno dell’altro e un loro confronto può riuscire utile e proficuo”. Il clima di cui si giovò la nostra pluridecennale relazione ed in cui essa affondava le sue radici era per l’appunto quello proprio di un sodalizio politico-culturale che ha potuto svilupparsi e consolidarsi sulla base di una disinteressata stima intellettuale. Di essa Piero mi onorava ed io non ho mai smesso di ricambiarla.

Nel lessico corrente è entrata da tempo un’espressione idiomatica che, riferita a lui, perde il sapore banalizzante dei luoghi comuni: Piero Boni era l’esponente di spicco di una razza in via di estinzione; e difatti sindacalisti così non ne nasceranno più. Senza idee semplici e passioni forti il sindacato sarebbe orfano di militanza di base. Ma non avrebbe nemmeno dirigenti carismatici. Come Piero Boni.

Persuaso che la divisione in sigle del movimento sindacale fosse figlia più della guerra fredda che di logiche interne del movimento, una delle sue passioni più forti – più forti delle dure repliche dell’esperienza – aveva per oggetto l’unità sindacale. Un giorno mi disse che, in materia, bisognava assumere come modello il comportamento dei generali francesi dopo Sedan. Anche loro avevano un’idea semplice e una passione forte: riprendersi l’Alsazia e la Lorena. Ci pensavano sempre, ma non ne parlavano mai. Un po’ per non essere sopraffatti dall’amarezza del pathos suscitato dallo struggimento per la perdita di quei territori e un po’ perché sapevano che il sogno non si sarebbe realizzato se non preparandone le condizioni di fattibilità con la discrezione che occorre per destreggiarsi in casi difficili. Nel nostro caso, la principale difficoltà era rappresentata dal cambiamento di segno del tradizionale legame tra sindacato e partito politico che, risolvendosi nella subalternità del primo al secondo, ostacola gravemente l’autonomia collettiva. E’ soprattutto in difesa di quest’ultima che Piero è stato un onesto, instancabile predicatore dell’unità sindacale.

Non meno tenace era la sua predilezione per l’erga omnes promesso dall’art. 39 della Cost.ituzione. Piero la manifestava spesso – ed ha continuato a farlo anche quando, col passare del tempo, si rendeva conto di optare per una soluzione che ai più sembrava fuori moda – perché era convinto che la mancanza di erga omnes facesse soffrire il contratto collettivo di diritto comune, il solo praticabile, come un’anatra azzoppata. In proposito, Piero condivideva l’opinione dei padri costituenti ed in particolare di Vittorio Foa, cui si deve una definizione di sindacato che lo equipara a “un soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato, pur restando un libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato”.

Né Piero né Vittorio hanno mai scritto che la bipolarità del sindacato è simmetrica alla natura duale del contratto collettivo. Entrambi però avevano una concezione normativista del contratto collettivo (nazionale: che era poi la figura nettamente dominante all’epoca della Costituente siccome ereditata dal fascismo giuridico); una concezione che ne fa un prodotto del consenso, ossia un auto-comando, ed insieme il prodotto di un’autorità in bilico tra pubblico e privato, ossia un etero-comando.

In base a tale concezione, largamente diffusa anche nella cultura giuridica, il contratto è assimilabile ad un enorme serbatoio idrico capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica e di far arrivare la corrente elettrica in tutte le case. Diversamente, è altro-da-sé: gli utenti restano al buio e, per farsi luce, devono arrangiarsi con lumi a petrolio; laddove l’erogazione di elettricità è un servizio di cui la società moderna non può privarsi. Come dire che Piero giudicava prioritaria l’esigenza di tutelare i diritti del singolo con riguardo, più che alla sua veste (peraltro, soltanto eventuale) di iscritto ad un sindacato, a quella di destinatario degli effetti dell’azione sindacale.

Naturalmente, non ignorava che, per quanto attiene al sindacato, la disputa sull’attuazione dell’art. 39 non era originata da pretesti. La stagione dello Stato padre-padrone si era chiusa da poco e il movimento sindacale d’una democrazia appena risorta fece bene a tenersene lontano, anche perché meritava la chance – lui così povero di esperienza di libertà – di costruirsi la sua da solo. Fece bene ad imporre allo Stato la regola non-scritta del doppio binario – non ingerenza e non indifferenza – che è la precondizione in assenza della quale l’antica massima ubi societas ibi ius significa soltanto che la società non può fare a meno del diritto. Essa infatti può anche significare che la società produce diritto e che la giuridicità non costituisce più un’emanazione della sovranità statuale.

Ciononostante, Piero era impensierito dalla “discrasia tutta italiana fra costituzione formale e costituzione materiale” nella stessa misura in cui lo rendeva pensoso ogni scostamento dai principi di una sana democrazia: nel mondo occidentale, scriveva nel 1998, “non esiste una situazione come la nostra” e, a cinquant’anni di distanza, “è legittimo interrogarsi se non sia venuto il tempo per il sindacato di trovare una collocazione più adeguata nel quadro istituzionale”.

Fedele a se stesso, Piero ha custodito le sue certezze con l’incrollabile fiducia di chi sa da cosa dipendesse la propria autenticità.
(13/09/2009

Fonte: Eguaglianza e Libertà

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