siamo come le mosche bianche coloro che abbiniamo l'idea della lotta di classe alla geopolitica. La sinistra bertinottiana si è inventata che la geopolitica e la lotta di classe non vanno insieme. Insomma nei fatti debbo stare con gli americani e gli europei che vogliono rapinare i popoli della Libia, dell'Iran e del Venezuela dei loro beni perchè sarebbe prioritario il giudizio sui loro regimi su quello dell'imperialismo. Si nega insomma il carattere internazionale della lotta di classe. Inoltre non si tiene conto che pur con aspetti non condivisibili la Libia ha dato un livello di vita e di sicurezza sociale ai suoi cittadini tra i più alti del mondo, livello che come quello degli irakeni al tempo di Sadam non ci sarà più. L'impero li riporta all'età della pietra perchè non ammette la prosperità di civiltà diverse dalla sua....
pietro ancona
sabato 5 marzo 2011
lettera a Bella Ciao che ha censurato i miei scritti
sabato 5 Marzo 2011 (
legittimità delle mie opinioni
Caro Collettivo,
pensavo che ci fosse stato in voi un ritorno alla ragione ed invece noto che insistete nel cancellare i miei scritti. Convinto che le cose che scrivo sulla Libia siano vere e giuste anche se non sono frutto dello indottrinamento sublimale della TV e della stampa che vuole fare credere esistere in Libia una rivolta popolare animata da ragioni di libertà e di giustizia contro Gheddafi. Se fosse così i rivoltosi non si sarebbero impossessati con le armi dei pozzi di petrolio e degli aeroporti dai quali ricevono incessanti aiuti dagli USA in armi e contractors addestrati al sabotaggio ed alla guerriglia. Ho spiegato che il problema oggi è difendere l’indipendenza della Libia che si identifica, piaccia o non piaccia, con la sopravvivenza di Gheddafi. Che è stato condannato a morte dal Capo Mafia dell’Occidente Obama che ha già dato ordine di spogliare la Libia di tutti i suoi beni. Cento miliardi di dollari in fondi sovrani presenti in Europa sono già stati rapinati, tre milioni di lavoratori africani ridotti in profughi in fuga, migliaia di aziende e lavoratori e tecnici italiani costretti a lasciare tutto e rientrare. La conquista della Libia, spacciata per missione umanitaria, non è diversa dalle imprese colonialiste di Mussolini e del Generale Graziani, e l’uso di proiettili all’uranio ne avvelenerà le generazioni future facendone mostri,. La repressione che fate di questo punto di vista, estremamente minoritario in Occidente, fa pensare con tristezza a quanta confusione ci sia in ciò che una volta era la sinistra ed il socialismo. Dovevate andate orgogliosi di quella che definite la mia "merda". La mia merda è fertilizzante di idee rigogliose e forti di una sinistra antiimperialista consapevole che non esiste lotta di classe che non abbia anche un respiro geopolitico. Non era il caso di respingerla con la bava alla bocca. Vi auguro ogni bene nel triste mondo della nuova dittatura fascista degli USA che purtroppo non hanno la saggezza dell’Impero Romano che non spogliava ma integrava i popoli e li rispettava mentre questi fanatici di un cristianesimo folle e bellicista e di una ideologia che non ammette culture diverse tengono il mondo nella sofferenza e nel dolore. Ieri ed oggi Irak Afghanistan, Somalia.....Oggi Libia, domani Venezuela e Iran e magari voi direte che si tratta della liquidazione di regimi totalitari e di dittatori indegni di vivere. Pietro Ancona
Di : pietro
sabato 5 Marzo 2011
venerdì 25 febbraio 2011
Ricordo di Luigi Granata
Luigi Granata
E' mancato all'affetto della famiglia, degli amici e dei socialisti siciliani Luigi Granata.
E' stato per anni esponente di rilievo del PSI, deputato all'Ars , segretario regionale del Partito e assessore all'industria del governo siciliano. Fu sempre dalla parte dei lavoratori e della Sicilia. Nel governo siciliano si distinse per l'attenzione ai problemi della industrializzazione e fu legato alle lotte dei minatori e dei contadini.
Attento alla memoria del movimento operaio dell'Isola organizzò ad Agrigento, nel 1975, un convegno di studi storici e politici sui Fasci Siciliani
con la collaborazione del professore Giuseppe Giarrizzo ed altri eminenti storici. Il recupero della esperienza dei Fasci, fino ad allora ignorato dalla storiografia come tante cose che riguardano il Mezzogiorno degli anni successivi il Risorgimento, contribuì alla delineazione della identità socialista radicandone il pensiero nella memoria
di una assai intensa stagione di lotte e di elaborazione ideologica che portò il gruppo dirigente socialista siciliano al livello della socialdemocrazia europea e dei sindacati francesi.
Fu attento alla storia del socialismo agrigentino. Si occupò in particolare della memoria di Giosuè Fiorentino, eminente socialista di Palma di Montechiaro, punto di riferimento dei braccianti poveri del suo paese che il PSI amministrò per tantissimi anni eleggendo a Sindaco Domenico Aquilino, maestro di scuola e uomo integerrimo.
Sono stato con lui e con Fausto D'Alessandro consigliere comunale di Agrigento. Fummo eletti tutti e tre sconfiggendo la vecchia guardia rappresentata dal professore Antonino Bosco che fu Vice Sindaco della città e che dovrebbe essere ricordato come persona di grande umanesimo socialista.
Nonostante invitati da Vincenzo Foti, Sindaco della città a fare una riedizione del centro-sinistra ci rifiutammo sempre e restammo alla opposizione. Pensavamo che avendo la DC
più di 21 Consiglieri su 40 il potere nostro di condizionamento sarebbe stato nullo. Argomento vero e non vero dal momento che la DC era spaccata in due gruppi tra bonfigliani e laloggiani. Ma eravamo "afflitti" da un inguaribile idealismo ed oggi saremmo stati additati come fondamentalisti.
Gli fui compagno di scuola alle secondarie. Naturalmente era il più bravo della classe.
Spero che un giorno possa rinascere il grande partito socialista impregnato di cultura, di idealità, di fervore che abbiamo conosciuto negli anni della nostra giovinezza.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it
E' mancato all'affetto della famiglia, degli amici e dei socialisti siciliani Luigi Granata.
E' stato per anni esponente di rilievo del PSI, deputato all'Ars , segretario regionale del Partito e assessore all'industria del governo siciliano. Fu sempre dalla parte dei lavoratori e della Sicilia. Nel governo siciliano si distinse per l'attenzione ai problemi della industrializzazione e fu legato alle lotte dei minatori e dei contadini.
Attento alla memoria del movimento operaio dell'Isola organizzò ad Agrigento, nel 1975, un convegno di studi storici e politici sui Fasci Siciliani
con la collaborazione del professore Giuseppe Giarrizzo ed altri eminenti storici. Il recupero della esperienza dei Fasci, fino ad allora ignorato dalla storiografia come tante cose che riguardano il Mezzogiorno degli anni successivi il Risorgimento, contribuì alla delineazione della identità socialista radicandone il pensiero nella memoria
di una assai intensa stagione di lotte e di elaborazione ideologica che portò il gruppo dirigente socialista siciliano al livello della socialdemocrazia europea e dei sindacati francesi.
Fu attento alla storia del socialismo agrigentino. Si occupò in particolare della memoria di Giosuè Fiorentino, eminente socialista di Palma di Montechiaro, punto di riferimento dei braccianti poveri del suo paese che il PSI amministrò per tantissimi anni eleggendo a Sindaco Domenico Aquilino, maestro di scuola e uomo integerrimo.
Sono stato con lui e con Fausto D'Alessandro consigliere comunale di Agrigento. Fummo eletti tutti e tre sconfiggendo la vecchia guardia rappresentata dal professore Antonino Bosco che fu Vice Sindaco della città e che dovrebbe essere ricordato come persona di grande umanesimo socialista.
Nonostante invitati da Vincenzo Foti, Sindaco della città a fare una riedizione del centro-sinistra ci rifiutammo sempre e restammo alla opposizione. Pensavamo che avendo la DC
più di 21 Consiglieri su 40 il potere nostro di condizionamento sarebbe stato nullo. Argomento vero e non vero dal momento che la DC era spaccata in due gruppi tra bonfigliani e laloggiani. Ma eravamo "afflitti" da un inguaribile idealismo ed oggi saremmo stati additati come fondamentalisti.
Gli fui compagno di scuola alle secondarie. Naturalmente era il più bravo della classe.
Spero che un giorno possa rinascere il grande partito socialista impregnato di cultura, di idealità, di fervore che abbiamo conosciuto negli anni della nostra giovinezza.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
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sabato 25 dicembre 2010
lelio Basso, resistente, socialista, rivoluzionario, giurista, padre della costituzione, difensore dei popoli
SCHEDA BIOGRAFIA PERSONE
Istituto: FONDAZIONE LELIO E LISLI BASSO - ISSOCO
Basso Lelio (Varazze (SV), 25/12/1903 - Roma, 16/12/1978)
ANAGRAFE
Altre denominazioni Filodemo Prometeo
Spartaco
Lebas
BIOGRAFIA
Cariche Deputato all'Assemblea costituente (1946); vicesegretario del Psiup <1942-1947>; Deputato (1946-1968); Senatore (1972-1978); Segretario del Psi (gen. 1947-llug. 1948); Presidente del Psiup (1965-1968).
Biografia Lelio Basso nacque a Varazze (SV), il 25 dicembre 1903 da una famiglia della borghesia liberale. Frequentò il liceo Berchet a Milano, dove la famiglia si era trasferita nel 1916. Nel 1921 si iscrisse alla facoltà di legge dell'Università di Pavia e al Partito socialista italiano. Studioso di dottrina marxista, fu vicino a Piero Gobetti durante l'esperienza di «Rivoluzione Liberale»; oltre a questa rivista collaborò, negli anni giovanili, con «Critica sociale», «Il Caffè», «Avanti!», «Coscientia», «Quarto Stato» e «Pietre», rivista da lui diretta nel 1928, prima a Genova, poi a Milano. Nel 1925 si laureò in giurisprudenza con una tesi sulla concezione della libertà in Marx. Il 13 aprile 1928 venne arrestato a Milano e inviato al confino a Ponza, dove studiò per la futura laurea in filosofia. Tornato a Milano nel 1931, mentre esercitava la professione forense, si laureò con una tesi su Rudolf Otto. Nel 1934 riprese l'attività illegale, dirigendo il Centro interno socialista, con Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Eugenio Colorni; attività interrotta per l'internamento nel campo di concentramento di Colfiorito (PG) dal 1939 al 1940 e poi ripresa. Dopo una lunga preparazione clandestina, il 10 gennaio 1943 partecipò alla costituzione del Movimento di unità proletaria (Mup), il cui gruppo dirigente era formato da Basso, Lucio Luzzatto, Roberto Verrati, Umberto Recalcati; movimento che dopo il 25 luglio si fonderà con il Psi nel Psiup, della cui direzione Basso entrò a far parte. Nel 1945 fondò il giornale clandestino «Bandiera rossa» e fino alla Liberazione partecipò attivamente alla Resistenza, fondando con Sandro Pertini e Rodolfo Morandi l'esecutivo clandestino Alta Italia del Psiup, di cui assunse la responsabilità organizzativa. Dopo la liberazione fu eletto vicesegretario del Psiup e nel 1946 deputato all'Assemblea costituente; fece parte della Commissione dei 75 per la redazione della Costituzione, contribuendo in particolare alla formulazione degli artt. 3 e 49. Deputato in tutte le legislature dal 1946 fino al 1968; fu poi eletto senatore nel 1972 e nel 1976. Nello stesso 1946 fondò la rivista «Quarto Stato», che verrà pubblicata fino al 1950. All'atto della scissione saragattiana (1947), Basso assunse la segreteria del Psi, carica che conservò fino al congresso di Genova del giugno 1949. Nel 1951, in opposizione con la linea staliniana del partito, non venne rieletto nella Direzione; nel Congresso di Milano del 1953 non entrò nel Comitato centrale, dove fu riammesso nel 1955, mentre nel 1957, al Congresso di Venezia, rientrò nella Direzione e nella Segreteria. L'anno successivo diede vita a «Problemi del socialismo». Esponente della corrente di sinistra del Psi dal 1959, nel dicembre 1963 pronunciò alla Camera dei Deputati la dichiarazione di rifiuto, da parte dei 25 deputati dalla minoranza del gruppo parlamentare socialista, di votare a favore del governo di centro-sinistra, annunciando la scissione da cui sarebbe sorto il Psiup, nel gennaio 1964. Membro della direzione del nuovo partito, ne fu presidente dal 1965 al 1968, fino all'entrata delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Fondatore e collaboratore di riviste internazionali (fu direttore di «Revue international du socialisme»/«International socialist journal» - la documentazione della rivista è conservata nel fondo omonimo in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco - ), penalista di fama europea, fu membro del Tribunale internazionale presieduto da Bertrand Russell, creato per giudicare i crimini americani nel Vietnam. Nel 1973 promosse la costituzione di un secondo Tribunale Russell (documentazione relativa all'attività di Lelio Basso come membro del Tribunale Russell I e II nel Fondo Tribunale Russell in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco), sulle repressioni in America latina e lavorò per la preparazione del Tribunale permanente dei popoli (costituito nel 1979, dopo la sua morte). Nello stesso 1973 diede vita a Roma alla Fondazione Lelio e Lisli Basso; nel 1976 alla Fondazione internazionale e alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli. Morì a Roma il 16 dicembre 1978.
DOCUMENTAZIONE
Bibliografia OPERE: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/testi.aspx
BIBLIOGRAFIA: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/biblio.htm
CONTROLLO D'AUTORITA'
Altre forme del nome Filodemo Prometeo; Spartaco; Lebas
http://www.leliobasso.it/vita.htm
http://www.internazionaleleliobasso.it/
Istituto: FONDAZIONE LELIO E LISLI BASSO - ISSOCO
Basso Lelio (Varazze (SV), 25/12/1903 - Roma, 16/12/1978)
ANAGRAFE
Altre denominazioni Filodemo Prometeo
Spartaco
Lebas
BIOGRAFIA
Cariche Deputato all'Assemblea costituente (1946); vicesegretario del Psiup <1942-1947>; Deputato (1946-1968); Senatore (1972-1978); Segretario del Psi (gen. 1947-llug. 1948); Presidente del Psiup (1965-1968).
Biografia Lelio Basso nacque a Varazze (SV), il 25 dicembre 1903 da una famiglia della borghesia liberale. Frequentò il liceo Berchet a Milano, dove la famiglia si era trasferita nel 1916. Nel 1921 si iscrisse alla facoltà di legge dell'Università di Pavia e al Partito socialista italiano. Studioso di dottrina marxista, fu vicino a Piero Gobetti durante l'esperienza di «Rivoluzione Liberale»; oltre a questa rivista collaborò, negli anni giovanili, con «Critica sociale», «Il Caffè», «Avanti!», «Coscientia», «Quarto Stato» e «Pietre», rivista da lui diretta nel 1928, prima a Genova, poi a Milano. Nel 1925 si laureò in giurisprudenza con una tesi sulla concezione della libertà in Marx. Il 13 aprile 1928 venne arrestato a Milano e inviato al confino a Ponza, dove studiò per la futura laurea in filosofia. Tornato a Milano nel 1931, mentre esercitava la professione forense, si laureò con una tesi su Rudolf Otto. Nel 1934 riprese l'attività illegale, dirigendo il Centro interno socialista, con Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Eugenio Colorni; attività interrotta per l'internamento nel campo di concentramento di Colfiorito (PG) dal 1939 al 1940 e poi ripresa. Dopo una lunga preparazione clandestina, il 10 gennaio 1943 partecipò alla costituzione del Movimento di unità proletaria (Mup), il cui gruppo dirigente era formato da Basso, Lucio Luzzatto, Roberto Verrati, Umberto Recalcati; movimento che dopo il 25 luglio si fonderà con il Psi nel Psiup, della cui direzione Basso entrò a far parte. Nel 1945 fondò il giornale clandestino «Bandiera rossa» e fino alla Liberazione partecipò attivamente alla Resistenza, fondando con Sandro Pertini e Rodolfo Morandi l'esecutivo clandestino Alta Italia del Psiup, di cui assunse la responsabilità organizzativa. Dopo la liberazione fu eletto vicesegretario del Psiup e nel 1946 deputato all'Assemblea costituente; fece parte della Commissione dei 75 per la redazione della Costituzione, contribuendo in particolare alla formulazione degli artt. 3 e 49. Deputato in tutte le legislature dal 1946 fino al 1968; fu poi eletto senatore nel 1972 e nel 1976. Nello stesso 1946 fondò la rivista «Quarto Stato», che verrà pubblicata fino al 1950. All'atto della scissione saragattiana (1947), Basso assunse la segreteria del Psi, carica che conservò fino al congresso di Genova del giugno 1949. Nel 1951, in opposizione con la linea staliniana del partito, non venne rieletto nella Direzione; nel Congresso di Milano del 1953 non entrò nel Comitato centrale, dove fu riammesso nel 1955, mentre nel 1957, al Congresso di Venezia, rientrò nella Direzione e nella Segreteria. L'anno successivo diede vita a «Problemi del socialismo». Esponente della corrente di sinistra del Psi dal 1959, nel dicembre 1963 pronunciò alla Camera dei Deputati la dichiarazione di rifiuto, da parte dei 25 deputati dalla minoranza del gruppo parlamentare socialista, di votare a favore del governo di centro-sinistra, annunciando la scissione da cui sarebbe sorto il Psiup, nel gennaio 1964. Membro della direzione del nuovo partito, ne fu presidente dal 1965 al 1968, fino all'entrata delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Fondatore e collaboratore di riviste internazionali (fu direttore di «Revue international du socialisme»/«International socialist journal» - la documentazione della rivista è conservata nel fondo omonimo in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco - ), penalista di fama europea, fu membro del Tribunale internazionale presieduto da Bertrand Russell, creato per giudicare i crimini americani nel Vietnam. Nel 1973 promosse la costituzione di un secondo Tribunale Russell (documentazione relativa all'attività di Lelio Basso come membro del Tribunale Russell I e II nel Fondo Tribunale Russell in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco), sulle repressioni in America latina e lavorò per la preparazione del Tribunale permanente dei popoli (costituito nel 1979, dopo la sua morte). Nello stesso 1973 diede vita a Roma alla Fondazione Lelio e Lisli Basso; nel 1976 alla Fondazione internazionale e alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli. Morì a Roma il 16 dicembre 1978.
