Olga benario

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rivoluzionaria e martire

martedì 6 novembre 2007

doloroso rientro a casa dopo avere conosciuto l'ospitalità ed il lavoro italiano!

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Interni

In viaggio sul pullman dei rumeni che fuggono dalle nostre case

Enrico Fierro

Il pugno nello stomaco arriva al posto della dogana di Arad. La frontiera che divide l’Ungheria dalla Romania. Quando sale a bordo di quel torpedone anni Ottanta dove da decine di ore sono ammassati uomini, donne e bambini, una commissaria della «Politia de Frontiera». «Commissar Sef», c’è scritto su una delle mostrine che porta attaccata alla giubba. Capelli biondi, corpo massiccio, volto duro e sguardo preoccupato. «Come vi stanno trattando in Italia?». Occhi bassi e silenzio. «Il nostro governo è allarmato e vi dice che chi di voi non ha un lavoro regolare in Italia deve andar via. In altri paesi dell’Unione europea. In Francia, in Germania, in Spagna. Dovunque ma non lì. L’Italia per i romeni è un paese a rischio. Non ci tornate».

Gli occhi della commissaria sono sempre duri, severi, sembrano rifiutare ogni barlume di dolcezza, ma miracolosamente riescono ad infondere calore, e finanche fiducia. E allora la gente stremata dal sonno, piegata in due da quei sedili troppo stretti che ammazzano le ginocchia, umiliata da corpi che non si lavano da ore, sfinita da un viaggio che promette di non aver mai fine, si scioglie. E parla. Finalmente uomini e donne possono liberare le loro paure. Sfogarsi. Sono nella loro terra. Di fronte hanno un rappresentante del loro governo. Le voci si accavallano, le parole si confondono, i racconti no, perché sono sempre uguali.

Cambiano le città, i nomi dei «padroni», i luoghi, i lavori, la quantità di maledetti euro che ognuno è riuscito a raggranellare per assicurare una vita al limite della dignità a figli, mogli o mariti rimasti nelle sfortunate terre di Romania, ma il denominatore comune è sempre lo stesso. Perché parla di sfruttamento. Parola antica, desueta. Pericolosa da usare oggi che il vocabolario della storia è stato frettolosamente riscritto e i padroni non ci sono più e gli operai sono stati catalogati da moderni intellettuali nella odiosa categoria dei «fannulloni». Ma parola straordinariamente moderna. Attualissima in questa nostra Italia che ha paura dello «straniero». Ieri l’albanese dalla fame antica e dalla mano lesta, o il nigeriano dalla pelle nera come il carbone, oggi il rumeno. Troppo uguale a noi per origini latine, con una lingua che batte sugli stessi denti e produce le stesse identiche parole, troppo simile a noi civilissimi italiani finanche nelle forme bestiali di violenza che riesce a provocare. Forse è per questo che lo odiamo.

Eppure il rumeno ci serve. Per costruire a poco prezzo le nostre case, per lavorare nelle nostre fonderie, per servire ai tavoli dei nostri ristoranti, per accudire, fin nell’intimità estrema di un corpo che non riesce più a contenere i propri stimoli, i nostri vecchi. Per soddisfare le nostre voglie, di sera sul ciglio di una strada consolare, se la rumena è bella e possibilmente ragazzina.

Il cronista non capisce. Sarà il lungo viaggio e quell’idea balsana di farsi venti ore di pullman insieme ai rumeni che dall’Italia tornano a casa, ma la frase di quella commissaria («L’Italia per i rumeni è un paese a rischio») proprio non riesce a comprenderla. Cosa sta accadendo? Cosa è successo in poche ore che abbia potuto far ritenere a un governo di un paese vicino che l’Italia, il paese dell’accoglienza, della civiltà, delle porte aperte da millenni, sia considerato un luogo insicuro per altri europei? Il brutale assassinio di una donna, è la risposta. Ma non basta. E allora, il cronista cerca negli sguardi di quella gente, nel racconto delle storie delle loro vite accenni di risposte.

La ragazza che sta dietro il banco della «Atlassib» (una società rumena che sposta gente da tutta Europa), mi avverte: «Affrettati a fare il biglietto, perché i rumeni partono. Neppure a ferragosto è stato così». «Perché?», chiedo. Lei sorride. «Hanno paura». Compro un posto sul pullman Taranto-Suceava. Arrivo alle 8,30 di domenica mattina alla stazione Tiburtina. Bancarelle, la solita sporcizia da Bronx capitolino, gente che vorrebbe partire e non ha neppure gli 80 euro del biglietto, gente che aspetta. E carabinieri. Manganello in mano scrutano i volti degli stranieri. Si caricano i bagagli. Borsoni made in China, cartoni legati col nastro (caffè, pasta, maglie, vestiti. Pezzetti d’Italia da portare a casa), una bicicletta imballata con la carte dei giornali. Alle nove si parte. I volti sul pullman sono di anziani e giovani, ragazze e uomini fatti. Una donna piange. È venuta a trovare la figlia e il nipotino che vivono a Roma. Il bambino le manda bacetti. «Nonna, nonna». Lei si asciuga gli occhi. Il distacco è duro. Sull’ultima fila di sedili (la più scomoda, che nessuno vuole, con gli spazi più angusti dove avverti tutti i sobbalzi, senti le curve come se fossi su un motoscafo d’altura) una famiglia diversa. Papà, mamma e due ragazzini. Hanno la pelle scura, sono malvestiti. Lei indossa una gonna larga e lunga. Lui un maglione che di battaglie ne ha fatte troppe e le ha perse tutte. Sono rom. Zingari. «Sono quelli che hanno ucciso la donna italiana e fanno vergognare tutti noi rumeni. Gli zingari sono la nostra rovina, e ora il governo italiano ci caccia tutti».

