Olga benario

Olga benario
rivoluzionaria e martire

lunedì 5 novembre 2007

Maurizio Chierici: immigrazione sfida del futuro

Immigrazione sfida del futuro
Maurizio Chierici

http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=70332

Bidonvilles evanescenti ingombrano ogni piazza di Asuncion, capitale del Paraguay. I sacchi della spazzatura diventano baracche dove dormono, mangiano, sopravvivono 15 mila famiglie scacciate dalla campagna per far posto all’oro verde della soia. Benzina al posto del pane. Contadini che non sanno dove mettere radici.

Il latifondo fa i conti: il grano rende il 30 per cento in meno della soia e i proprietari (due per cento della popolazione che amministra il 95 per cento dei terreni) scelgono di riempire la cassa. La gente non conta e non ha voce. Metà paese sbarca il lunario fra le immondizie. Mille più, mille meno non succede niente. Prima o poi il municipio troverà uno spazio fuori mano per far crescere baracche più consistenti, cartoni e lamiere. E la vita degli accampati diventerà la vita di chi si è accampato prima. La stessa infelicità potrà consolarli.

Ripulite le piazze, Assuncion tornerà una città in qualche modo sicura fino alla prossima invasione di nuovi disperati, metafora di ogni civiltà che rifiuta la barbarie dei vagabondi. C’é una festa di immigrati paraguayani nella villas miserias numero 31, attorno a Buenos Aires. Stamberghe piantate nel fango e nella polvere. Da una di queste stamberghe trent’anni fa, villa miseria Fiorito, viveva un ragazzo bravo col pallone. Quando è diventato Maradona non è più tornato a visitare la casetta dalla quale è partito. Il languore di un’orchestra guarany scioglie la nostalgia degli straccioni incantati dalle luci della città irraggiungibile: ballano ma non sorridono. Hanno voglia di tornare nel paese dal quale sono scappati per fame, eppure restano in attesa del miracolo: un posto, magari riconosciuto e non braccia nere. Qualche peso sicuro al giorno. Per il momento si arrangiano: schiavi dei piccoli imprenditori che nascondono il lavoro in fabbriche clandestine. Schiavi di un’emigrazione più dura e concreta: nord coreani che sfruttano i servi della gleba con la precisione sorridente della cultura orientale. Oppure allungano le mani. Rubano e minacciano. L’insicurezza ormai drammatica ha animato i discorsi della presidente eletta Kirchner e degli avversari che le rimproveravano di non proteggere la gente. Parole dure, classe media che per ripicca non vota Cristina nelle grandi città: ogni mondo è paese. Il taxista si spaventa. Dopo il tramonto le villas miserias diventano trappole pericolose, ma l’organizzatore guarany tranquillizza: vi accompagno fino a quando cominciano le strade della città. La tragedia dei rom e delle bindovilles di Roma,esercizio feroce di una violenza che la non vita ha metabolizzato, impensierisce chi guarda le miserie lontane con gli occhi del nostro mondo. A qualche chilometro o a pochi metri dalle favelas di San Paolo, Brasile, le vetrine della Paulista o gli antiquari di Morumbi e i ristoranti che legano alle poltrone le borsette delle signore nell’illusione di frenare le aggressioni delle turbe volanti, insomma, gli operatori normali della società che sembra normale, con quale tranquillità organizzano i commerci del mondo perbene assediato da centinaia di migliaia di spiriti che sono del male, ma anche affamati? Non sempre usano violenza e mercato della droga come lievito delle speranze quotidiane. A volte la fantasia eccita altre soluzioni. I raperos della favela Capào Ridondo, nord di San Paolo, cantano le vite brevi degli spacciatori. Raccontano come il loro racconto diventi pericoloso: ogni canzone finisce con la morte dell’autore. Non sempre è un’invenzione. Ritmi che fanno ballare le discoteche rosa dell’altra città, ma la musica è l’unico legame indolore con l’universo che ogni mattina progettano di saccheggiare. Noi benpensanti resistiamo nei nostri alberghi e nei nostri ristoranti e negli uffici e nei negozi, ma resistiamo senza cercare soluzioni durature che riavvicinino due tribù lontane. Ci difendiamo e basta. Non sempre gli inquilini delle baracche vendono musica. A Buenos Aires i cartoneros, esercito che striscia sui marciapiedi raccogliendo ogni briciola di carta