DOCUMENTAZIONE
Bibliografia OPERE: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/testi.aspx
BIBLIOGRAFIA: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/biblio.htm
CONTROLLO D'AUTORITA'
Altre forme del nome Filodemo Prometeo; Spartaco; Lebas
http://www.leliobasso.it/vita.htm
http://www.internazionaleleliobasso.it/
venerdì 29 ottobre 2010
Lo sciopero generale diventa patto sociale
Lo sciopero generale diventa patto sociale
Ad un mese dall'intesa di massima fatta a Genova tra una Marcegaglia raggiante ed un Epifani su di giri, ieri è stata comunicata la conclusione di una prima fase di accordi per il Patto Sociale. Si tratta di un miglioramento degli ammortizzatori sociali, di interventi per il sud e l'innovazione (soldi alle imprese) della semplificazione della pa. Una intesa è stata raggiunta anche per una riforma dell'apprendistato che, non dubito, considererà "minorenni" ed in formazione persone fino a ventinove anni di età. Un escamotage giuridico per giustificare decurtazioni di salario e di diritti.
Questa intesa comunicata con toni trionfalistici e con accenti di grande positività alla stampa interviene all'indomani dell'annunzio del Ministro Brunetta della soppressione di trecento mila posti nella pubblica amministrazione e del varo della legge sul collegato lavoro , durante le agitazioni dei lavoratori della scuola minacciati di licenziamento, subito dopo le pesanti ed urtanti dichiarazioni di Marchionne sulla Fiat e sulla Fabbrica Italia, nello scenario desolato della crisi che ha falcidiato l'occupazione in diverse regioni d'Italia con punte di estrema pesantezza in Sardegna ed in genere nel Sud.
L'influenza dei lavoratori italiani nel Patto già siglato dalle Confederazioni è eguale a zero. Nessun miglioramento della condizione dei precari magari con una limitazione del ventaglio delle possibilità di elusione offerte dalla legge Biagi al padronato, nessuno accenno al miglioramento necessario dei salari e delle pensioni richiesto financo dal governatore della Banca d'Italia che vengono congelati a tempo indefinito, nessun alt al processo di cancellazione rapida dei diritti specialmente per i nuovi assunti. Per i lavoratori stranieri presenti in Italia e trattati come bestiame umano nessuna misura di salvaguardia, nessun intervento per assicurare a loro ed ai loro disgraziati fratelli italiani del precariato, il rispetto dei ccnl. Nessun accenno e nessuna voglia di istituire il Salario Minimo Garantito e di rivedere il sistema pensionistico dimagrito dalle leggi da Dini a Berlusconi fino a diventare quasi inconsistente e specchio di una popolazione impoverita e ridotta in miseria che è stata condannata a vivere una vecchiaia di stenti ed in certi casi anche di fame.
Il Patto Sociale si realizza tra soggetti ed organizzazioni (banche, associazioni imprenditoriali e di lavoratori, governo) che si rifiutano di registrare esprimere e rappresentare il conflitto sociale e le profonde insoddisfazioni che percorrono il Paese.
All'indomani della vibrante manifestazione dei meccanici del 16 ottobre che proponeva lo stato di insoddisfazione di collera e di disperazione dei lavoratori italiani, la risposta sta in un insieme di atti condivisi o tacitamente accettati dalla Cgil e dal PD che accelerano la disintegrazione del mondo del lavoro attaccato nei suoi diritti e nella sua stessa consistenza fisica. I trecento mila posti di lavoro che vengono soppressi nella pubblica amministrazione chiudono la speranza ad altrettanti giovani ed alle loro famiglie senza alcun beneficio per lo Stato. Non ci sarà una diminuzione proporzionale dei costi dal momento che molti dei servizi verranno privatizzati ad amici della cricca che sta al governo e si introdurranno altre figure di managers e di dirigenti con un costo per ognuna pari a quello di molti posti soppressi.
Mi domando come la CGIL non provi vergogna, in questo contesto sociale, di stipulare un patto che accredita questo Governo in Europa e nel mondo proprio nel momento in cui infligge durissimi colpi ai lavoratori che non esita a diffamare assieme a Marchionne ed alla Marcegaglia ed a privare di diritti e di decenti condizioni di vita.
Questo Patto sociale serve subito ad una cosa sola: a dare una base per i soldi che la Confindustria spillerà al governo. Servirà anche a chiudere per sempre la stagione delle lotte e degli scioperi. Come potrà la CGIL fare uno sciopero contro un Governo ed un Padronato con i quali ha stipulato il patto sociale che i sindacati europei non concessero mai neppure ai governi socialdemocratici?
Bisogna dire che Berlusconi è fortunato. Sarkozy masticherà amaro dopo le dure proteste che ha dovuto subire. Non credo che ci sia qualcuno in Europa che come Berlusconi possa vantare un successo così grande. Ad ogni colpo di staffile che il suo governo infligge ai lavoratori i sindacati rispondono con grandi salamelecchi. Più picchia e più consenso e sottomissione ottiene!! Mussolini si liberò delle Camere del Lavoro che fece incendiare dalle sue squadracce prima di costruire il suo modello di Stato Corporativo. Berlusconi non ha bisogno di ridurre alla ragione nessuno. Bonanni, Angelletti ed ora Epifani sono pronti a seguirlo dappertutto, anche in capo al mondo....I sindacati servono, come in USA, da campieri del padrone e del governo.
La manifestazione che la CGIL ha indetto a Roma per il 27 novembre sarà una rassegna
di forze per mostrare il peso e l'influenza della CGIL. Lo sciopero che Landini continua a chiedere appare, come dice Sacconi, una richiesta "anacronistica, uscita dagli anni settanta". Gli anni dei diritti e della ascesa sociale della classe operaia.
Ed è vero. Non siamo più in una democrazia nella quale i sindacati rappresentano i lavoratori, ma in un regime in cui i sindacati rappresentano propri interessi che non coincidono più con quelli dei loro iscritti. Come in USA.
Pietro Ancona
http://www.rassegna.it/articoli/2010/10/28/68082/patto-sociale-prima-intesa-su-4-punti
Ad un mese dall'intesa di massima fatta a Genova tra una Marcegaglia raggiante ed un Epifani su di giri, ieri è stata comunicata la conclusione di una prima fase di accordi per il Patto Sociale. Si tratta di un miglioramento degli ammortizzatori sociali, di interventi per il sud e l'innovazione (soldi alle imprese) della semplificazione della pa. Una intesa è stata raggiunta anche per una riforma dell'apprendistato che, non dubito, considererà "minorenni" ed in formazione persone fino a ventinove anni di età. Un escamotage giuridico per giustificare decurtazioni di salario e di diritti.
Questa intesa comunicata con toni trionfalistici e con accenti di grande positività alla stampa interviene all'indomani dell'annunzio del Ministro Brunetta della soppressione di trecento mila posti nella pubblica amministrazione e del varo della legge sul collegato lavoro , durante le agitazioni dei lavoratori della scuola minacciati di licenziamento, subito dopo le pesanti ed urtanti dichiarazioni di Marchionne sulla Fiat e sulla Fabbrica Italia, nello scenario desolato della crisi che ha falcidiato l'occupazione in diverse regioni d'Italia con punte di estrema pesantezza in Sardegna ed in genere nel Sud.
L'influenza dei lavoratori italiani nel Patto già siglato dalle Confederazioni è eguale a zero. Nessun miglioramento della condizione dei precari magari con una limitazione del ventaglio delle possibilità di elusione offerte dalla legge Biagi al padronato, nessuno accenno al miglioramento necessario dei salari e delle pensioni richiesto financo dal governatore della Banca d'Italia che vengono congelati a tempo indefinito, nessun alt al processo di cancellazione rapida dei diritti specialmente per i nuovi assunti. Per i lavoratori stranieri presenti in Italia e trattati come bestiame umano nessuna misura di salvaguardia, nessun intervento per assicurare a loro ed ai loro disgraziati fratelli italiani del precariato, il rispetto dei ccnl. Nessun accenno e nessuna voglia di istituire il Salario Minimo Garantito e di rivedere il sistema pensionistico dimagrito dalle leggi da Dini a Berlusconi fino a diventare quasi inconsistente e specchio di una popolazione impoverita e ridotta in miseria che è stata condannata a vivere una vecchiaia di stenti ed in certi casi anche di fame.
Il Patto Sociale si realizza tra soggetti ed organizzazioni (banche, associazioni imprenditoriali e di lavoratori, governo) che si rifiutano di registrare esprimere e rappresentare il conflitto sociale e le profonde insoddisfazioni che percorrono il Paese.
All'indomani della vibrante manifestazione dei meccanici del 16 ottobre che proponeva lo stato di insoddisfazione di collera e di disperazione dei lavoratori italiani, la risposta sta in un insieme di atti condivisi o tacitamente accettati dalla Cgil e dal PD che accelerano la disintegrazione del mondo del lavoro attaccato nei suoi diritti e nella sua stessa consistenza fisica. I trecento mila posti di lavoro che vengono soppressi nella pubblica amministrazione chiudono la speranza ad altrettanti giovani ed alle loro famiglie senza alcun beneficio per lo Stato. Non ci sarà una diminuzione proporzionale dei costi dal momento che molti dei servizi verranno privatizzati ad amici della cricca che sta al governo e si introdurranno altre figure di managers e di dirigenti con un costo per ognuna pari a quello di molti posti soppressi.
Mi domando come la CGIL non provi vergogna, in questo contesto sociale, di stipulare un patto che accredita questo Governo in Europa e nel mondo proprio nel momento in cui infligge durissimi colpi ai lavoratori che non esita a diffamare assieme a Marchionne ed alla Marcegaglia ed a privare di diritti e di decenti condizioni di vita.
Questo Patto sociale serve subito ad una cosa sola: a dare una base per i soldi che la Confindustria spillerà al governo. Servirà anche a chiudere per sempre la stagione delle lotte e degli scioperi. Come potrà la CGIL fare uno sciopero contro un Governo ed un Padronato con i quali ha stipulato il patto sociale che i sindacati europei non concessero mai neppure ai governi socialdemocratici?
Bisogna dire che Berlusconi è fortunato. Sarkozy masticherà amaro dopo le dure proteste che ha dovuto subire. Non credo che ci sia qualcuno in Europa che come Berlusconi possa vantare un successo così grande. Ad ogni colpo di staffile che il suo governo infligge ai lavoratori i sindacati rispondono con grandi salamelecchi. Più picchia e più consenso e sottomissione ottiene!! Mussolini si liberò delle Camere del Lavoro che fece incendiare dalle sue squadracce prima di costruire il suo modello di Stato Corporativo. Berlusconi non ha bisogno di ridurre alla ragione nessuno. Bonanni, Angelletti ed ora Epifani sono pronti a seguirlo dappertutto, anche in capo al mondo....I sindacati servono, come in USA, da campieri del padrone e del governo.
La manifestazione che la CGIL ha indetto a Roma per il 27 novembre sarà una rassegna
di forze per mostrare il peso e l'influenza della CGIL. Lo sciopero che Landini continua a chiedere appare, come dice Sacconi, una richiesta "anacronistica, uscita dagli anni settanta". Gli anni dei diritti e della ascesa sociale della classe operaia.
Ed è vero. Non siamo più in una democrazia nella quale i sindacati rappresentano i lavoratori, ma in un regime in cui i sindacati rappresentano propri interessi che non coincidono più con quelli dei loro iscritti. Come in USA.
Pietro Ancona
http://www.rassegna.it/articoli/2010/10/28/68082/patto-sociale-prima-intesa-su-4-punti
martedì 17 agosto 2010
Gli stranieri nelle carceri europee di Jura Gentium
Jura Gentium
Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale Jura Gentium / Pagina iniziale / Rubriche / Migranti /
IV (2008), 1
La detenzione degli stranieri nelle carceri europee (*)
Lucia Re
1. La sovrarappresentazione dei migranti nelle carceri europee
Con il mio intervento intendo portare l'attenzione su un fenomeno solo in parte noto e spesso male interpretato dall'opinione pubblica a causa delle ricorrenti campagne allarmistiche sulla criminalità degli stranieri. Si tratta della forte presenza di detenuti stranieri nelle carceri dei principali paesi dell'Unione europea, in particolare di quelli occidentali e meridionali. Salvo qualche accenno, lascerò da parte la situazione dei paesi dell'Europa dell'Est da poco entrati nell'Unione europea che presentano caratteristiche piuttosto singolari per quanto attiene i fenomeni migratori, le legislazioni penali e penitenziarie e le condizioni di reclusione. Basti pensare che la Polonia ha un tasso di detenzione di 235 detenuti ogni 100.000 abitanti, che è più del doppio del tasso medio europeo, e una presenza di stranieri in carcere, minima, pari allo 0,7% della popolazione detenuta (1).
L'alta percentuale di detenuti stranieri è invece una delle principali caratteristiche dei sistemi penitenziari dell'Europa occidentale e mediterranea. Gli stranieri sono sovrarappresentati (cioè presenti in modo sproporzionato rispetto al numero di stranieri residenti) negli istituti penitenziari dei principali paesi europei. La percentuale media degli stranieri reclusi nelle carceri di questi paesi supera infatti il 30% della popolazione detenuta, mentre la presenza straniera sul territorio si aggira intorno al 7% della popolazione (è questo anche il dato italiano secondo l'ultimo rapporto sulle migrazioni dell'Ismu, appena pubblicato).
La percentuale della popolazione detenuta di nazionalità straniera è inferiore alla media europea in alcuni dei paesi europei di più antica immigrazione, ad esempio nel Regno Unito, ma nei penitenziari di questi stessi paesi vi è una percentuale elevata di cittadini, figli di genitori immigrati. Le amministrazioni penitenziarie europee - ad eccezione di quella britannica - non distinguono questa categoria di detenuti da quella dei cittadini di origine 'autoctona', per la comprensibile preoccupazione che tale distinzione possa avere effetti discriminatori. Tuttavia, così facendo, se da un lato si è formalmente corretti nei confronti dei cittadini di origine straniera, dall'altro si occulta un dato preoccupante: in molti paesi europei una percentuale elevata di detenuti è di origine o di nazionalità straniera. Non solo, ma, soprattutto nei paesi dell'Europa nord-occidentale, è di religione islamica e non è bianca (il profilo 'razziale' appare più importante di quanto comunemente si pensi).
I detenuti di nazionalità straniera sono particolarmente numerosi nei paesi in cui l'immigrazione è recente e nei paesi che confinano con le aree di emigrazione, ad esempio con l'Europa dell'Est. Si pensi alla Germania e, soprattutto, all'Austria, dove la presenza straniera in carcere è un record europeo ed è pari al 45% (2), o all'Estonia - nuovo membro dell'Unione che confina con la Federazione russa - dove la percentuale di detenuti stranieri è pari al 36,4% (3).
Nei paesi dell'Europa mediterranea, che riuniscono le due condizioni sopraccitate - immigrazione recente e contiguità geografica con paesi di emigrazione - la detenzione dei migranti appare persino essere un tratto caratterizzante dei sistemi penitenziari nazionali. In Grecia, in Italia, e in Spagna e a Malta i detenuti stranieri sono in media il 35% del totale (4) e provengono in maggioranza dai paesi della sponda sud e della sponda est del Mediterraneo. In Italia quasi la metà dei detenuti stranieri è originaria del continente africano (5). Mentre circa il 32% dei detenuti stranieri proviene da Balcani ed est europeo (Romania, Albania ed ex-jugoslavia) (6). Complessivamente, più del 70% dei detenuti stranieri nelle carceri italiane proviene da paesi che sono alla periferia dell'Unione europea e che sono i paesi di diretta emigrazione verso l'Italia.
La sovrarappresentazione degli stranieri è ancora maggiore con riguardo alle donne e ai minori. In Italia le donne straniere sono il 42% (7) della popolazione detenuta femminile (sul dato incide molto la presenza di donne rom) e i minori stranieri reclusi negli istituti penali per i minorenni sono il 54,5% del totale (8). Inoltre, le presenze in carcere di minori stranieri sono in continuo aumento, in particolare nei penitenziari del centro-nord. La percentuale di minori stranieri presenti nei principali istituti penali per i minorenni del centro-nord Italia (Milano, Bologna, Torino, Roma e Firenze) è pari quasi all'80% e ormai anche nei penitenziari del sud (esclusi Napoli e la Sicilia) la presenza straniera è superiore o pari alla metà dei detenuti (9). Il tutto a fronte di una progressiva diminuzione degli ingressi in carcere dei minori italiani, per i quali il ricorso alla pena detentiva è divenuto una extrema ratio. Per i minori, come per gli adulti, i principali paesi di provenienza sono quelli 'prossimi' all'Italia (10).
La percentuale di stranieri detenuti è in aumento in tutti i paesi dell'Unione europea e non è proporzionata al corrispondente aumento, pur verificatosi, della popolazione straniera presente sul territorio. In Italia in un solo anno, il 2002, si è registrato un vero e proprio boom dell'incarcerazione degli stranieri: la percentuale di detenuti stranieri è passata da 29,5% al 31-5-01 a quasi il 32% al 30-6-02. Da allora è rimasta sostanzialmente stabile. Le date non sono forse insignificanti, poiché coincidono con il periodo di vigenza della legge attuale sull'immigrazione, la cosiddetta Bossi- Fini, che ha riformato il T.U. sull'immigrazione.
Ecco alcuni dati in altri paesi europei:
Tabella 1. Detenuti stranieri in alcuni paesi UE (percentuale su tot. pop. det.) (11) Austria 45,1% al 1-11-2005 - molto aumentata negli ultimi 3 anni (Ministero della giustizia austriaco)
Grecia 41,7% al 16-12-2004 (Ministero della giustizia greco)
Italia 32% al 30-09-2006 - in lieve aumento dall'inizio degli anni duemila. -1% con l'approvazione dell'indulto (Ministero della giustizia)
Paesi Bassi 31,7% al 1-7-2006 - in lieve diminuzione (National Agency of Correctional Institutions)
Spagna 29,7% al 21-4-2006 - +4,3% dal 2002 (Direzione generale dell'amministrazione penit. spagnola)
Germania 28,2% al 31-3-2004 - stabile (Ministero della giustizia tedesco)
Svezia 26,2% al 1-10-2005 - aumentata di più dell'1% in un anno (Ministero della giustizia svedese) - solo definitivi.