L’autista, prima di partire, ha imbracciato il microfono di bordo e fatto il suo sermone. La gente applaude, dice «da, da», sì, sì. Quei quattro poveri cristi seduti sui sedili in fondo non fiatano neppure. Il razzismo e gli odii che riesce sempre a partorire non sono un monopolio dei ricchi. Accanto a me c’è George. Ha quarant’anni e parla malvolentieri. «Torno a casa, a Ploiesti. Ho lavorato quattro mesi in Italia come fabbro. Porto 700 euro ai miei figli». Quattro mesi in un cantiere edile a piegare ferri, sempre senza contributi, sempre in nero. Come un fantasma del lavoro. «Pagavo 200 euro per l’affitto di un letto in una casa dove c’erano altri rumeni. Mangiavo poco, non uscivo mai, spendevo solo per telefonare a casa. Ecco quello che ho risparmiato».

La prima sosta è in un autogrill di Arezzo. Quindici minuti per svuotarsi la vescica, mangiare qualcosa e fumare. La scena che si vede si ripeterà per le altre cinque soste che faremo in Italia, Austria, Ungheria e poi nelle città della Romania. La gente usa i cessi degli autogrill (tutti sporchi, puzzolenti e tutti a pagamento: 50 cent per liberarsi in quelli italiani, 40 negli ungheresi), ma passa oltre quando attraversa i banchi pieni di ogni ben di dio. Non si spende. Per mangiare tutti tirano fuori dai borsoni panini, mele, bottiglie di acqua minerale. Quelle facce, quel vestire dignitoso, la cura attenta dei soldi guadagnati con fatica, riportano volti e storie che il cronista ha già visto e sentito nella sua gioventù di ragazzo meridionale. Gli zii (Ciccio, Tonino, Gerardo - che in Inghilterra chiamavano chissà perché Charlie - e Carmela, Sabatino che quasi bambino partì dal Molo Beverello di Napoli per il Brasile), una tribù sterminata di cugini con i loro figli che non hanno mai visto l’Italia disseminata in ogni angolo del mondo. Facevano i servi in ogni pizzo del pianeta, ma quando venivano giù al Sud erano vestiti così, come i rumeni: con dignità, perché non volevano sfigurare con i paesani. La signora Paola è triste. «Cinque anni di lavoro buttati via in Italia. Ero badante, curavo sei vecchi a Sacrofano. Dopo l’assassinio di quella povera donna, il mio padrone mi ha cacciata via. Senza un perché. Io e te non abbiamo rapporti, mi ha detto. Non avevo diritti, né contributi. Torno a casa, quei pochi soldi che ho risparmiato facendo di tutto in quella casa, dalla spesa al lavoro più degradante che è quello di pulire un vecchio quando se la fa addosso, serviranno per l’ultimo anno di università di mio figlio». Mi mostra la foto: un ragazzone che vive a Galati, Moldava, città antica (Kalas, la chiamavano i turchi) e poverissima. «Perché - spiega Paola - sono venuti tutti, italiani, turchi, cinesi: hanno comprato le fabbriche dei combinat per quattro soldi e hanno licenziato gli operai. Io ho 57 anni, per vivere devo emigrare ancora».

Sono passate dodici ore, l’Italia è alle nostre spalle. Il pullman è pieno dei nostri odori. Sì, la puzza è davvero portatrice di democrazia. Non distingue: rumeni, italiani, zingari, puzziamo tutti allo stesso modo. Siamo in Ungheria, al primo autogrill. C’è tutto. Finanche un «casino» (senza accento e non si gioca a poker). Le foto delle girls esposte sono una tentazione troppo costosa anche per i viaggiatori più giovani. Due ragazze bionde di Brasov vengono dalla Basilicata. «Siamo badanti. Le famiglie che ci ospitano sono brave, ma quando hanno letto del massacro della povera signora italiana hanno cominciato a guardarci con occhi diversi». Alina, una delle due, torna a casa perché si sposa il fratello. «Mangeremo e faremo il ballo del bacio. Una danza antica, la donna si inginocchia e cinge l’uomo con un fazzoletto di seta». È notte fonda, fa freddo e la sua amica si lascia tentare da due figuri che fanno il gioco del bianco e nero, una sorta di gioco delle tre carte. Le rubano cento euro. Sul pullman gli autisti si danno il cambio alla guida. E all’uso del lettore di cd. Al primo piacciono orrendi rap made in Usa, l’altro, invece, adora le musiche balcaniche. Tutti e due ce le propinano a palla per l’intero viaggio. Liviu è giovane e gli piace scherzare con una bella ragazza mora. «Tu la faccia di uno che lavora non ce l’hai proprio», gli faccio. Lui non si offende.

«In Italia non ci torno più, troppo male. Sono un muratore, ma anche pittore, come dite voi. Il lavoro è tanto, ma sempre in nero. La mattina andavo sulla Palmiro Tiogliatti, a Roma, alle cinque. Lì passano i caporali con i furgoni e ci prendono. Ci portano nei cantieri, lontano, non sappiamo neppure il nome del padrone. Dopo dieci ore di lavoro ci mettono in mano 40 euro ed è finita». E se ti fai male? «Beh, sono cazzi tuoi».

Ore 9,30 del mattino, frontiera di Arad. Prima di arrivarci gli autisti si fanno consegnare 20 euro a passeggero. «Dieci per la polizia ungherese e dieci per i rumeni, così non controllano i bagagli». Paghiamo. Pochi minuti dopo arriva la commissaria. «Non tornate in Italia. Per i rumeni è un paese a rischio». In fondo al pullman, la famiglia di zingari non dice una parola. L’Europa è lontana.




Pubblicato il 06.11.07



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