da vendere a riciclatori industriali; i cartoneros, inaugurano un’attività editoriale che ha per materia prima le immondizie. Scatoloni di imballaggio ritagliati in copertine col titolo dell’opera colorata di verde e di rosso. Le offrono agli angoli di Florida, strada del gran passeggio. Dieci pesos, due euro per « Copi La guerra de las mariquitas», guerra delle coccinelle. Coppi, italo argentino disegnava le donne affrante pubblicate da Linus, scriveva racconti e commedie ispirate a Jonesco sul filo autorironico dell’omosessualità; Copi sta diventando il simbolo di una diversità umiliata. Una cartaccia lega in qualche modo le sue pagine dissepolte nelle rovine di qualche stamperia allo sfascio o nelle discariche dove finiscono i libri usati. L’autrice dell’edizione stradale firma con dedica l’opera che sto comprando quasi ne fosse l’autrice. Svolazzo di «Eloisa Cartonera Barilaro, artista plastica », ragazza col sottanone di chi pulisce i marciapiedi. La fantasia la salverà? Sono le immondizie a precisare la differenza tra il nostro mondo e il mondo nel quale le famiglie dei viandanti annegano. Per capire cosa divide la società delle banche e dei computer da milioni di cartoneros ed ermarginati di ogni favelas - America Latina, Africa, l’Asia delle tigri economiche, Europa meno felice- può essere utile cominciare dalle immondizie. Le immondizie restano una tragedia sulla quale vivono corruzioni e camorre. La gente attorno a Napoli non respira mentre si discute all’infinito sul come riciclarle, bruciarle, soprattutto farle sparire. Da Buenos Aires alla Nairobi di padre Alex Zanotelli le immondizie diventano tesori che aiutano la sopravvivenza. Il modello sociale si rovescia. Scavare nei cascami della città dei palazzi, viene reclamato come diritto da chi non sa come andare avanti. Le autorità lo proibiscono: colera in agguato. Ma la gente non si rassegna. A Città del Guatemala la guardia nacional presidia una discarica infinita che incombe sulla capitale per impedire alla folla dei diseredati di riversarsi nel pattume alla ricerca della fortuna. Ma i ragazzi strisciano e non si arrendono. Nella notte spari e bengala per illuminare il cammino dei ladri. Qualche morto senza nome; nessuno ne parla. Anche nella Buenos Aires dalle abitudini borghesi, macroeconomia che vola, il governo si è arreso nei giorni delle elezioni. La proibizione resta, ma ogni pomeriggio dalle cinque alle sei, i cancelli della pattumiera sterminata di José Leon, benevolmente si aprono per lasciare passare la folla che aspetta. File ordinate, guai bruciare il posto dell’altro. Cinque, diecimila “cercatori d’oro” corrono fra i cascami puntando verso gli scatoloni abbandonati dai grandi magazzini: yogurth e latte scaduti da settimane, pesce nauseabondo, frutta marcia Per noi è veleno, per loro è la vita. Escono felici trascinando pacchi di plastica dove hanno insaccato ogni ben di dio. Da mangiare e da vendere nelle bancarelle delle villas miserias. E il colera ? Speriamo di no. Arrivando a Buenos Aires sotto l’ala dell’aereo brilla il tappeto sterminato dei tetti di latta. La città-città diventa un agglomerato grigio, assediato da una periferia che non finisce mai. Ogni mattina si allarga e non solo in questo sud. Città del Messico, 21 milioni di abitanti, cresce di 6 mila persone al giorno e ogni giorno le ruspe tracciano il segno di nuove strade, 100 chilometri dalla colonna dell’angelo d’oro, cuore simbolico di una capitale dove nemmeno i taxista della banlieu sono mai arrivati. Quando le villas miserias (o favelas o pueblos joverens di Lima, o i ranchos di Caracas ) vengono spazzate via e le ruspe abbattono le baracche, noi perbene respiriamo: finalmente si è fatto qualcosa per difendere la sicurezza di chi pretende una vita normale. Sospiro sacrosanto, ma il sollievo è provvisorio. Il nuovo sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macrì, destra alla Berlusconi, ha deciso di espandere un quartiere giardino nello spazio occupato da una villa miseria. Tensioni e proteste sconvolgono le strade. Manifesta chi è contento, manifesta chi è rabbioso: ha conquistato un rifugio evanescente e non vuole perderlo. Fra qualche settimana camion e polizia li butteranno fuori. Dieci-dodicimila profughi da trasferire ai margini