Francia 21,1% al 1-4-2005 - in lieve diminuzione (Ministero della giustizia francese)
Portogallo 18,5% al 31-12-2005 - aumentata del 6% dal 2002 (Ministero della giustizia portoghese)
Uk-Inghilterra e Galles 13,6% al 31-10-2005 - +1,4% dal 2004 (Home Office Prison Service)
Finlandia 8,0% al 1-4-2006 - stabile negli ultimi anni (Ministero della giustizia finlandese)
2. Discriminazione e criminalizzazione degli stranieri
Alla base di queste percentuali vi sono diversi fattori fra loro connessi.
Negli ultimi anni una parte della sociologia, dei media e dell'opinione pubblica europea ha messo l'accento sulla devianza degli stranieri. I dati sulla presenza dei migranti nelle carceri europee sono stati interpretati da alcuni come un indice fedele del loro livello di devianza (Marzio Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Il mulino, Bologna1998). Altri autori li hanno invece considerati come il sintomo di una diffusa discriminazione, legata sia alle precarie condizioni di vita dei migranti, sia alle difficoltà che essi incontrano quando entrano in relazione con i sistemi giudiziari europei. Per questi autori la forte presenza di migranti in carcere è in primo luogo il frutto di un processo di criminalizzazione (fra gli studi italiani si vedano: S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Fondazione Cariplo- ISMU, Milano1994; A. Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 1999; F. Quassoli,Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori di diritto, in "Rassegna italiana di sociologia", 1, 1999, pp. 43-76).
I dati sulla criminalità, pur evidenziando alcune aree in cui gli stranieri sono particolarmente attivi (ad esempio la spaccio di sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione), non giustificano questa sovrarappresentazione degli stranieri in carcere. Dal Rapporto pubblicato dall'Istat nel 2004 su Gli stranieri e il carcere: aspetti della detenzione (Roma 2004) emerge ad esempio che fra il 1991 e il 1998 (anno di promulgazione del T.U. sull'immigrazione) gli stranieri in carcere sono aumentati molto più velocemente del numero di stranieri denunciati. Il ché per gli estensori del Rapporto è un chiaro segnale degli svantaggi che affliggono gli stranieri nell'iter processuale e nell'accesso alle misure alternative alla detenzione.
Difficile è poi negare che esiste un forte legame fra l'aumento degli stranieri detenuti e l'adozione di politiche restrittive in materia di immigrazione. Analogamente è evidente il collegamento fra carcerazione degli stranieri e difficoltà di inserimento e di vita nelle società di arrivo.
I paesi impegnati in un controllo quasi militare delle proprie coste, come la Grecia, l'Italia o la Spagna, sono anche quelli in cui il numero degli stranieri in carcere è più elevato, mentre la presenza di stranieri sul territorio dello Stato resta inferiore alla media dei paesi dell'Europa del nord. La detenzione in carcere è divenuta in questi paesi uno dei principali strumenti di controllo e di repressione della immigrazione 'clandestina'. In particolare, il sistema penitenziario nell'Europa mediterranea ha assunto un ruolo importante come strumento di limitazione della libertà di movimento dei migranti all'interno dell'Unione europea. In Italia, gli ingressi in carcere per violazione di disposizioni relative al Testo Unico sull'immigrazione sono in costante crescita: dal 2004 al 2006 si è passati da 2.469 ingressi così motivati a 11.116 (12), un vero e proprio boom. Si deve considerare che questo genere di reati riguarda esclusivamente stranieri ed è dunque uno dei fattori che contribuiscono alla sovrarappresentazione degli stranieri in carcere.
I reati cosiddetti di immigrazione sono solo uno dei fattori attraverso i quali si realizza la criminalizzazione degli stranieri, lo strumento detentivo appare agire in vari modi per realizzare il controllo della immigrazione. Si noti, che i dati sopraccitati si riferiscono solo alla detenzione penale - alle carceri - e non comprendono gli stranieri reclusi nei centri di permanenza temporanea, che sono strutture detentive a tutti gli effetti. CPT e carceri configurano un sistema integrato di istituti di reclusione preposti alla segregazione degli stranieri.
Vorrei soffermarmi brevemente su questo punto.
Le carceri dell'Europa del sud assomigliano sempre di più a centri di permanenza temporanea nei quali sono detenuti i migranti destinati ad essere espulsi. Questo perché la maggioranza degli stranieri reclusi in carcere sono irregolari, o perché lo erano al momento della reclusione o perché lo diventano una volta usciti di prigione, non potendo organizzarsi nuovamente una vita da 'regolari'. L'espulsione segue dunque sovente la detenzione in carcere, quando non è direttamente usata, come avviene nella legge italiana, come strumento alternativo o aggiuntivo alla carcerazione (13). Secondo sporadiche ricerche condotte dal Dap nei maggiori penitenziari italiani, nel 2004, l'80% dei detenuti stranieri non aveva permesso di soggiorno al momento dell'ingresso in carcere (Istat, op. cit., p. 8).
Il caso italiano non è in controtendenza rispetto all'orientamento diffuso nel resto d'Europa. La configurazione dell'espulsione come alternativa alla pena per i clandestini è presente nelle legislazioni di molti paesi europei, tanto da far pensare che nell'Unione europea si stia creando un "sistema penale dei migranti" che si differenzia dal "sistema penale dei cittadini" e si integra invece nel più generale sistema di controllo e di repressione dell'immigrazione.
In Francia il dibattito sulla "doppia pena" - pena detentiva ed espulsione - che colpisce gli stranieri è stato molto acceso dalla seconda metà degli anni Novanta. L'espressione "doppia pena" fa riferimento sia all'espulsione amministrativa degli stranieri che finiscono di scontare una condanna penale, sia all'espulsione decisa in sede giudiziaria - "interdiction du territoire français" - contestualmente a una condanna penale.
In tutta Europa va affermandosi una nuova concezione della detenzione come strumento di incapacitazione per cui l'obiettivo non è reinserire i condannati, ma espellerli dalla società. Nel caso dei migranti l'espulsione è uno strumento più efficace e meno costoso della reclusione in carcere. Allo stesso tempo, la detenzione in carcere e la detenzione amministrativa nei Centri di permanenza temporanea tendono ad assomigliarsi: la prima perde il carattere trattamentale, mentre la seconda acquista i tratti propri di una pena inflitta al di fuori di sufficienti garanzie procedurali e scontata in condizioni spesso disumane (14).
Le legislazioni restrittive in materia di immigrazione giocano dunque un ruolo molto rilevante nella criminalizzazione dei migranti. In alcuni casi esse ne favoriscono direttamente l'ingresso in carcere; in altri esse sono determinanti nel rendere precarie le condizioni di vita degli stranieri inducendoli a impiegarsi nei mercati informali e in quelli illegali. Generalmente le politiche migratorie restrittive combinano entrambi questi aspetti. Accanto ad esse, altre caratteristiche delle società di arrivo favoriscono il coinvolgimento dei migranti nelle attività criminali. Una ricerca condotta da Luigi Maria Solivetti nel 2004 (15), confrontando i dati sulla carcerazione dei migranti e alcuni dati sulle società di arrivo in 18 paesi dell'Europa occidentale, ha ad esempio mostrato una correlazione positiva fra indice di carcerazione degli stranieri e incidenza dell'economia sommersa. Vi è invece una correlazione negativa con alcune variabili come: la spesa complessiva pro capite per la protezione sociale, la percentuale di popolazione diplomata, la certezza del diritto (misurata dalla BM). Infine, l'indice di carcerazione è tanto più elevato quanto più è alto l'indice di clandestinità.
I paesi dell'Europa mediterranea, che hanno le più alte percentuali di detenuti stranieri, sono caratterizzati da un benessere economico relativamente minore rispetto ai paesi dell'Europa nord-occidentale, da una certa instabilità economica, da una più iniqua distribuzione del reddito, da un modesto livello culturale e da una rapida crescita della popolazione straniera di origine extraeuropea. Più alta è la diffusione dell'economia sommersa, di comportamenti illegali, della corruzione, ecc. nelle società di arrivo, più alto è il numero degli stranieri in carcere.
Quest'ultimo rispecchia dunque in parte la devianza dei non-cittadini, tuttavia essa non sembra definibile come "criminalità degli immigrati". Come ha sostenuto Dario Melossi: le radici della devianza sono sempre interne alla società in cui la devianza si manifesta (D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano 2002, p. 283). Nel caso italiano, ad esempio: "le due attività centrali alle forme di devianza anche molto gravi di cui sono protagonisti gli immigrati - il mercato degli stupefacenti e quello della prostituzione di strada - (…) sono attività dirette a soddisfare bisogni che preesistevano all'immigrazione e che ancora oggi sono ampiamente definibili come italiani (…) Da questo punto di vista i criminali 'tunisini', 'marocchini', 'albanesi' e quanti altri non sono affatto tali, ma sono criminali a tutti gli effetti 'italiani'(…)" (D. Melossi, 2002, 283). I mercati illegali che soddisfano i bisogni di trasgressione e di svago dei cittadini europei necessitano di manodopera al pari degli altri mercati: essi creano quindi occasioni di emigrazione, che sono spesso più facili da cogliere e più fruttuose delle occasioni legali.
A questi fattori si devono aggiungere i diversi meccanismi di discriminazione razziale e/o etnica che sono presenti a tutti i livelli del sistema penale: dalle pratiche di polizia alla fase d'esecuzione della pena, passando per il processo. Queste discriminazioni sono solo in parte consapevoli: spesso derivano da scelte tecniche finalizzate a rendere efficiente in termini di risultati quantitativi l'operato delle forze di polizia o dipendono dalle caratteristiche proprie di un sistema penale e penitenziario pensato per i cittadini, che non si adatta allo status giuridico e sociale dei migranti,
I migranti sono spesso oggetto di attività di controllo discriminatorie: le polizie europee ricorrono a pratiche di controllo e di repressione che li penalizzano (16). Le strategie di contrasto al terrorismo tendono poi a favorire la pratica dell'arresto e della perquisizione selettiva dei cittadini di origine musulmana e dei migranti (17). All'indomani dell'attentato terroristico di Londra, così come del fallito attentato dell'estate scorsa, nei principali paesi dell'Unione europea si è discusso dell'opportunità di incentivare i controlli sugli immigrati e si è dato avvio a una serie di operazioni di polizia espressamente indirizzate verso le comunità musulmane, al di là delle esigenze di controllo imposte dalle indagini in corso.
Le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato l'uso dell'"Ethnic profiling" - di criteri etnici per l'orientamento delle azioni di polizia e per la schedatura dei dati - da parte delle forze di polizia europee, soprattutto dopo l'11 settembre 2001 (18). A queste politiche di polizia si sommano le discriminazioni arbitrarie che si verificano nei casi in cui le forze di polizia si sentono legittimate a tenere comportamenti razzisti perché l'opinione pubblica richiede una risposta dura alla criminalità. Studi sociologici (19) e indagini giornalistiche hanno messo in luce i comportamenti razzisti tenuti dalle forze di polizia e dai tribunali penali, comportamenti che emergono ad esempio anche dalla lettura dei rapporti sulla detenzione dei migranti nell'Europa del sud stilati dal Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura.
L'impressione è, tuttavia, che a esporre i migranti alla repressione penale, più che i consapevoli atteggiamenti discriminatori e razzisti di alcuni attori del sistema penale, siano, da una parte, la "discriminazione strutturale" (20) dovuta alla condizione sociale degli stranieri, dall'altra, la scelta di una politica di controllo selettiva che sceglie di concentrarsi sui migranti. Sotto quest'ultimo aspetto è evidente come le politiche adottate a partire dagli anni Novanta nella maggior parte dei paesi europei in materia di immigrazione abbiano condotto a un'intensificazione dei controlli nei confronti degli stranieri: le polizie nazionali hanno reso abituali operazioni finalizzate a mostrare l'impegno delle forze dell'ordine nel contrasto all'immigrazione clandestina. Gli stranieri, essendo oggetto di continui controlli, tendono ad accumulare denunce, imputazioni e condanne divenendo così dei plurirecidivi.
Fra le forme di discriminazione strutturale appare particolarmente grave quella che deriva dall'inadeguatezza di molti sistemi giudiziari europei a trattare i migranti come gli altri cittadini. L'esempio più illuminante è quello relativo all'uso di non concedere agli stranieri misure cautelari alternative alla custodia in carcere. Tale prassi, insieme all'analoga prassi di non concedere ai detenuti stranieri la sospensione condizionale della pena o altre pene alternative alla detenzione, è una delle cause principali dell'elevato numero di stranieri detenuti nei penitenziari europei. Vi è dunque l'esigenza di realizzare delle riforme strutturali e di fornire ai sistemi giudiziari europei le risorse umane ed economiche necessarie per assicurarne il corretto funzionamento anche nei confronti dei migranti, la cui comparizione di fronte ai tribunali e la cui presenza in carcere non può certo più considerarsi come un fatto eccezionale (21).
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Note
*. Relazione presentata alle Giornate di studio sui diritti dei migranti, IV anno, Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara, 14/03/2007.
1. Ministero della giustizia polacco, dati aggiornati al 30.11.2006. Vedi International Centre for Prison Studies, World Prison Brief.
2. Dati del Ministero della Giustizia austriaco, al 1.11.2005. Vedi International Centre for Prison Studies, World Prison Brief.
3. Dati del Ministero della Giustizia estone, al 31.10.2005. Cfr. Ivi.
4. I dati sono i seguenti: 29,7% in Spagna, 32% in Italia, 35% a Malta e 41,7% in Grecia.
5. Al 30.06.2006 i marocchini erano il 20% dei detenuti stranieri, i tunisini il 9,7%, gli algerini il 6,3% e il 10,4% proveniva da altri paesi africani. L'indulto non ha significativamente mutato queste percentuali, nonostante una lieve flessione dei detenuti africani che sono passati dal 48,3% al 43,8% dei detenuti stranieri. Ministero della giustizia, dati riferiti al 31.12.2006
6. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, popolazione detenuta e risorse dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della giustizia, Roma 2006.
7. Mia elaborazione sui dati forniti dal Ministero della Giustizia che registrano la situazione al 30-6-02.
8. V. Belotti, "Doppia pena", reati e criminalizzazione, in V. Belotti, R. Maurizio, A. C. Moro, a cura di, Minori stranieri in carcere, Guerini e associati, Milano 2006, p. 101. Rielaborazione dati Istat e Ministero della giustizia riferiti al 2004.
9. Ivi, p. 102.
10. La Romania (31%), il Marocco (24%), la Serbia (16%) e l'Albania (9%).Ibid.
11. La maggioranza dei dati qui riportati è tratta da INTERNATIONAL CENTRE FOR PRISON STUDIES, World Prison Brief, cit.
12. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, popolazione detenuta e risorse dell'amministrazione penitenziaria, cit.
13. La legge italiana sull'immigrazione prevede che ogni straniero entrato in carcere per uno dei reati previsti all'art. 380, commi primo e secondo, del codice di procedura penale e per qualsiasi reato attinente alla droga o alla libertà sessuale debba essere espulso una volta scontata la pena. L'art. 16 del Testo Unico sull'immigrazione, così come è stato modificato dal provvedimento del 2002, prevede inoltre l'utilizzo dell'espulsione come misura alternativa alla detenzione. Il magistrato di sorveglianza deve infatti procedere all'espulsione di tutti i detenuti stranieri irregolari che siano identificabili e abbiano meno di due anni di pena detentiva da scontare. La legge Bossi-Fini ha poi stabilito che gli immigrati che hanno commesso un reato per cui è previsto l'arresto in flagranza non possano ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno e vadano dunque incontro all'espulsione. L'espulsione diviene così esplicitamente una pena, configurando un regime penale ad hoc per i migranti. La legge aveva infine previsto l'arresto obbligatorio dello straniero irregolare che non aveva ottemperato all'ordine di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale o che aveva violato l'obbligo di reingresso. L'arresto era finalizzato a renderne possibile l'immediata espulsione. La Corte costituzionale ha sancito l'incostituzionalità di questa norma. Il meccanismo sanzionatorio speciale è stato, tuttavia, ripristinato dalla legge n. 271 del 2004, che ha trasformato la violazione dell'ordine di lasciare il paese da contravvenzione in delitto, rendendo legittimo l'arresto obbligatorio in flagranza e permettendo che lo straniero sia prima arrestato e poi espulso. Espulsione e pena detentiva sono dunque state equiparate. In questo modo la funzione rieducativa della pena è definitivamente cancellata ed è esplicitamente istituito un sistema penale differenziato per gli stranieri.
14. Vedi la denuncia del giornalista Federico Gatti che, fingendosi migrante, è riuscito a entrare nel Centro di detenzione temporanea di Lampedusa (F. GATTI, Io clandestino a Lampedusa, "L'espresso", 40 (2005)). Gatti ha sostenuto che la sua presenza a Lampedusa, come quella di molti migranti entrati con lui nel Centro nella settimana fra il 24 e il 30 settembre 2005, non è mai stata convalidata dal giudice. Le condizioni igieniche del Centro sono secondo il giornalista gravissime. Inoltre, durante la sua reclusione, egli ha potuto assistere ai comportamenti razzisti di molti carabinieri in servizio nel Centro, a percosse e a forme di violenza psicologica nei confronti dei detenuti. Il tema dei Centri di permanenza temporanea meriterebbe di essere trattato approfonditamente. Qui si può solo accennare ad alcuni degli aspetti più gravi che riguardano la detenzione in questi centri. Per un esame della questione in chiave sia sociologica, sia filosofico-politica, vedi F. RAHOLA, Zone definitivamente provvisorie. Campi di internamento e diritti umani, Ombre Corte, Verona 2003.
15. L. M. Solivetti, Immigrazione, integrazione e crimine in Europa, Il mulino, Bologna 2004.
16. I dati relativi alle persone fermate e perquisite dalla polizia (secondo la tecnica di "stop and search") nel Regno Unito nell'anno 2003-2004, riportati dallo Home Office, mostrano che i neri sono stati fermati sei volte più dei bianchi e gli asiatici il doppio dei bianchi.
17. Nel marzo del 2005 il Ministro dell'interno britannico ha esplicitamente ammesso che le misure antiterrorismo sono destinate a colpire in prevalenza i musulmani, poiché la minaccia proviene dal mondo islamico.
18. Il tema è trattato esaustivamente nel dossier redatto dall'Open Society Justice Initiative (AA.VV., Ethnic Profiling by Police in Europe, Open Society Justice Initiative, London 2005). Secondo alcuni analisti la forza di polizia comunitaria, Europol, incaricata principalmente della prevenzione e della repressione del crimine organizzato, opera assumendo che la criminalità si organizza su basi etniche. L'opinione pubblica europea sostiene queste pratiche discriminatorie nella convinzione che siano efficaci a contrastare il terrorismo e la criminalità internazionale.
19. Vedi ad esempio F. QUASSOLI, Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori del diritto, "Rassegna italiana di sociologia", 1 (1999).
20. Il termine richiama la sociologia di Pierre Bourdieu e fa riferimento alla discriminazione che deriva dalla povertà di capitale economico, sociale e culturale che caratterizza i migranti sospingendoli nella marginalità. Con questo termine mi riferisco tuttavia anche alla 'non-idoneità' degli stranieri a relazionarsi con un apparato penale che prevede garanzie pensate per i cittadini, ossia per soggetti ben inseriti nel tessuto sociale e dotati di strumenti economici, sociali e culturali di cui i migranti non dispongono.
21. Per chiudere con una nota minimamente ottimistica (o idealistica, dipende dai punti di vista) vorrei citare la proposta di riforma dell'ordinamento penitenziario attualmente giacente in parlamento. Si tratta di una riforma elaborata sotto il coordinamento di Alessandro Margara, già direttore del DAP, amico e collaboratore di Mario Gozzini, che provvede a rimuovere il più possibile le norme che discriminano gli stranieri nella fase esecutiva: dalla concessione dei permessi alle misure alternative, fino ai colloqui e alle telefonate. Se una simile riforma fosse approvata, l'Italia farebbe un grosso passo avanti nella eliminazione della "discriminazione strutturale" che contribuisce alla forte presenza di stranieri in carcere.
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IV (2008), 1
La detenzione degli stranieri nelle carceri europee (*)
Lucia Re
1. La sovrarappresentazione dei migranti nelle carceri europee
Con il mio intervento intendo portare l'attenzione su un fenomeno solo in parte noto e spesso male interpretato dall'opinione pubblica a causa delle ricorrenti campagne allarmistiche sulla criminalità degli stranieri. Si tratta della forte presenza di detenuti stranieri nelle carceri dei principali paesi dell'Unione europea, in particolare di quelli occidentali e meridionali. Salvo qualche accenno, lascerò da parte la situazione dei paesi dell'Europa dell'Est da poco entrati nell'Unione europea che presentano caratteristiche piuttosto singolari per quanto attiene i fenomeni migratori, le legislazioni penali e penitenziarie e le condizioni di reclusione. Basti pensare che la Polonia ha un tasso di detenzione di 235 detenuti ogni 100.000 abitanti, che è più del doppio del tasso medio europeo, e una presenza di stranieri in carcere, minima, pari allo 0,7% della popolazione detenuta (1).
L'alta percentuale di detenuti stranieri è invece una delle principali caratteristiche dei sistemi penitenziari dell'Europa occidentale e mediterranea. Gli stranieri sono sovrarappresentati (cioè presenti in modo sproporzionato rispetto al numero di stranieri residenti) negli istituti penitenziari dei principali paesi europei. La percentuale media degli stranieri reclusi nelle carceri di questi paesi supera infatti il 30% della popolazione detenuta, mentre la presenza straniera sul territorio si aggira intorno al 7% della popolazione (è questo anche il dato italiano secondo l'ultimo rapporto sulle migrazioni dell'Ismu, appena pubblicato).
La percentuale della popolazione detenuta di nazionalità straniera è inferiore alla media europea in alcuni dei paesi europei di più antica immigrazione, ad esempio nel Regno Unito, ma nei penitenziari di questi stessi paesi vi è una percentuale elevata di cittadini, figli di genitori immigrati. Le amministrazioni penitenziarie europee - ad eccezione di quella britannica - non distinguono questa categoria di detenuti da quella dei cittadini di origine 'autoctona', per la comprensibile preoccupazione che tale distinzione possa avere effetti discriminatori. Tuttavia, così facendo, se da un lato si è formalmente corretti nei confronti dei cittadini di origine straniera, dall'altro si occulta un dato preoccupante: in molti paesi europei una percentuale elevata di detenuti è di origine o di nazionalità straniera. Non solo, ma, soprattutto nei paesi dell'Europa nord-occidentale, è di religione islamica e non è bianca (il profilo 'razziale' appare più importante di quanto comunemente si pensi).
I detenuti di nazionalità straniera sono particolarmente numerosi nei paesi in cui l'immigrazione è recente e nei paesi che confinano con le aree di emigrazione, ad esempio con l'Europa dell'Est. Si pensi alla Germania e, soprattutto, all'Austria, dove la presenza straniera in carcere è un record europeo ed è pari al 45% (2), o all'Estonia - nuovo membro dell'Unione che confina con la Federazione russa - dove la percentuale di detenuti stranieri è pari al 36,4% (3).
Nei paesi dell'Europa mediterranea, che riuniscono le due condizioni sopraccitate - immigrazione recente e contiguità geografica con paesi di emigrazione - la detenzione dei migranti appare persino essere un tratto caratterizzante dei sistemi penitenziari nazionali. In Grecia, in Italia, e in Spagna e a Malta i detenuti stranieri sono in media il 35% del totale (4) e provengono in maggioranza dai paesi della sponda sud e della sponda est del Mediterraneo. In Italia quasi la metà dei detenuti stranieri è originaria del continente africano (5). Mentre circa il 32% dei detenuti stranieri proviene da Balcani ed est europeo (Romania, Albania ed ex-jugoslavia) (6). Complessivamente, più del 70% dei detenuti stranieri nelle carceri italiane proviene da paesi che sono alla periferia dell'Unione europea e che sono i paesi di diretta emigrazione verso l'Italia.
La sovrarappresentazione degli stranieri è ancora maggiore con riguardo alle donne e ai minori. In Italia le donne straniere sono il 42% (7) della popolazione detenuta femminile (sul dato incide molto la presenza di donne rom) e i minori stranieri reclusi negli istituti penali per i minorenni sono il 54,5% del totale (8). Inoltre, le presenze in carcere di minori stranieri sono in continuo aumento, in particolare nei penitenziari del centro-nord. La percentuale di minori stranieri presenti nei principali istituti penali per i minorenni del centro-nord Italia (Milano, Bologna, Torino, Roma e Firenze) è pari quasi all'80% e ormai anche nei penitenziari del sud (esclusi Napoli e la Sicilia) la presenza straniera è superiore o pari alla metà dei detenuti (9). Il tutto a fronte di una progressiva diminuzione degli ingressi in carcere dei minori italiani, per i quali il ricorso alla pena detentiva è divenuto una extrema ratio. Per i minori, come per gli adulti, i principali paesi di provenienza sono quelli 'prossimi' all'Italia (10).
La percentuale di stranieri detenuti è in aumento in tutti i paesi dell'Unione europea e non è proporzionata al corrispondente aumento, pur verificatosi, della popolazione straniera presente sul territorio. In Italia in un solo anno, il 2002, si è registrato un vero e proprio boom dell'incarcerazione degli stranieri: la percentuale di detenuti stranieri è passata da 29,5% al 31-5-01 a quasi il 32% al 30-6-02. Da allora è rimasta sostanzialmente stabile. Le date non sono forse insignificanti, poiché coincidono con il periodo di vigenza della legge attuale sull'immigrazione, la cosiddetta Bossi- Fini, che ha riformato il T.U. sull'immigrazione.
Ecco alcuni dati in altri paesi europei:
Tabella 1. Detenuti stranieri in alcuni paesi UE (percentuale su tot. pop. det.) (11) Austria 45,1% al 1-11-2005 - molto aumentata negli ultimi 3 anni (Ministero della giustizia austriaco)
Grecia 41,7% al 16-12-2004 (Ministero della giustizia greco)
Italia 32% al 30-09-2006 - in lieve aumento dall'inizio degli anni duemila. -1% con l'approvazione dell'indulto (Ministero della giustizia)
Paesi Bassi 31,7% al 1-7-2006 - in lieve diminuzione (National Agency of Correctional Institutions)
Spagna 29,7% al 21-4-2006 - +4,3% dal 2002 (Direzione generale dell'amministrazione penit. spagnola)
Germania 28,2% al 31-3-2004 - stabile (Ministero della giustizia tedesco)
Svezia 26,2% al 1-10-2005 - aumentata di più dell'1% in un anno (Ministero della giustizia svedese) - solo definitivi.
Francia 21,1% al 1-4-2005 - in lieve diminuzione (Ministero della giustizia francese)
Portogallo 18,5% al 31-12-2005 - aumentata del 6% dal 2002 (Ministero della giustizia portoghese)
Uk-Inghilterra e Galles 13,6% al 31-10-2005 - +1,4% dal 2004 (Home Office Prison Service)
Finlandia 8,0% al 1-4-2006 - stabile negli ultimi anni (Ministero della giustizia finlandese)
2. Discriminazione e criminalizzazione degli stranieri
Alla base di queste percentuali vi sono diversi fattori fra loro connessi.
Negli ultimi anni una parte della sociologia, dei media e dell'opinione pubblica europea ha messo l'accento sulla devianza degli stranieri. I dati sulla presenza dei migranti nelle carceri europee sono stati interpretati da alcuni come un indice fedele del loro livello di devianza (Marzio Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Il mulino, Bologna1998). Altri autori li hanno invece considerati come il sintomo di una diffusa discriminazione, legata sia alle precarie condizioni di vita dei migranti, sia alle difficoltà che essi incontrano quando entrano in relazione con i sistemi giudiziari europei. Per questi autori la forte presenza di migranti in carcere è in primo luogo il frutto di un processo di criminalizzazione (fra gli studi italiani si vedano: S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Fondazione Cariplo- ISMU, Milano1994; A. Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 1999; F. Quassoli,Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori di diritto, in "Rassegna italiana di sociologia", 1, 1999, pp. 43-76).
I dati sulla criminalità, pur evidenziando alcune aree in cui gli stranieri sono particolarmente attivi (ad esempio la spaccio di sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione), non giustificano questa sovrarappresentazione degli stranieri in carcere. Dal Rapporto pubblicato dall'Istat nel 2004 su Gli stranieri e il carcere: aspetti della detenzione (Roma 2004) emerge ad esempio che fra il 1991 e il 1998 (anno di promulgazione del T.U. sull'immigrazione) gli stranieri in carcere sono aumentati molto più velocemente del numero di stranieri denunciati. Il ché per gli estensori del Rapporto è un chiaro segnale degli svantaggi che affliggono gli stranieri nell'iter processuale e nell'accesso alle misure alternative alla detenzione.
Difficile è poi negare che esiste un forte legame fra l'aumento degli stranieri detenuti e l'adozione di politiche restrittive in materia di immigrazione. Analogamente è evidente il collegamento fra carcerazione degli stranieri e difficoltà di inserimento e di vita nelle società di arrivo.
I paesi impegnati in un controllo quasi militare delle proprie coste, come la Grecia, l'Italia o la Spagna, sono anche quelli in cui il numero degli stranieri in carcere è più elevato, mentre la presenza di stranieri sul territorio dello Stato resta inferiore alla media dei paesi dell'Europa del nord. La detenzione in carcere è divenuta in questi paesi uno dei principali strumenti di controllo e di repressione della immigrazione 'clandestina'. In particolare, il sistema penitenziario nell'Europa mediterranea ha assunto un ruolo importante come strumento di limitazione della libertà di movimento dei migranti all'interno dell'Unione europea. In Italia, gli ingressi in carcere per violazione di disposizioni relative al Testo Unico sull'immigrazione sono in costante crescita: dal 2004 al 2006 si è passati da 2.469 ingressi così motivati a 11.116 (12), un vero e proprio boom. Si deve considerare che questo genere di reati riguarda esclusivamente stranieri ed è dunque uno dei fattori che contribuiscono alla sovrarappresentazione degli stranieri in carcere.
I reati cosiddetti di immigrazione sono solo uno dei fattori attraverso i quali si realizza la criminalizzazione degli stranieri, lo strumento detentivo appare agire in vari modi per realizzare il controllo della immigrazione. Si noti, che i dati sopraccitati si riferiscono solo alla detenzione penale - alle carceri - e non comprendono gli stranieri reclusi nei centri di permanenza temporanea, che sono strutture detentive a tutti gli effetti. CPT e carceri configurano un sistema integrato di istituti di reclusione preposti alla segregazione degli stranieri.
Vorrei soffermarmi brevemente su questo punto.
Le carceri dell'Europa del sud assomigliano sempre di più a centri di permanenza temporanea nei quali sono detenuti i migranti destinati ad essere espulsi. Questo perché la maggioranza degli stranieri reclusi in carcere sono irregolari, o perché lo erano al momento della reclusione o perché lo diventano una volta usciti di prigione, non potendo organizzarsi nuovamente una vita da 'regolari'. L'espulsione segue dunque sovente la detenzione in carcere, quando non è direttamente usata, come avviene nella legge italiana, come strumento alternativo o aggiuntivo alla carcerazione (13). Secondo sporadiche ricerche condotte dal Dap nei maggiori penitenziari italiani, nel 2004, l'80% dei detenuti stranieri non aveva permesso di soggiorno al momento dell'ingresso in carcere (Istat, op. cit., p. 8).
Il caso italiano non è in controtendenza rispetto all'orientamento diffuso nel resto d'Europa. La configurazione dell'espulsione come alternativa alla pena per i clandestini è presente nelle legislazioni di molti paesi europei, tanto da far pensare che nell'Unione europea si stia creando un "sistema penale dei migranti" che si differenzia dal "sistema penale dei cittadini" e si integra invece nel più generale sistema di controllo e di repressione dell'immigrazione.
In Francia il dibattito sulla "doppia pena" - pena detentiva ed espulsione - che colpisce gli stranieri è stato molto acceso dalla seconda metà degli anni Novanta. L'espressione "doppia pena" fa riferimento sia all'espulsione amministrativa degli stranieri che finiscono di scontare una condanna penale, sia all'espulsione decisa in sede giudiziaria - "interdiction du territoire français" - contestualmente a una condanna penale.
In tutta Europa va affermandosi una nuova concezione della detenzione come strumento di incapacitazione per cui l'obiettivo non è reinserire i condannati, ma espellerli dalla società. Nel caso dei migranti l'espulsione è uno strumento più efficace e meno costoso della reclusione in carcere. Allo stesso tempo, la detenzione in carcere e la detenzione amministrativa nei Centri di permanenza temporanea tendono ad assomigliarsi: la prima perde il carattere trattamentale, mentre la seconda acquista i tratti propri di una pena inflitta al di fuori di sufficienti garanzie procedurali e scontata in condizioni spesso disumane (14).
Le legislazioni restrittive in materia di immigrazione giocano dunque un ruolo molto rilevante nella criminalizzazione dei migranti. In alcuni casi esse ne favoriscono direttamente l'ingresso in carcere; in altri esse sono determinanti nel rendere precarie le condizioni di vita degli stranieri inducendoli a impiegarsi nei mercati informali e in quelli illegali. Generalmente le politiche migratorie restrittive combinano entrambi questi aspetti. Accanto ad esse, altre caratteristiche delle società di arrivo favoriscono il coinvolgimento dei migranti nelle attività criminali. Una ricerca condotta da Luigi Maria Solivetti nel 2004 (15), confrontando i dati sulla carcerazione dei migranti e alcuni dati sulle società di arrivo in 18 paesi dell'Europa occidentale, ha ad esempio mostrato una correlazione positiva fra indice di carcerazione degli stranieri e incidenza dell'economia sommersa. Vi è invece una correlazione negativa con alcune variabili come: la spesa complessiva pro capite per la protezione sociale, la percentuale di popolazione diplomata, la certezza del diritto (misurata dalla BM). Infine, l'indice di carcerazione è tanto più elevato quanto più è alto l'indice di clandestinità.
I paesi dell'Europa mediterranea, che hanno le più alte percentuali di detenuti stranieri, sono caratterizzati da un benessere economico relativamente minore rispetto ai paesi dell'Europa nord-occidentale, da una certa instabilità economica, da una più iniqua distribuzione del reddito, da un modesto livello culturale e da una rapida crescita della popolazione straniera di origine extraeuropea. Più alta è la diffusione dell'economia sommersa, di comportamenti illegali, della corruzione, ecc. nelle società di arrivo, più alto è il numero degli stranieri in carcere.
Quest'ultimo rispecchia dunque in parte la devianza dei non-cittadini, tuttavia essa non sembra definibile come "criminalità degli immigrati". Come ha sostenuto Dario Melossi: le radici della devianza sono sempre interne alla società in cui la devianza si manifesta (D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano 2002, p. 283). Nel caso italiano, ad esempio: "le due attività centrali alle forme di devianza anche molto gravi di cui sono protagonisti gli immigrati - il mercato degli stupefacenti e quello della prostituzione di strada - (…) sono attività dirette a soddisfare bisogni che preesistevano all'immigrazione e che ancora oggi sono ampiamente definibili come italiani (…) Da questo punto di vista i criminali 'tunisini', 'marocchini', 'albanesi' e quanti altri non sono affatto tali, ma sono criminali a tutti gli effetti 'italiani'(…)" (D. Melossi, 2002, 283). I mercati illegali che soddisfano i bisogni di trasgressione e di svago dei cittadini europei necessitano di manodopera al pari degli altri mercati: essi creano quindi occasioni di emigrazione, che sono spesso più facili da cogliere e più fruttuose delle occasioni legali.