di una favela lontana rubando il posto-casa agli sfollati di altre favelas. Come finirà il girotondo tra la società organizzata e la società senza speranza non è facile indovinare. Né quando; né per quanto tempo continueranno a fiorire baracche. L’Europa ha finora sofferto marginalmente questo sfaldamento civile. Sta cominciando ad angosciarci con l’esodo dai paesi dell’est. Servirebbero case, ma non sono le case l’unico problema. Nelle periferie di Parigi allineate sulle fermate dell’ultimo metrò crescono quartieri dignitosi dove vivono magrebini, tunisini, iracheni: sempre islamici. Il dio diverso innescava diffidenza, obbligava all’ emarginazione. Ecco le rivolte di chi non sopporta l’espulsione dal futuro che la città madre sta programmando. Quei fuochi, un anno fa. Arrivano ucraini, ungheresi, polacchi, bulgari, rumeni: cristiani come tutti. La loro ondata rivela che la religione era solo l’alibi emotivo per difendere la discriminazione: paura e tensione non cambiano. E l’ostracismo resta. Le soluzioni sono sempre opposte: fermare l’emigrazione con la forza, reprimerla seminando paura, oppure elaborare una morale sociale inedita per non chiudere sotto i tetti di latta gli stranieri che sbarcano nella nostra tranquillità attraversando le frontiere della fame. Le squadre della morte di Rio de Janeiro insistono con la soluzione forte. Poliziotti che fanno gli straordinari. Mattanze dei bambini di strada, ladri che in un lampo vuotano i negozi. I loro corpi vengono esibiti per un intero giorno davanti alla vetrina che stavano saccheggiando. Il fascismo della ritorsione romana non ha inventato niente. Ma la paura non spegne la necessità. E l’emigrazione è l’alluvione che non si ferma in ogni tropico del mondo. E la violenza si moltiplica; la rabbia cresce. In Salvador, Guatemala e Nicaragua si gonfia il mostro delle “pandillas”, bande armate di adolescenti. Affrontano armi alla mano le polizie. Ogni anno in un paesino che non ha mai fatto guerra a nessuno - El Salvador, appunto - vengono uccise 60 persone ogni mille abitanti, statistica irachena nel nome dell’integralismo della rapina e della difesa. Perché allarmarci ? Sono i popoli delle banane, dovranno crescere per imparare la decenza, ma non è così. L’allarme del governatore della Florida, feudo famiglia Bush, riguarda l’aumento del 200 per cento di bande giovanili criminali , ormai 7 mila attorno a Miami. Pericolo da affrontare con l’emergenza di una guerra per stroncare i tentacoli di un terrore che sconvolge il centro delle città . Città e disperazione è la scommessa del futuro. I muri non bastano anche perché la proiezione delle nazioni unite annuncia che nel 2050 metà della popolazione del mondo potrebbe vivere attorno alle luci di metropoli sconvolte da aggressioni e spedizioni punitive. E allora ? Mentre tramonta il liberismo selvaggio che mette in conto guerre ed invasioni per garantire la continuità delle nostre abitudini, é necessaria l’elaborazione di una dottrina globale che razionalizzi ricchezze e cultura in modo da non far correre i popoli verso i paesi padroni, i quali diventano paesi invivibili, rissosi e supponenti. Serve una rivoluzione inedita e mai così borghese: la rivoluzione del buonsenso e dell’opportunità. Ogni religione l’invoca, ma ogni Wall Street la condanna. Vendere e vendere per arrotondare i bilanci; conquistare materie prime per garantire le abitudini della tradizione, più telefonini con videogiochi, musica e diretta Tv, costringe a fare i conti senza considerare la vita di un certo tipo di persone. Chiudere l’accumulazione del benessere nella cassaforte che la tecnologia protegge con sensori spietati, quali piaceri potrà garantire ai grattacieli assediati dai tetti di latta dove si raccolgono coloro che non hanno niente da perdere? L’assenza dell’identità rende insopportabili solitudine e bisogni. L’illusione che cultura e tecnologie possano riattivare la ragione, è l’astrazione che nel secolo scorso ha illuso la Germania di Hitler. Perché la cultura ormai non basta alle pance del mondo che chiede, e del mondo che difende il privilegio. Bisogna ricominciare dall’uomo e dalla sua dignità.

Pubblicato il: 05.11.07
Modificato il: 05.11.07 alle ore 8.43
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