A questi fattori si devono aggiungere i diversi meccanismi di discriminazione razziale e/o etnica che sono presenti a tutti i livelli del sistema penale: dalle pratiche di polizia alla fase d'esecuzione della pena, passando per il processo. Queste discriminazioni sono solo in parte consapevoli: spesso derivano da scelte tecniche finalizzate a rendere efficiente in termini di risultati quantitativi l'operato delle forze di polizia o dipendono dalle caratteristiche proprie di un sistema penale e penitenziario pensato per i cittadini, che non si adatta allo status giuridico e sociale dei migranti,
I migranti sono spesso oggetto di attività di controllo discriminatorie: le polizie europee ricorrono a pratiche di controllo e di repressione che li penalizzano (16). Le strategie di contrasto al terrorismo tendono poi a favorire la pratica dell'arresto e della perquisizione selettiva dei cittadini di origine musulmana e dei migranti (17). All'indomani dell'attentato terroristico di Londra, così come del fallito attentato dell'estate scorsa, nei principali paesi dell'Unione europea si è discusso dell'opportunità di incentivare i controlli sugli immigrati e si è dato avvio a una serie di operazioni di polizia espressamente indirizzate verso le comunità musulmane, al di là delle esigenze di controllo imposte dalle indagini in corso.
Le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato l'uso dell'"Ethnic profiling" - di criteri etnici per l'orientamento delle azioni di polizia e per la schedatura dei dati - da parte delle forze di polizia europee, soprattutto dopo l'11 settembre 2001 (18). A queste politiche di polizia si sommano le discriminazioni arbitrarie che si verificano nei casi in cui le forze di polizia si sentono legittimate a tenere comportamenti razzisti perché l'opinione pubblica richiede una risposta dura alla criminalità. Studi sociologici (19) e indagini giornalistiche hanno messo in luce i comportamenti razzisti tenuti dalle forze di polizia e dai tribunali penali, comportamenti che emergono ad esempio anche dalla lettura dei rapporti sulla detenzione dei migranti nell'Europa del sud stilati dal Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura.
L'impressione è, tuttavia, che a esporre i migranti alla repressione penale, più che i consapevoli atteggiamenti discriminatori e razzisti di alcuni attori del sistema penale, siano, da una parte, la "discriminazione strutturale" (20) dovuta alla condizione sociale degli stranieri, dall'altra, la scelta di una politica di controllo selettiva che sceglie di concentrarsi sui migranti. Sotto quest'ultimo aspetto è evidente come le politiche adottate a partire dagli anni Novanta nella maggior parte dei paesi europei in materia di immigrazione abbiano condotto a un'intensificazione dei controlli nei confronti degli stranieri: le polizie nazionali hanno reso abituali operazioni finalizzate a mostrare l'impegno delle forze dell'ordine nel contrasto all'immigrazione clandestina. Gli stranieri, essendo oggetto di continui controlli, tendono ad accumulare denunce, imputazioni e condanne divenendo così dei plurirecidivi.
Fra le forme di discriminazione strutturale appare particolarmente grave quella che deriva dall'inadeguatezza di molti sistemi giudiziari europei a trattare i migranti come gli altri cittadini. L'esempio più illuminante è quello relativo all'uso di non concedere agli stranieri misure cautelari alternative alla custodia in carcere. Tale prassi, insieme all'analoga prassi di non concedere ai detenuti stranieri la sospensione condizionale della pena o altre pene alternative alla detenzione, è una delle cause principali dell'elevato numero di stranieri detenuti nei penitenziari europei. Vi è dunque l'esigenza di realizzare delle riforme strutturali e di fornire ai sistemi giudiziari europei le risorse umane ed economiche necessarie per assicurarne il corretto funzionamento anche nei confronti dei migranti, la cui comparizione di fronte ai tribunali e la cui presenza in carcere non può certo più considerarsi come un fatto eccezionale (21).
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Note
*. Relazione presentata alle Giornate di studio sui diritti dei migranti, IV anno, Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara, 14/03/2007.
1. Ministero della giustizia polacco, dati aggiornati al 30.11.2006. Vedi International Centre for Prison Studies, World Prison Brief.
2. Dati del Ministero della Giustizia austriaco, al 1.11.2005. Vedi International Centre for Prison Studies, World Prison Brief.
3. Dati del Ministero della Giustizia estone, al 31.10.2005. Cfr. Ivi.
4. I dati sono i seguenti: 29,7% in Spagna, 32% in Italia, 35% a Malta e 41,7% in Grecia.
5. Al 30.06.2006 i marocchini erano il 20% dei detenuti stranieri, i tunisini il 9,7%, gli algerini il 6,3% e il 10,4% proveniva da altri paesi africani. L'indulto non ha significativamente mutato queste percentuali, nonostante una lieve flessione dei detenuti africani che sono passati dal 48,3% al 43,8% dei detenuti stranieri. Ministero della giustizia, dati riferiti al 31.12.2006
6. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, popolazione detenuta e risorse dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della giustizia, Roma 2006.
7. Mia elaborazione sui dati forniti dal Ministero della Giustizia che registrano la situazione al 30-6-02.
8. V. Belotti, "Doppia pena", reati e criminalizzazione, in V. Belotti, R. Maurizio, A. C. Moro, a cura di, Minori stranieri in carcere, Guerini e associati, Milano 2006, p. 101. Rielaborazione dati Istat e Ministero della giustizia riferiti al 2004.
9. Ivi, p. 102.
10. La Romania (31%), il Marocco (24%), la Serbia (16%) e l'Albania (9%).Ibid.
11. La maggioranza dei dati qui riportati è tratta da INTERNATIONAL CENTRE FOR PRISON STUDIES, World Prison Brief, cit.
12. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, popolazione detenuta e risorse dell'amministrazione penitenziaria, cit.
13. La legge italiana sull'immigrazione prevede che ogni straniero entrato in carcere per uno dei reati previsti all'art. 380, commi primo e secondo, del codice di procedura penale e per qualsiasi reato attinente alla droga o alla libertà sessuale debba essere espulso una volta scontata la pena. L'art. 16 del Testo Unico sull'immigrazione, così come è stato modificato dal provvedimento del 2002, prevede inoltre l'utilizzo dell'espulsione come misura alternativa alla detenzione. Il magistrato di sorveglianza deve infatti procedere all'espulsione di tutti i detenuti stranieri irregolari che siano identificabili e abbiano meno di due anni di pena detentiva da scontare. La legge Bossi-Fini ha poi stabilito che gli immigrati che hanno commesso un reato per cui è previsto l'arresto in flagranza non possano ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno e vadano dunque incontro all'espulsione. L'espulsione diviene così esplicitamente una pena, configurando un regime penale ad hoc per i migranti. La legge aveva infine previsto l'arresto obbligatorio dello straniero irregolare che non aveva ottemperato all'ordine di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale o che aveva violato l'obbligo di reingresso. L'arresto era finalizzato a renderne possibile l'immediata espulsione. La Corte costituzionale ha sancito l'incostituzionalità di questa norma. Il meccanismo sanzionatorio speciale è stato, tuttavia, ripristinato dalla legge n. 271 del 2004, che ha trasformato la violazione dell'ordine di lasciare il paese da contravvenzione in delitto, rendendo legittimo l'arresto obbligatorio in flagranza e permettendo che lo straniero sia prima arrestato e poi espulso. Espulsione e pena detentiva sono dunque state equiparate. In questo modo la funzione rieducativa della pena è definitivamente cancellata ed è esplicitamente istituito un sistema penale differenziato per gli stranieri.
14. Vedi la denuncia del giornalista Federico Gatti che, fingendosi migrante, è riuscito a entrare nel Centro di detenzione temporanea di Lampedusa (F. GATTI, Io clandestino a Lampedusa, "L'espresso", 40 (2005)). Gatti ha sostenuto che la sua presenza a Lampedusa, come quella di molti migranti entrati con lui nel Centro nella settimana fra il 24 e il 30 settembre 2005, non è mai stata convalidata dal giudice. Le condizioni igieniche del Centro sono secondo il giornalista gravissime. Inoltre, durante la sua reclusione, egli ha potuto assistere ai comportamenti razzisti di molti carabinieri in servizio nel Centro, a percosse e a forme di violenza psicologica nei confronti dei detenuti. Il tema dei Centri di permanenza temporanea meriterebbe di essere trattato approfonditamente. Qui si può solo accennare ad alcuni degli aspetti più gravi che riguardano la detenzione in questi centri. Per un esame della questione in chiave sia sociologica, sia filosofico-politica, vedi F. RAHOLA, Zone definitivamente provvisorie. Campi di internamento e diritti umani, Ombre Corte, Verona 2003.
15. L. M. Solivetti, Immigrazione, integrazione e crimine in Europa, Il mulino, Bologna 2004.
16. I dati relativi alle persone fermate e perquisite dalla polizia (secondo la tecnica di "stop and search") nel Regno Unito nell'anno 2003-2004, riportati dallo Home Office, mostrano che i neri sono stati fermati sei volte più dei bianchi e gli asiatici il doppio dei bianchi.
17. Nel marzo del 2005 il Ministro dell'interno britannico ha esplicitamente ammesso che le misure antiterrorismo sono destinate a colpire in prevalenza i musulmani, poiché la minaccia proviene dal mondo islamico.
18. Il tema è trattato esaustivamente nel dossier redatto dall'Open Society Justice Initiative (AA.VV., Ethnic Profiling by Police in Europe, Open Society Justice Initiative, London 2005). Secondo alcuni analisti la forza di polizia comunitaria, Europol, incaricata principalmente della prevenzione e della repressione del crimine organizzato, opera assumendo che la criminalità si organizza su basi etniche. L'opinione pubblica europea sostiene queste pratiche discriminatorie nella convinzione che siano efficaci a contrastare il terrorismo e la criminalità internazionale.
19. Vedi ad esempio F. QUASSOLI, Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori del diritto, "Rassegna italiana di sociologia", 1 (1999).
20. Il termine richiama la sociologia di Pierre Bourdieu e fa riferimento alla discriminazione che deriva dalla povertà di capitale economico, sociale e culturale che caratterizza i migranti sospingendoli nella marginalità. Con questo termine mi riferisco tuttavia anche alla 'non-idoneità' degli stranieri a relazionarsi con un apparato penale che prevede garanzie pensate per i cittadini, ossia per soggetti ben inseriti nel tessuto sociale e dotati di strumenti economici, sociali e culturali di cui i migranti non dispongono.
21. Per chiudere con una nota minimamente ottimistica (o idealistica, dipende dai punti di vista) vorrei citare la proposta di riforma dell'ordinamento penitenziario attualmente giacente in parlamento. Si tratta di una riforma elaborata sotto il coordinamento di Alessandro Margara, già direttore del DAP, amico e collaboratore di Mario Gozzini, che provvede a rimuovere il più possibile le norme che discriminano gli stranieri nella fase esecutiva: dalla concessione dei permessi alle misure alternative, fino ai colloqui e alle telefonate. Se una simile riforma fosse approvata, l'Italia farebbe un grosso passo avanti nella eliminazione della "discriminazione strutturale" che contribuisce alla forte presenza di stranieri in carcere.
Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, ISSN 1826-8269 Chi siamoQuaderni JG-FeltrinelliRubricheDiscussioni onlineRecensioniJournalsLinks-A A A+
nel sito nel Web
sabato 14 agosto 2010
andrea costa, fondatore del partito socialista italiano
Salvatore Lo Leggio
Saggi e commenti di politica, letteratura e varia umanità. Ogni domenica un articolo sui fatti della settimana. Ogni lunedì una poesia d'autore. Quasi tutti i giorni pezzi nuovi e pezzi vecchi. Appuntamenti e libri. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
14.8.10
Per il centenario di Andrea Costa (Imola 1851 - 1910). Intervista a Carlo De Maria.
Il centenario della morte di Andrea Costa, l’anarchico che fondò il socialismo italiano, è passato praticamente sotto silenzio: pochi articoli sui quotidiani, un convegno e una mostra nella sua Imola, nessuna riflessione approfondita. In questo piccolo blog sono già presenti un paio di post che utilizzano l’occasione del centenario per rievocare alcuni tra i passaggi più significativi di una grande esperienza etica e politica (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/01/per-il-centenario-di-andrea-costa-imola.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/02/per-il-centenario-di-andrea-costa-imola.html). Oggi vi aggiungo una bella intervista allo storico Carlo De Maria, che ho trovato nell’archivio della benemerita rivista “Una città”, tratta dal numero 175 dello scorso giugno 2010 e realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti. (S.L.L.)
Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa), Diabasis, 2010.
Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano...
E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo.
Puoi parlarci della sua biografia?
Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’"eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista.
Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto), al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris).
A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta "economia sociale” o "economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico). Ci viene restituita una immagine della società civile come luogo della solidarietà: era centrale il rapporto tra autonomia e solidarietà.
Come ha scritto Nadia Urbinati (proprio su "Una città”), associarsi per uno scopo condiviso e scelto autonomamente è l’essenza della democrazia. Il problema è che, nel corso del ’900, in società sempre più rigidamente strutturate, si è spesso smarrito il nesso tra il momento dell’associazione e quello dell’organizzazione: il secondo ha finito per prevalere, soffocando irrimediabilmente il primo. Dal partito-associazione si è passati al partito-organizzazione. Attingere alle origini del socialismo (e mi riferisco, in particolare, al socialismo anarchico) significa anche ridimensionare la polarizzazione tra collettivismo e individualismo. Una antinomia tra due astrazioni - come mi spiegava Pino Ferraris - che è stata fortemente alimentata nel XX secolo dalla sfida tra comunismo e capitalismo e che ha finito, però, per far dimenticare come nell’esperienza vitale non possa esistere società senza individui, così come non esistono individui senza società.
Non vorrei far passare l’idea troppo semplificata di un XX secolo come periodo di chiusura, rispetto a idee fertili elaborate nel secolo precedente. Non corrisponderebbe al vero; ma certo se ci interroghiamo sul modello decentrato del socialismo di fine ’800 e di inizio ’900, su un riformismo municipale dai tanti centri diffusi nella società, non possiamo non ricordare che, storicamente, la sua crisi è segnata, a livello europeo, dall’avvento dei fascismi, dalla crescita degli apparati statali, dall’affermarsi anche a sinistra di una idea tecnocratica e centralistica (spesso autoritaria) nella gestione della politica e dell’economia. Naturalmente, in tutto questo, giocò un ruolo fondamentale anche la crisi economica del 1929-31, per fronteggiare la quale si pensò necessario aumentare l’intervento dello Stato nella società. È il processo che ha portato, per rifarsi alle categorie filosofiche di Aldo Capitini, "all’assoluto dello Stato” (che si afferma proprio negli anni ’20 e ’30 del ’900), al quale si è poi aggiunto, nel secondo dopoguerra, "l’assoluto del benessere”: il consumismo e la frenesia dei consumi (come ricorda spesso Goffredo Fofi). Sono questi assoluti che hanno cancellato l’esperienza del primo socialismo italiano ed europeo, del socialismo decentrato e libertario che attraversa praticamente tutta la vita e l’azione di Costa.
Tuttavia, dicevi che Costa ha ancora un interesse per l’oggi...
Bisogna ricominciare a pensare in termini di un nuovo inizio, credo proprio di sì, ma senza radici e senza tradizioni politiche che costituiscano una ispirazione e un punto di riferimento ideale ho l’impressione che non si vada da nessuna parte. Con riferimento all’attualità: è cosa vana ripetere di essere «riformisti», se poi il termine si rivela svuotato, incapace di agganciarsi a una tradizione di cultura politica, a una storia, o forse sarebbe meglio dire a più storie. Per parlare di Andrea Costa, comunque, conviene partire da alcuni riferimenti cronologici. Dunque, andiamo con ordine.
Nel 1864, a Londra, nasce l’Associazione internazionale dei lavoratori, la Prima Internazionale, e fra i fondatori, accanto a Marx ed Engels, ci sono i mazziniani, ci sono gli anarchici mutualisti di Proudhon e altre correnti della sinistra europea.
In virtù di questa pluralità lo statuto dell’Internazionale ha un carattere abbastanza vago e l’unico punto chiaramente fissato riguarda il mutuo appoggio e la comunicazione tra le società operaie europee, il tutto in vista dell’emancipazione dei lavoratori e della riforma generale della società, a sua volta posta nella generica prospettiva di una "nuova umanità”.
Nello stesso 1864, Michail Bakunin - nobile russo passato all’attività antizarista e democratica - arriva in Italia seguendo l’eco delle imprese garibaldine, una eco arrivata perfino in Siberia, da dove Bakunin era fuggito dopo alcuni anni di prigionia. Dapprima Bakunin si stabilisce a Firenze, poi va a Napoli ed è lì che cominciano a nascere le "Fratellanze”, cioè le sezioni della "Alleanza internazionale della democrazia socialista”, l’organizzazione che Bakunin sta costituendo e che presto confluirà nella Prima Internazionale. Il rivoluzionario russo trova seguito soprattutto fra gli elementi della sinistra repubblicana, da cui infatti vengono Alberto Mario, a Firenze, e Saverio Friscia, Carlo Gambuzzi, Giuseppe Fanelli (che sarà poi l’iniziatore del movimento anarchico in Spagna) a Napoli.
Le "Fratellanze” bakuniniste sono, di fatto, le prime cellule del socialismo in Italia, ma solo all’inizio degli anni ’70 si afferma la prima, vera e propria, generazione di anarchici italiani. Una generazione memorabile, nata intorno al 1850: tra di loro, Carlo Cafiero, nato nel 1846 in Puglia ma da una famiglia originaria di Meta di Sorrento, il campano Errico Malatesta (1853) e il romagnolo Andrea Costa (1851). Nel giugno 1872, a Rimini, si tiene il congresso della Federazione italiana dell’Internazionale, ed è proprio qui che viene fissato l’indirizzo libertario del primo socialismo italiano, influenzato da Bakunin e dai suoi seguaci: Costa, Cafiero e Malatesta. Nello stesso 1872, però, si arriva anche a una serie di scontri interni all’Associazione internazionale dei lavoratori che porterà alla sua spaccatura. Dapprima, il Consiglio generale dell’Internazionale, guidato da Marx, espelle Bakunin con l’accusa di manovre scissionistiche, per tutta risposta a Saint-Imier, in Svizzera, nasce il movimento anarchico internazionale, al quale aderiscono le federazioni italiana, francese, belga, spagnola, russa.
Il movimento socialista italiano, alla sua nascita, ha quindi un indirizzo libertario, anarchico, e fortemente insurrezionalista ed è anche in virtù di questa impostazione che, già nel 1874, comincia la stagione dei tentativi insurrezionali, cioè della "propaganda col fatto”. Il primo di questi tentativi è a Bologna - Costa è tra gli organizzatori e anche Bakunin partecipa, nonostante sia ormai anziano - ma abortisce perché le forze dell’ordine smantellano l’organizzazione prima dell’inizio dei moti. Bakunin riesce a fuggire, mentre Costa viene incarcerato e si farà due anni di prigione, prima di essere assolto nel processo del ’76. Viene assolto anche perché quell’anno cambia decisamente il quadro politico italiano che, col primo governo Depretis, vede la sinistra liberale subentrare alla destra storica, che aveva governato fino ad allora. È da ricordare che a quel processo testimoniò, in difesa di Costa, anche Carducci, di cui Costa seguiva le lezioni e del quale si era guadagnato la stima. Costa frequentò l’Università a Bologna, dove conobbe bene anche Giovanni Pascoli, ma, non avendo i soldi per un’iscrizione effettiva, seguì l’Università da uditore, per cui non prese mai la laurea. Aveva comunque un’ottima cultura, era un poliglotta e un oratore di talento straordinario. Era di corporatura esile (invecchiando poi ingrassò), non era molto alto e portava degli occhiali tondi, da miope. Sembrava un chierichetto, però aveva un’eloquenza straordinaria e sono molte le testimonianze che sottolineano come i suoi discorsi fossero in grado, oltreché di svolgere concetti importanti, di emozionare moltissimo chi lo ascoltava.
Tornando ai tentativi insurrezionali degli anarchici…
Il secondo tentativo insurrezionale è nel 1877, quando un gruppo guidato da Cafiero, Malatesta e Pietro Ceccarelli, un romagnolo, prova a far insorgere i paesi dei monti del Matese, vicino a Benevento. Dopo pochi giorni, però, questo piccolo gruppo viene accerchiato dalle truppe regie, costretto alla resa e incarcerato (ed è proprio durante la detenzione che Cafiero scriverà il famoso Compendio del Capitale di Marx). Il nuovo fallimento segna la crisi definitiva del metodo insurrezionale, già palesatasi nel ’74.
Nel frattempo, a Milano, aveva cominciato a uscire la seconda serie de "La plebe”, una rivista importantissima diretta da Osvaldo Gnocchi Viani e Enrico Bignami. "La plebe” è un crocevia di tutte le scuole socialistiche italiane ed europee ed è il luogo da cui arrivano in Italia tanti influssi dall’Europa, dai movimenti francese, belga, tedesco. Non è quindi un caso che Costa, nel luglio del 1879, mentre è in carcere in Francia, pubblichi proprio in essa la famosa Lettera ai miei amici di Romagna, che preannuncia la svolta, politica e teorica, che lo porta, dal socialismo anarchico e insurrezionalista, a un socialismo riformatore e gradualista. Questa svolta di Costa è stata a lungo vista solo nei termini relativi alla diatriba ideologica, ma io credo che, per capirla veramente, occorra allargare lo sguardo ai mutamenti politici e istituzionali che avvengono in quel periodo in Italia e in Europa.
La strategia insurrezionale dell’anarchismo, infatti, poteva essere comprensibile e collocarsi con coerenza in una situazione in cui, ad esempio, votava l’1% della popolazione e l’élite di governo era completamente chiusa a prospettive di un allargamento democratico. La situazione, però, comincia a cambiare nel 1876, quando appunto la sinistra storica va al potere e si comincia a parlare di educazione elementare obbligatoria, di allargamento del suffragio, di riduzione delle misure di polizia contro i sovversivi.
Anche in Europa le cose si muovono. Il movimento socialista belga, che era una delle componenti più forti dell’Internazionale anarchica, sul finire degli anni ’70, pur rimanendo di impostazione libertaria, passa nel campo del socialismo gradualista, mentre il Partito operaio francese, all’inizio degli anni ’80, si dichiara favorevole alla partecipazione alle elezioni e si dà un programma amministrativo. In quegli anni Costa gira l’Europa e comprende l’importanza della conquista di alcune libertà fondamentali. La svolta di Costa, però, non è propriamente una svolta dall’anarchismo alla socialdemocrazia, ma è un passaggio dalla prospettiva dell’anarchismo insurrezionalista a un socialismo ancora molto vicino all’idea della rivoluzione libertaria, ma che si apre via via alle esigenze del gradualismo e della lotta parlamentare.
Nel 1880, Costa è di nuovo in Italia (sono gli anni del sodalizio politico e sentimentale con Anna Kuliscioff) e fonda a Rimini -guarda caso- il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che secondo me è il partito più straordinario che sia mai esistito in Italia. Questo non solo perché rappresenta un tornante nella storia del primo movimento socialista italiano, ma soprattutto perché era un partito aperto, libertario, semi-anarchico, con una grande vocazione all’internazionalismo e, nello stesso tempo, con un forte insediamento regionale in Romagna, in Emilia, nel nord delle Marche.
Le caratteristiche programmatiche del partito hanno il loro fulcro nell’idea di associazione, cioè nell’idea di applicare il personalismo associativo a tutte le esigenze della vita. Da questa idea deriva un’impostazione politica federalista incentrata sui comuni, che ci si propone di conquistare anche grazie al terzo elemento di rilievo del suo programma, cioè l’alleanza con i democratici e con i radicali. Da tutto questo deriva la visione federale ed eclettica che Costa ha del partito politico, una visione che verrà confermata anche dalle perplessità con le quali egli accolse la nascita del Partito socialista italiano, nel 1892. Sotto l’impulso di Filippo Turati, il PSI nasceva, infatti, con una sua dottrina, che era il marxismo, e con una sua apparente omogeneità, rompendo da una parte con gli anarchici e dall’altra con la democrazia radicale.
Al contrario, Costa avrebbe voluto evitare lacerazioni che potessero indebolire il movimento di emancipazione popolare. La famiglia socialista, pur rissosa, doveva rimanere unita, perché l’unità -secondo le parole del leader socialista imolese- «non sta solo nell’uniformità». Costa pensava a una visione federale della sinistra, a un grande partito capace di tener conto delle diversità regionali e di ogni gradazione del socialismo. La componente parlamentare avrebbe potuto operare all’interno delle istituzioni, mentre quella libertaria e di base avrebbe garantito un contatto costante con la «questione sociale». In definitiva, era proprio nella diversità e nel pluralismo che Costa vedeva una garanzia di coerenza ed efficacia per il socialismo italiano.
Senza voler azzardare paragoni impropri con l’attualità, mi sembra comunque da rilevare come sia all’ordine del giorno il tema della forma partito-federale. I temi all’attenzione del dibattito pubblico sono il radicamento sul territorio, la volontà di combattere la verticalizzazione e la concentrazione del potere politico, le tendenze populiste, anche se non vanno sottovalutati i rischi legati al potere personale dei leader locali (capi e capetti). Ma quello che mi sta più a cuore sottolineare, di fronte alle miserie culturali che vive oggi l’Italia, è la lezione di laicità che Costa riesce ancora a impartire. L’essere laico significa coltivare l’apertura al dialogo. La strada difficile del dialogo rappresenta, insomma, la cifra del vero laico.
La pluralità delle impostazioni socialiste per lui aveva una funzione critica, che avrebbe permesso al movimento di correggersi dall’interno...
Costa era presente a Genova, nel 1892, quando venne fondato il Partito socialista, ma la situazione del congresso, molto caotica, lo lasciò male, soprattutto a causa degli scontri tra socialisti e anarchici: un dialogo troncato. Per questo non aderì al nuovo partito e tornò a Imola profondamente deluso, anche se poi, nel ’93, i socialisti romagnoli aderiranno al Partito socialista italiano proprio su invito di Costa.
Nel partito che aveva in mente la forma federale avrebbe permesso che, all’interno di esso, trovassero cittadinanza tutte le correnti del socialismo e tutte le declinazioni regionali del movimento di emancipazione. Era ben consapevole dell’infinita varietà territoriale e culturale della penisola.
Era la fiducia in un’organizzazione politico-sociale imperniata sulle autonomie locali?
Sì. Al di là del fatto che all’inizio degli anni ’90 si potesse effettivamente fare un partito federale e ragionare con gli anarchici, quel che risulta interessante è la complessità di Costa, i problemi che voleva far emergere, anche perché, tante volte, le visioni problematiche e contraddittorie sono più interessanti di quelle monolitiche. Carlo Rosselli, nel 1932, in esilio a Parigi, dedica un saggio bellissimo a Filippo Turati, morto quell’anno. Rosselli conosceva benissimo Turati, gli era molto affezionato, ma in questo saggio gli muove una critica proprio relativa alla svolta del 1892.
Rosselli non cita Costa - può darsi che non fosse neanche a conoscenza delle perplessità di Costa sull’operato di Turati - e scrive che Turati aveva ragioni da vendere quando dichiarava incompatibile il socialismo con la concezione dell’anarchismo individualista, o dell’anarchismo inteso in senso volgare, ma, dall’altra parte, sempre secondo Rosselli, Turati aveva sottovalutato l’apporto di una corrente dell’anarchismo, la comunista-anarchica (quella di Malatesta), che col socialismo non era in antitesi necessaria e anzi, almeno in pratica, poteva servire a correggerne l’eccessiva e pericolosa fiducia accordata all’azione dello Stato.
"La migliore riprova di quanto diciamo - continuava Rosselli - si trova nel fatto che oggi i socialisti sono assai più vicini ad anarchici come il Malatesta o il Fabbri, che non ai vecchi compagni rivoluzionari passati al comunismo dittatoriale”. Come si vede, a trent’anni di distanza ritornavano le stesse questioni, e ritornavano in un’Europa che era completamente cambiata...
La visione di partito osteggiata da Costa, quella che si specchia nello Stato, che è uno Stato nello Stato, è la visione della socialdemocrazia tedesca, ma in Belgio, ad esempio, il partito socialista era ben diverso...
Come accennavo prima, il movimento socialista belga e il suo leader, César De Paepe, furono fondamentali per la riflessione di Costa. Nel 1877, a Gand, si tenne un Congresso universale socialista, promosso dai socialisti fiamminghi di De Paepe e fu lì che le potenti organizzazioni socialiste belghe, che fino ad allora erano state nell’Internazionale libertaria, passarono in un’ottica di socialismo gradualista. A quel congresso era presente anche Costa, allora ancora su posizioni anarchiche insurrezionaliste, ma quel congresso, e le posizioni di De Paepe, lo colpirono tanto che, nella lettera Agli amici di Romagna, cita proprio il congresso di Gand come esempio. In quel congresso, De Paepe sviluppò l’idea di una sinistra federale, cioè di una sinistra aperta alle riforme e alla lotta gradualista all’interno delle istituzioni, ma che non rinunciava a una prospettiva di trasformazione in senso libertario.
Facciamo un passo indietro: la lettera agli amici di Romagna provocò un feroce dibattito, in particolare con gli anarchici, ma mise anche in luce che non erano pochi quelli che, come il gruppo che faceva capo al giornale "La rivendicazione” di Forlì, erano disponibili a sperimentazioni politiche pur restando chiaramente anarchici…
Di questo dibattito è indicativo l’atteggiamento di Cafiero, che nel ’79, al momento della svolta, attacca durissimamente Costa, ma poi, in una famosa lettera del 1882, gli darà ragione. Questo vuol dire che, dei tre principali esponenti del primo anarchismo italiano, Costa, Cafiero e Malatesta, all’inizio degli anni ’80 due sono d’accordo nell’accettare una forma di lotta all’interno delle istituzioni ed è solo Malatesta a rimanere contrario. Questa divergenza è indice del fatto che l’ambiente politico, che negli anni ’70 aveva portato a scegliere l’insurrezionalismo, negli anni ’80 stava profondamente mutando, a cominciare da fatto che, nel 1882 c’è la riforma del suffragio politico, che non solo porta l’elettorato al 6,9%, ma soprattutto cambia il metodo con cui si seleziona l’elettorato stesso. La riforma dell’82, infatti, sancisce che, nel binomio censo-capacità (il binomio che nell’800 decideva chi votava e chi no), l’elemento della capacità diventa sempre più importante a scapito del censo, tant’è che si stabilisce che possono votare tutti quelli che hanno fatto la seconda elementare, indipendentemente dai soldi che guadagnano. L’impegno dei socialisti nell’educazione popolare -quindi le scuole serali, le biblioteche e le università popolari- va visto anche in questo senso, perché educare il popolo significa anche guadagnare potenzialmente dei nuovi elettori.
Nel 1882, Costa entra in Parlamento, vincendo le elezioni nel collegio di Ravenna e divenendo il primo deputato socialista italiano. Nel movimento socialista dell’epoca, e non solo fra gli anarchici, la diffidenza verso il parlamento era molto diffusa e quando Costa si era presentato alle elezioni aveva lasciato intendere che non avrebbe mai prestato giuramento alla monarchia e che quindi, se avesse vinto, per forza di cose avrebbe dovuto rinunciare alla carica. Quando però vinse, nacque un grosso dibattito, nel quale intervenne anche Cafiero che, nella famosa lettera cui ho già accennato, sostenne che Costa doveva entrare in Parlamento per portare lì la voce dei lavoratori. Costa quindi divenne deputato, prestò giuramento di fedeltà alla monarchia (nel 1909 divenne anche presidente della Camera) e fu questo che, alla fin fine, gli anarchici non accettarono.
Va comunque tenuto presente che, all’epoca, i deputati non avevano un’indennità, quindi la scelta di Costa di entrare in Parlamento fu assolutamente una scelta propriamente politica, non certo per il desiderio di benefici personali. In effetti, poi, gli interventi di Costa alla Camera dei deputati furono veramente gli interventi del portavoce del movimento di emancipazione, non si staccò mai dalla questione sociale, gli rimasero sempre ben presenti i problemi delle classi popolari.
Tra il 1888 e il 1889 l’allargamento del suffragio viene portato anche nel voto amministrativo ed è proprio questo cambiamento a fare sì che, nelle amministrative dell’89, i socialisti di Costa, alleati ai repubblicani e ai democratici, riescano a vincere le elezioni amministrative a Imola, che così diventa il primo comune italiano a guida socialista. Fu un fatto epocale, anche perché, oggi, Imola può apparire un centro periferico, ma all’epoca non lo era per niente, aveva oltre 30.000 abitanti ed era uno dei fulcri, come Reggio Emilia, del movimento di emancipazione popolare in Italia, tant’è che vi si tenne il Congresso nazionale del Partito socialista italiano del 1902, così come se ne doveva tenere uno nel 1894, che venne proibito da Crispi.
Puoi parlarci di dell’esperienza amministrativa Costa?
All’indomani della vittoria dell’89, Costa assume due posti chiave: assessore alla Pubblica istruzione e vice-presidente della Congregazione di Carità. Riguardo all’assessorato alla Pubblica istruzione, Costa si dà concretamente da fare per incrementare le borse di studio e l’educazione popolare (scuole elementari, serali, domenicali). Come vice-presidente, e poi presidente, della Congregazione di Carità, invece, Costa opera per cambiare la tradizionale logica della carità verso i vinti, muovendo verso un sistema di previdenza più moderno.
La Congregazione di Carità era un’istituzione del Comune che riuniva le Opere pie del circondario e aveva una importanza fondamentale per le classi popolari, perché non esisteva un welfare state e lo Stato liberale, fino agli inizi del ’900, si disinteressò della questione sociale, demandando tutto alla beneficenza. L’innovazione portata in questo campo dall’amministrazione popolare di Imola -una innovazione che poi l’ha resa un esempio per tante altre amministrazioni dell’epoca- consiste in una gestione legata al riconoscimento dei problemi sociali. Ad esempio, il Comune di Imola interveniva direttamente per alleviare la condizione dei lavoratori costretti a emigrare in cerca di lavoro; finanziava le "cucine economiche” (cioè mense pubbliche, a basso prezzo, o addirittura gratuite, per i meno abbienti) e i dormitori pubblici. Cominciava ad articolarsi un welfare locale, che comprendeva anche la costruzione di abitazioni popolari, le "case operaie”. Un’altra questione particolarmente interessante è poi quella delle municipalizzazioni.
A partire dagli ultimi anni dell’800, non solo a Imola ma in tutta Italia (soprattutto, però, nella parte centro-settentrionale del Paese), le amministrazioni locali cominciarono a orientarsi verso la municipalizzazione dei servizi di fornitura di acqua, gas ed energia elettrica. Inizialmente si trattò di un fenomeno locale spontaneo, che vide all’avanguardia le amministrazioni socialiste, poi venne regolato dalla Legge Giolitti del 1903. Alla base di questo movimento c’era la consapevolezza che i crescenti bisogni dei centri urbani e delle classi popolari non potevano più essere fronteggiati da una gestione privata dei servizi, i quali invece potevano essere presi in carico dalle amministrazioni locali consentendo così sia dei prezzi migliori per gli utenti, sia una garanzia del servizio.
Proprio la legge del 1903 prevedeva dei referendum comunali nei quali i cittadini potevano esprimere il proprio favore, o la propria contrarietà, ai provvedimenti di municipalizzazione. L’istituto del referendum locale venne abolito dal fascismo e non è stato più ripreso nell’Italia repubblicana, ma questa è stata una perdita secca, perché era veramente l’espressione di una sana democrazia dal basso. Il referendum comunale più significativo che si svolse a Imola è quello del 1908, che riguardava l’aumento delle tasse comunali. Il Comune di Imola si rivolse agli elettori e disse, grosso modo: "Nel 1906 abbiamo municipalizzato l’energia elettrica, in precedenza l’officina del gas. Questi e altri servizi comportano dei costi, quindi siamo costretti ad aumentare le tasse locali di tot: siete favorevoli o contrari?” Il risultato fu una vittoria schiacciante: 1235 elettori per il "sì”, 154 per il "no” e 37 voti nulli. Il 90% dei cittadini, quindi, si dichiararono favorevoli all’aumento delle tasse per garantire migliori servizi. E’ chiaro che referendum di questo tipo, per un’amministrazione, sono una legittimazione democratica straordinaria ed infatti questa politica proseguì e nel 1912 ci fu l’ultima municipalizzazione, quella dell’acqua. A tutto questo, poi, ci sarebbe da aggiungere il peso avuto da Costa, e dalla sua visione di un socialismo decentrato, nelle cooperative, nel mutuo soccorso, nelle casse rurali, nelle case del popolo, nelle università popolari.
Parlavi all’inizio di Costa come nostro contemporaneo...
Sono molte le riflessione sui problemi e le prospettive della nostra democrazia che ci sono suggerite da Costa. Basti pensare che il suo socialismo, il suo profilo autonomistico, sono senza dubbio da collocare all’interno della storia del pensiero federalista e dell’azione autonomistica nell’Italia unita. Come rilevava Gaetano Salvemini, il sistema federale è una scuola di auto-governo e di auto-educazione e come ricordava Norberto Bobbio l’autonomia va intesa in senso etimologico come capacità di dare norme a se stessi. Un necessario richiamo, insomma, alla questione della responsabilità e dei doveri, che si pone controcorrente rispetto all’isolamento dell’ognuno pensi per sé. (In vista del 150° dell’unità d’Italia, sono stati opportunamente ristampati I Doveri dell’Uomo di Giuseppe Mazzini). Chi si impegnava, come Costa, per la trasformazione sociale e intendeva l’utopia come una aspirazione ideale e morale al miglioramento e alla completa dedizione di sé, anteponeva i doveri ai diritti (o, per lo meno, teneva ben presente accanto ai diritti anche i doveri). L’esigenza mi sembra sia, oggi, quella di ricongiungere la questione morale alla tradizione socialista, un nesso che ha caratterizzato per lungo tempo il cosiddetto "modello emiliano” e che affonda le sue radici proprio nell’eredità dei Costa, dei Prampolini e dei Massarenti. Parlo di modello emiliano con riferimento a una cultura e una educazione politica, a virtù civiche e capacità organizzative, a una attenzione ai problemi di tutti... ma magari su questo punto torniamo più tardi.
Un altro aspetto mi sembra da mettere in rilievo, ora, ed è la fiducia di Andrea Costa nel valore dell’agitazione pubblica e della critica sociale. Costa scopre l’importanza dell’opinione pubblica, di una opinione pubblica che in quegli anni va allargandosi, grazie all’ampliamento del suffragio. E qui entra in gioco la sua grande capacità di emozionare chi lo ascoltava. A questo proposito, in molti hanno citato le memorie di Anselmo Marabini pubblicate nel 1949, e in effetti vale la pena rileggerne almeno un brano: «I discorsi di Andrea Costa da me ascoltati nella mia adolescenza non solo mi entusiasmavano per la loro eloquenza e per la loro passione, ma le cose che egli diceva, l’eccitamento alla lotta per la conquista di una migliore organizzazione sociale mi colpivano e mi conducevano ad esaminare le miserie intorno alle quali vivevo nelle squallide campagne di allora, e pian piano cresceva nella mia coscienza una profonda simpatia verso quella santa lotta di emancipazione umana». È appena il caso di ricordare il nesso tra emozione e partecipazione, ma anche tra emozione e cultura (l’interesse per un tema o un soggetto parte solitamente da una emozione).
Accennavi una riflessione sulla storia del socialismo dalle radici ottocentesche (quelle di Costa e di altri) fino ad arrivare al modello emiliano...
Recentemente, Luciano Cafagna ha ricordato come uno degli elementi di originalità del Partito comunista italiano, guidato da Palmiro Togliatti, sia stata l’abilità di assumere e far propria, nel secondo dopoguerra, la tradizione del socialismo emiliano. Uno "scippo” (come lo definisce argutamente Cafagna) che il PSI non riuscì mai a recuperare, né con Nenni, né con Craxi. Questo passaggio nella storia della cultura politica della sinistra, che si consuma tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, mi sembra un passaggio chiave. Un altro passaggio cruciale arriva 30-40 anni più tardi con la crisi dei partiti della sinistra e delle loro ideologie (manifestatasi fin dagli anni ’80) e con la fine delle stesse formazioni politiche della "Prima repubblica”. Oggi, in genere, delle tradizioni del socialismo non si parla più. E il riformismo della sinistra appare una parola svuotata di senso, proprio per l’assenza di una connessione convincente con una storia politica.
Nel campo ex socialista (ex PSI), mi sembra rimanga il nodo di Craxi: ho visto il tentativo di costruire una genealogia politica che va da Turati a Craxi senza soluzione di continuità, passando per Pertini e per Nenni, ma è evidente come la cosa non stia in piedi, per lo meno per quanto riguarda la questione morale. Nel campo ex-comunista, si preferiscono i riferimenti alla democrazia americana, nella persona di Obama (si pensi a Veltroni, ad esempio), oppure a una socialdemocrazia europea che appare però quasi un’entità indistinta, senza articolazione, senza prospettiva storica (si pensi a D’Alema e alla sua Fondazione).
Nel modello socialdemocratico, così come si è delineato in Europa a partire dagli anni tra le due guerre mondiali, è ingombrante la presenza dello Stato, del centralismo e del dirigismo, e sono convinto abbia ragione Michele Salvati quando afferma che è un modello che ha esaurito la sua vitalità. Ecco allora che credo si imponga un nuovo inizio e penso che molti spunti di interesse possa fornire il primo socialismo italiano ed europeo: mi riferisco alla molteplicità delle scuole che lo caratterizzavano, al suo profilo autonomista e federalista, alla fantasia istituzionale che esprimeva.
Pubblicato da Salvatore Lo Leggio a 15:48
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biografia di andrea costa
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/costaand.htm
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Saggi e commenti di politica, letteratura e varia umanità. Ogni domenica un articolo sui fatti della settimana. Ogni lunedì una poesia d'autore. Quasi tutti i giorni pezzi nuovi e pezzi vecchi. Appuntamenti e libri. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
14.8.10
Per il centenario di Andrea Costa (Imola 1851 - 1910). Intervista a Carlo De Maria.
Il centenario della morte di Andrea Costa, l’anarchico che fondò il socialismo italiano, è passato praticamente sotto silenzio: pochi articoli sui quotidiani, un convegno e una mostra nella sua Imola, nessuna riflessione approfondita. In questo piccolo blog sono già presenti un paio di post che utilizzano l’occasione del centenario per rievocare alcuni tra i passaggi più significativi di una grande esperienza etica e politica (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/01/per-il-centenario-di-andrea-costa-imola.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/02/per-il-centenario-di-andrea-costa-imola.html). Oggi vi aggiungo una bella intervista allo storico Carlo De Maria, che ho trovato nell’archivio della benemerita rivista “Una città”, tratta dal numero 175 dello scorso giugno 2010 e realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti. (S.L.L.)
Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa), Diabasis, 2010.
Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano...
E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo.
Puoi parlarci della sua biografia?
Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’"eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista.
Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto), al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris).
A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta "economia sociale” o "economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico). Ci viene restituita una immagine della società civile come luogo della solidarietà: era centrale il rapporto tra autonomia e solidarietà.
Come ha scritto Nadia Urbinati (proprio su "Una città”), associarsi per uno scopo condiviso e scelto autonomamente è l’essenza della democrazia. Il problema è che, nel corso del ’900, in società sempre più rigidamente strutturate, si è spesso smarrito il nesso tra il momento dell’associazione e quello dell’organizzazione: il secondo ha finito per prevalere, soffocando irrimediabilmente il primo. Dal partito-associazione si è passati al partito-organizzazione. Attingere alle origini del socialismo (e mi riferisco, in particolare, al socialismo anarchico) significa anche ridimensionare la polarizzazione tra collettivismo e individualismo. Una antinomia tra due astrazioni - come mi spiegava Pino Ferraris - che è stata fortemente alimentata nel XX secolo dalla sfida tra comunismo e capitalismo e che ha finito, però, per far dimenticare come nell’esperienza vitale non possa esistere società senza individui, così come non esistono individui senza società.
Non vorrei far passare l’idea troppo semplificata di un XX secolo come periodo di chiusura, rispetto a idee fertili elaborate nel secolo precedente. Non corrisponderebbe al vero; ma certo se ci interroghiamo sul modello decentrato del socialismo di fine ’800 e di inizio ’900, su un riformismo municipale dai tanti centri diffusi nella società, non possiamo non ricordare che, storicamente, la sua crisi è segnata, a livello europeo, dall’avvento dei fascismi, dalla crescita degli apparati statali, dall’affermarsi anche a sinistra di una idea tecnocratica e centralistica (spesso autoritaria) nella gestione della politica e dell’economia. Naturalmente, in tutto questo, giocò un ruolo fondamentale anche la crisi economica del 1929-31, per fronteggiare la quale si pensò necessario aumentare l’intervento dello Stato nella società. È il processo che ha portato, per rifarsi alle categorie filosofiche di Aldo Capitini, "all’assoluto dello Stato” (che si afferma proprio negli anni ’20 e ’30 del ’900), al quale si è poi aggiunto, nel secondo dopoguerra, "l’assoluto del benessere”: il consumismo e la frenesia dei consumi (come ricorda spesso Goffredo Fofi). Sono questi assoluti che hanno cancellato l’esperienza del primo socialismo italiano ed europeo, del socialismo decentrato e libertario che attraversa praticamente tutta la vita e l’azione di Costa.
Tuttavia, dicevi che Costa ha ancora un interesse per l’oggi...
Bisogna ricominciare a pensare in termini di un nuovo inizio, credo proprio di sì, ma senza radici e senza tradizioni politiche che costituiscano una ispirazione e un punto di riferimento ideale ho l’impressione che non si vada da nessuna parte. Con riferimento all’attualità: è cosa vana ripetere di essere «riformisti», se poi il termine si rivela svuotato, incapace di agganciarsi a una tradizione di cultura politica, a una storia, o forse sarebbe meglio dire a più storie. Per parlare di Andrea Costa, comunque, conviene partire da alcuni riferimenti cronologici. Dunque, andiamo con ordine.
Nel 1864, a Londra, nasce l’Associazione internazionale dei lavoratori, la Prima Internazionale, e fra i fondatori, accanto a Marx ed Engels, ci sono i mazziniani, ci sono gli anarchici mutualisti di Proudhon e altre correnti della sinistra europea.
In virtù di questa pluralità lo statuto dell’Internazionale ha un carattere abbastanza vago e l’unico punto chiaramente fissato riguarda il mutuo appoggio e la comunicazione tra le società operaie europee, il tutto in vista dell’emancipazione dei lavoratori e della riforma generale della società, a sua volta posta nella generica prospettiva di una "nuova umanità”.
Nello stesso 1864, Michail Bakunin - nobile russo passato all’attività antizarista e democratica - arriva in Italia seguendo l’eco delle imprese garibaldine, una eco arrivata perfino in Siberia, da dove Bakunin era fuggito dopo alcuni anni di prigionia. Dapprima Bakunin si stabilisce a Firenze, poi va a Napoli ed è lì che cominciano a nascere le "Fratellanze”, cioè le sezioni della "Alleanza internazionale della democrazia socialista”, l’organizzazione che Bakunin sta costituendo e che presto confluirà nella Prima Internazionale. Il rivoluzionario russo trova seguito soprattutto fra gli elementi della sinistra repubblicana, da cui infatti vengono Alberto Mario, a Firenze, e Saverio Friscia, Carlo Gambuzzi, Giuseppe Fanelli (che sarà poi l’iniziatore del movimento anarchico in Spagna) a Napoli.
Le "Fratellanze” bakuniniste sono, di fatto, le prime cellule del socialismo in Italia, ma solo all’inizio degli anni ’70 si afferma la prima, vera e propria, generazione di anarchici italiani. Una generazione memorabile, nata intorno al 1850: tra di loro, Carlo Cafiero, nato nel 1846 in Puglia ma da una famiglia originaria di Meta di Sorrento, il campano Errico Malatesta (1853) e il romagnolo Andrea Costa (1851). Nel giugno 1872, a Rimini, si tiene il congresso della Federazione italiana dell’Internazionale, ed è proprio qui che viene fissato l’indirizzo libertario del primo socialismo italiano, influenzato da Bakunin e dai suoi seguaci: Costa, Cafiero e Malatesta. Nello stesso 1872, però, si arriva anche a una serie di scontri interni all’Associazione internazionale dei lavoratori che porterà alla sua spaccatura. Dapprima, il Consiglio generale dell’Internazionale, guidato da Marx, espelle Bakunin con l’accusa di manovre scissionistiche, per tutta risposta a Saint-Imier, in Svizzera, nasce il movimento anarchico internazionale, al quale aderiscono le federazioni italiana, francese, belga, spagnola, russa.
Il movimento socialista italiano, alla sua nascita, ha quindi un indirizzo libertario, anarchico, e fortemente insurrezionalista ed è anche in virtù di questa impostazione che, già nel 1874, comincia la stagione dei tentativi insurrezionali, cioè della "propaganda col fatto”. Il primo di questi tentativi è a Bologna - Costa è tra gli organizzatori e anche Bakunin partecipa, nonostante sia ormai anziano - ma abortisce perché le forze dell’ordine smantellano l’organizzazione prima dell’inizio dei moti. Bakunin riesce a fuggire, mentre Costa viene incarcerato e si farà due anni di prigione, prima di essere assolto nel processo del ’76. Viene assolto anche perché quell’anno cambia decisamente il quadro politico italiano che, col primo governo Depretis, vede la sinistra liberale subentrare alla destra storica, che aveva governato fino ad allora. È da ricordare che a quel processo testimoniò, in difesa di Costa, anche Carducci, di cui Costa seguiva le lezioni e del quale si era guadagnato la stima. Costa frequentò l’Università a Bologna, dove conobbe bene anche Giovanni Pascoli, ma, non avendo i soldi per un’iscrizione effettiva, seguì l’Università da uditore, per cui non prese mai la laurea. Aveva comunque un’ottima cultura, era un poliglotta e un oratore di talento straordinario. Era di corporatura esile (invecchiando poi ingrassò), non era molto alto e portava degli occhiali tondi, da miope. Sembrava un chierichetto, però aveva un’eloquenza straordinaria e sono molte le testimonianze che sottolineano come i suoi discorsi fossero in grado, oltreché di svolgere concetti importanti, di emozionare moltissimo chi lo ascoltava.
Tornando ai tentativi insurrezionali degli anarchici…
Il secondo tentativo insurrezionale è nel 1877, quando un gruppo guidato da Cafiero, Malatesta e Pietro Ceccarelli, un romagnolo, prova a far insorgere i paesi dei monti del Matese, vicino a Benevento. Dopo pochi giorni, però, questo piccolo gruppo viene accerchiato dalle truppe regie, costretto alla resa e incarcerato (ed è proprio durante la detenzione che Cafiero scriverà il famoso Compendio del Capitale di Marx). Il nuovo fallimento segna la crisi definitiva del metodo insurrezionale, già palesatasi nel ’74.
Nel frattempo, a Milano, aveva cominciato a uscire la seconda serie de "La plebe”, una rivista importantissima diretta da Osvaldo Gnocchi Viani e Enrico Bignami. "La plebe” è un crocevia di tutte le scuole socialistiche italiane ed europee ed è il luogo da cui arrivano in Italia tanti influssi dall’Europa, dai movimenti francese, belga, tedesco. Non è quindi un caso che Costa, nel luglio del 1879, mentre è in carcere in Francia, pubblichi proprio in essa la famosa Lettera ai miei amici di Romagna, che preannuncia la svolta, politica e teorica, che lo porta, dal socialismo anarchico e insurrezionalista, a un socialismo riformatore e gradualista. Questa svolta di Costa è stata a lungo vista solo nei termini relativi alla diatriba ideologica, ma io credo che, per capirla veramente, occorra allargare lo sguardo ai mutamenti politici e istituzionali che avvengono in quel periodo in Italia e in Europa.
La strategia insurrezionale dell’anarchismo, infatti, poteva essere comprensibile e collocarsi con coerenza in una situazione in cui, ad esempio, votava l’1% della popolazione e l’élite di governo era completamente chiusa a prospettive di un allargamento democratico. La situazione, però, comincia a cambiare nel 1876, quando appunto la sinistra storica va al potere e si comincia a parlare di educazione elementare obbligatoria, di allargamento del suffragio, di riduzione delle misure di polizia contro i sovversivi.
Anche in Europa le cose si muovono. Il movimento socialista belga, che era una delle componenti più forti dell’Internazionale anarchica, sul finire degli anni ’70, pur rimanendo di impostazione libertaria, passa nel campo del socialismo gradualista, mentre il Partito operaio francese, all’inizio degli anni ’80, si dichiara favorevole alla partecipazione alle elezioni e si dà un programma amministrativo. In quegli anni Costa gira l’Europa e comprende l’importanza della conquista di alcune libertà fondamentali. La svolta di Costa, però, non è propriamente una svolta dall’anarchismo alla socialdemocrazia, ma è un passaggio dalla prospettiva dell’anarchismo insurrezionalista a un socialismo ancora molto vicino all’idea della rivoluzione libertaria, ma che si apre via via alle esigenze del gradualismo e della lotta parlamentare.
Nel 1880, Costa è di nuovo in Italia (sono gli anni del sodalizio politico e sentimentale con Anna Kuliscioff) e fonda a Rimini -guarda caso- il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che secondo me è il partito più straordinario che sia mai esistito in Italia. Questo non solo perché rappresenta un tornante nella storia del primo movimento socialista italiano, ma soprattutto perché era un partito aperto, libertario, semi-anarchico, con una grande vocazione all’internazionalismo e, nello stesso tempo, con un forte insediamento regionale in Romagna, in Emilia, nel nord delle Marche.
Le caratteristiche programmatiche del partito hanno il loro fulcro nell’idea di associazione, cioè nell’idea di applicare il personalismo associativo a tutte le esigenze della vita. Da questa idea deriva un’impostazione politica federalista incentrata sui comuni, che ci si propone di conquistare anche grazie al terzo elemento di rilievo del suo programma, cioè l’alleanza con i democratici e con i radicali. Da tutto questo deriva la visione federale ed eclettica che Costa ha del partito politico, una visione che verrà confermata anche dalle perplessità con le quali egli accolse la nascita del Partito socialista italiano, nel 1892. Sotto l’impulso di Filippo Turati, il PSI nasceva, infatti, con una sua dottrina, che era il marxismo, e con una sua apparente omogeneità, rompendo da una parte con gli anarchici e dall’altra con la democrazia radicale.
Al contrario, Costa avrebbe voluto evitare lacerazioni che potessero indebolire il movimento di emancipazione popolare. La famiglia socialista, pur rissosa, doveva rimanere unita, perché l’unità -secondo le parole del leader socialista imolese- «non sta solo nell’uniformità». Costa pensava a una visione federale della sinistra, a un grande partito capace di tener conto delle diversità regionali e di ogni gradazione del socialismo. La componente parlamentare avrebbe potuto operare all’interno delle istituzioni, mentre quella libertaria e di base avrebbe garantito un contatto costante con la «questione sociale». In definitiva, era proprio nella diversità e nel pluralismo che Costa vedeva una garanzia di coerenza ed efficacia per il socialismo italiano.
Senza voler azzardare paragoni impropri con l’attualità, mi sembra comunque da rilevare come sia all’ordine del giorno il tema della forma partito-federale. I temi all’attenzione del dibattito pubblico sono il radicamento sul territorio, la volontà di combattere la verticalizzazione e la concentrazione del potere politico, le tendenze populiste, anche se non vanno sottovalutati i rischi legati al potere personale dei leader locali (capi e capetti). Ma quello che mi sta più a cuore sottolineare, di fronte alle miserie culturali che vive oggi l’Italia, è la lezione di laicità che Costa riesce ancora a impartire. L’essere laico significa coltivare l’apertura al dialogo. La strada difficile del dialogo rappresenta, insomma, la cifra del vero laico.
La pluralità delle impostazioni socialiste per lui aveva una funzione critica, che avrebbe permesso al movimento di correggersi dall’interno...
Costa era presente a Genova, nel 1892, quando venne fondato il Partito socialista, ma la situazione del congresso, molto caotica, lo lasciò male, soprattutto a causa degli scontri tra socialisti e anarchici: un dialogo troncato. Per questo non aderì al nuovo partito e tornò a Imola profondamente deluso, anche se poi, nel ’93, i socialisti romagnoli aderiranno al Partito socialista italiano proprio su invito di Costa.
Nel partito che aveva in mente la forma federale avrebbe permesso che, all’interno di esso, trovassero cittadinanza tutte le correnti del socialismo e tutte le declinazioni regionali del movimento di emancipazione. Era ben consapevole dell’infinita varietà territoriale e culturale della penisola.
Era la fiducia in un’organizzazione politico-sociale imperniata sulle autonomie locali?
Sì. Al di là del fatto che all’inizio degli anni ’90 si potesse effettivamente fare un partito federale e ragionare con gli anarchici, quel che risulta interessante è la complessità di Costa, i problemi che voleva far emergere, anche perché, tante volte, le visioni problematiche e contraddittorie sono più interessanti di quelle monolitiche. Carlo Rosselli, nel 1932, in esilio a Parigi, dedica un saggio bellissimo a Filippo Turati, morto quell’anno. Rosselli conosceva benissimo Turati, gli era molto affezionato, ma in questo saggio gli muove una critica proprio relativa alla svolta del 1892.
Rosselli non cita Costa - può darsi che non fosse neanche a conoscenza delle perplessità di Costa sull’operato di Turati - e scrive che Turati aveva ragioni da vendere quando dichiarava incompatibile il socialismo con la concezione dell’anarchismo individualista, o dell’anarchismo inteso in senso volgare, ma, dall’altra parte, sempre secondo Rosselli, Turati aveva sottovalutato l’apporto di una corrente dell’anarchismo, la comunista-anarchica (quella di Malatesta), che col socialismo non era in antitesi necessaria e anzi, almeno in pratica, poteva servire a correggerne l’eccessiva e pericolosa fiducia accordata all’azione dello Stato.
"La migliore riprova di quanto diciamo - continuava Rosselli - si trova nel fatto che oggi i socialisti sono assai più vicini ad anarchici come il Malatesta o il Fabbri, che non ai vecchi compagni rivoluzionari passati al comunismo dittatoriale”. Come si vede, a trent’anni di distanza ritornavano le stesse questioni, e ritornavano in un’Europa che era completamente cambiata...
La visione di partito osteggiata da Costa, quella che si specchia nello Stato, che è uno Stato nello Stato, è la visione della socialdemocrazia tedesca, ma in Belgio, ad esempio, il partito socialista era ben diverso...
Come accennavo prima, il movimento socialista belga e il suo leader, César De Paepe, furono fondamentali per la riflessione di Costa. Nel 1877, a Gand, si tenne un Congresso universale socialista, promosso dai socialisti fiamminghi di De Paepe e fu lì che le potenti organizzazioni socialiste belghe, che fino ad allora erano state nell’Internazionale libertaria, passarono in un’ottica di socialismo gradualista. A quel congresso era presente anche Costa, allora ancora su posizioni anarchiche insurrezionaliste, ma quel congresso, e le posizioni di De Paepe, lo colpirono tanto che, nella lettera Agli amici di Romagna, cita proprio il congresso di Gand come esempio. In quel congresso, De Paepe sviluppò l’idea di una sinistra federale, cioè di una sinistra aperta alle riforme e alla lotta gradualista all’interno delle istituzioni, ma che non rinunciava a una prospettiva di trasformazione in senso libertario.
Facciamo un passo indietro: la lettera agli amici di Romagna provocò un feroce dibattito, in particolare con gli anarchici, ma mise anche in luce che non erano pochi quelli che, come il gruppo che faceva capo al giornale "La rivendicazione” di Forlì, erano disponibili a sperimentazioni politiche pur restando chiaramente anarchici…
Di questo dibattito è indicativo l’atteggiamento di Cafiero, che nel ’79, al momento della svolta, attacca durissimamente Costa, ma poi, in una famosa lettera del 1882, gli darà ragione. Questo vuol dire che, dei tre principali esponenti del primo anarchismo italiano, Costa, Cafiero e Malatesta, all’inizio degli anni ’80 due sono d’accordo nell’accettare una forma di lotta all’interno delle istituzioni ed è solo Malatesta a rimanere contrario. Questa divergenza è indice del fatto che l’ambiente politico, che negli anni ’70 aveva portato a scegliere l’insurrezionalismo, negli anni ’80 stava profondamente mutando, a cominciare da fatto che, nel 1882 c’è la riforma del suffragio politico, che non solo porta l’elettorato al 6,9%, ma soprattutto cambia il metodo con cui si seleziona l’elettorato stesso. La riforma dell’82, infatti, sancisce che, nel binomio censo-capacità (il binomio che nell’800 decideva chi votava e chi no), l’elemento della capacità diventa sempre più importante a scapito del censo, tant’è che si stabilisce che possono votare tutti quelli che hanno fatto la seconda elementare, indipendentemente dai soldi che guadagnano. L’impegno dei socialisti nell’educazione popolare -quindi le scuole serali, le biblioteche e le università popolari- va visto anche in questo senso, perché educare il popolo significa anche guadagnare potenzialmente dei nuovi elettori.
Nel 1882, Costa entra in Parlamento, vincendo le elezioni nel collegio di Ravenna e divenendo il primo deputato socialista italiano. Nel movimento socialista dell’epoca, e non solo fra gli anarchici, la diffidenza verso il parlamento era molto diffusa e quando Costa si era presentato alle elezioni aveva lasciato intendere che non avrebbe mai prestato giuramento alla monarchia e che quindi, se avesse vinto, per forza di cose avrebbe dovuto rinunciare alla carica. Quando però vinse, nacque un grosso dibattito, nel quale intervenne anche Cafiero che, nella famosa lettera cui ho già accennato, sostenne che Costa doveva entrare in Parlamento per portare lì la voce dei lavoratori. Costa quindi divenne deputato, prestò giuramento di fedeltà alla monarchia (nel 1909 divenne anche presidente della Camera) e fu questo che, alla fin fine, gli anarchici non accettarono.
Va comunque tenuto presente che, all’epoca, i deputati non avevano un’indennità, quindi la scelta di Costa di entrare in Parlamento fu assolutamente una scelta propriamente politica, non certo per il desiderio di benefici personali. In effetti, poi, gli interventi di Costa alla Camera dei deputati furono veramente gli interventi del portavoce del movimento di emancipazione, non si staccò mai dalla questione sociale, gli rimasero sempre ben presenti i problemi delle classi popolari.
Tra il 1888 e il 1889 l’allargamento del suffragio viene portato anche nel voto amministrativo ed è proprio questo cambiamento a fare sì che, nelle amministrative dell’89, i socialisti di Costa, alleati ai repubblicani e ai democratici, riescano a vincere le elezioni amministrative a Imola, che così diventa il primo comune italiano a guida socialista. Fu un fatto epocale, anche perché, oggi, Imola può apparire un centro periferico, ma all’epoca non lo era per niente, aveva oltre 30.000 abitanti ed era uno dei fulcri, come Reggio Emilia, del movimento di emancipazione popolare in Italia, tant’è che vi si tenne il Congresso nazionale del Partito socialista italiano del 1902, così come se ne doveva tenere uno nel 1894, che venne proibito da Crispi.
Puoi parlarci di dell’esperienza amministrativa Costa?
All’indomani della vittoria dell’89, Costa assume due posti chiave: assessore alla Pubblica istruzione e vice-presidente della Congregazione di Carità. Riguardo all’assessorato alla Pubblica istruzione, Costa si dà concretamente da fare per incrementare le borse di studio e l’educazione popolare (scuole elementari, serali, domenicali). Come vice-presidente, e poi presidente, della Congregazione di Carità, invece, Costa opera per cambiare la tradizionale logica della carità verso i vinti, muovendo verso un sistema di previdenza più moderno.
La Congregazione di Carità era un’istituzione del Comune che riuniva le Opere pie del circondario e aveva una importanza fondamentale per le classi popolari, perché non esisteva un welfare state e lo Stato liberale, fino agli inizi del ’900, si disinteressò della questione sociale, demandando tutto alla beneficenza. L’innovazione portata in questo campo dall’amministrazione popolare di Imola -una innovazione che poi l’ha resa un esempio per tante altre amministrazioni dell’epoca- consiste in una gestione legata al riconoscimento dei problemi sociali. Ad esempio, il Comune di Imola interveniva direttamente per alleviare la condizione dei lavoratori costretti a emigrare in cerca di lavoro; finanziava le "cucine economiche” (cioè mense pubbliche, a basso prezzo, o addirittura gratuite, per i meno abbienti) e i dormitori pubblici. Cominciava ad articolarsi un welfare locale, che comprendeva anche la costruzione di abitazioni popolari, le "case operaie”. Un’altra questione particolarmente interessante è poi quella delle municipalizzazioni.
A partire dagli ultimi anni dell’800, non solo a Imola ma in tutta Italia (soprattutto, però, nella parte centro-settentrionale del Paese), le amministrazioni locali cominciarono a orientarsi verso la municipalizzazione dei servizi di fornitura di acqua, gas ed energia elettrica. Inizialmente si trattò di un fenomeno locale spontaneo, che vide all’avanguardia le amministrazioni socialiste, poi venne regolato dalla Legge Giolitti del 1903. Alla base di questo movimento c’era la consapevolezza che i crescenti bisogni dei centri urbani e delle classi popolari non potevano più essere fronteggiati da una gestione privata dei servizi, i quali invece potevano essere presi in carico dalle amministrazioni locali consentendo così sia dei prezzi migliori per gli utenti, sia una garanzia del servizio.
Proprio la legge del 1903 prevedeva dei referendum comunali nei quali i cittadini potevano esprimere il proprio favore, o la propria contrarietà, ai provvedimenti di municipalizzazione. L’istituto del referendum locale venne abolito dal fascismo e non è stato più ripreso nell’Italia repubblicana, ma questa è stata una perdita secca, perché era veramente l’espressione di una sana democrazia dal basso. Il referendum comunale più significativo che si svolse a Imola è quello del 1908, che riguardava l’aumento delle tasse comunali. Il Comune di Imola si rivolse agli elettori e disse, grosso modo: "Nel 1906 abbiamo municipalizzato l’energia elettrica, in precedenza l’officina del gas. Questi e altri servizi comportano dei costi, quindi siamo costretti ad aumentare le tasse locali di tot: siete favorevoli o contrari?” Il risultato fu una vittoria schiacciante: 1235 elettori per il "sì”, 154 per il "no” e 37 voti nulli. Il 90% dei cittadini, quindi, si dichiararono favorevoli all’aumento delle tasse per garantire migliori servizi. E’ chiaro che referendum di questo tipo, per un’amministrazione, sono una legittimazione democratica straordinaria ed infatti questa politica proseguì e nel 1912 ci fu l’ultima municipalizzazione, quella dell’acqua. A tutto questo, poi, ci sarebbe da aggiungere il peso avuto da Costa, e dalla sua visione di un socialismo decentrato, nelle cooperative, nel mutuo soccorso, nelle casse rurali, nelle case del popolo, nelle università popolari.
Parlavi all’inizio di Costa come nostro contemporaneo...
Sono molte le riflessione sui problemi e le prospettive della nostra democrazia che ci sono suggerite da Costa. Basti pensare che il suo socialismo, il suo profilo autonomistico, sono senza dubbio da collocare all’interno della storia del pensiero federalista e dell’azione autonomistica nell’Italia unita. Come rilevava Gaetano Salvemini, il sistema federale è una scuola di auto-governo e di auto-educazione e come ricordava Norberto Bobbio l’autonomia va intesa in senso etimologico come capacità di dare norme a se stessi. Un necessario richiamo, insomma, alla questione della responsabilità e dei doveri, che si pone controcorrente rispetto all’isolamento dell’ognuno pensi per sé. (In vista del 150° dell’unità d’Italia, sono stati opportunamente ristampati I Doveri dell’Uomo di Giuseppe Mazzini). Chi si impegnava, come Costa, per la trasformazione sociale e intendeva l’utopia come una aspirazione ideale e morale al miglioramento e alla completa dedizione di sé, anteponeva i doveri ai diritti (o, per lo meno, teneva ben presente accanto ai diritti anche i doveri). L’esigenza mi sembra sia, oggi, quella di ricongiungere la questione morale alla tradizione socialista, un nesso che ha caratterizzato per lungo tempo il cosiddetto "modello emiliano” e che affonda le sue radici proprio nell’eredità dei Costa, dei Prampolini e dei Massarenti. Parlo di modello emiliano con riferimento a una cultura e una educazione politica, a virtù civiche e capacità organizzative, a una attenzione ai problemi di tutti... ma magari su questo punto torniamo più tardi.
Un altro aspetto mi sembra da mettere in rilievo, ora, ed è la fiducia di Andrea Costa nel valore dell’agitazione pubblica e della critica sociale. Costa scopre l’importanza dell’opinione pubblica, di una opinione pubblica che in quegli anni va allargandosi, grazie all’ampliamento del suffragio. E qui entra in gioco la sua grande capacità di emozionare chi lo ascoltava. A questo proposito, in molti hanno citato le memorie di Anselmo Marabini pubblicate nel 1949, e in effetti vale la pena rileggerne almeno un brano: «I discorsi di Andrea Costa da me ascoltati nella mia adolescenza non solo mi entusiasmavano per la loro eloquenza e per la loro passione, ma le cose che egli diceva, l’eccitamento alla lotta per la conquista di una migliore organizzazione sociale mi colpivano e mi conducevano ad esaminare le miserie intorno alle quali vivevo nelle squallide campagne di allora, e pian piano cresceva nella mia coscienza una profonda simpatia verso quella santa lotta di emancipazione umana». È appena il caso di ricordare il nesso tra emozione e partecipazione, ma anche tra emozione e cultura (l’interesse per un tema o un soggetto parte solitamente da una emozione).
Accennavi una riflessione sulla storia del socialismo dalle radici ottocentesche (quelle di Costa e di altri) fino ad arrivare al modello emiliano...
Recentemente, Luciano Cafagna ha ricordato come uno degli elementi di originalità del Partito comunista italiano, guidato da Palmiro Togliatti, sia stata l’abilità di assumere e far propria, nel secondo dopoguerra, la tradizione del socialismo emiliano. Uno "scippo” (come lo definisce argutamente Cafagna) che il PSI non riuscì mai a recuperare, né con Nenni, né con Craxi. Questo passaggio nella storia della cultura politica della sinistra, che si consuma tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, mi sembra un passaggio chiave. Un altro passaggio cruciale arriva 30-40 anni più tardi con la crisi dei partiti della sinistra e delle loro ideologie (manifestatasi fin dagli anni ’80) e con la fine delle stesse formazioni politiche della "Prima repubblica”. Oggi, in genere, delle tradizioni del socialismo non si parla più. E il riformismo della sinistra appare una parola svuotata di senso, proprio per l’assenza di una connessione convincente con una storia politica.
Nel campo ex socialista (ex PSI), mi sembra rimanga il nodo di Craxi: ho visto il tentativo di costruire una genealogia politica che va da Turati a Craxi senza soluzione di continuità, passando per Pertini e per Nenni, ma è evidente come la cosa non stia in piedi, per lo meno per quanto riguarda la questione morale. Nel campo ex-comunista, si preferiscono i riferimenti alla democrazia americana, nella persona di Obama (si pensi a Veltroni, ad esempio), oppure a una socialdemocrazia europea che appare però quasi un’entità indistinta, senza articolazione, senza prospettiva storica (si pensi a D’Alema e alla sua Fondazione).
Nel modello socialdemocratico, così come si è delineato in Europa a partire dagli anni tra le due guerre mondiali, è ingombrante la presenza dello Stato, del centralismo e del dirigismo, e sono convinto abbia ragione Michele Salvati quando afferma che è un modello che ha esaurito la sua vitalità. Ecco allora che credo si imponga un nuovo inizio e penso che molti spunti di interesse possa fornire il primo socialismo italiano ed europeo: mi riferisco alla molteplicità delle scuole che lo caratterizzavano, al suo profilo autonomista e federalista, alla fantasia istituzionale che esprimeva.
Pubblicato da Salvatore Lo Leggio a 15:48
Etichette: Comunismo socialismo movimento operaio, Italia contemporanea, maestri e compagni, storia storie
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biografia di andrea costa
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/costaand.htm
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